I QUINTORIGO,
ULTIMI INNOVATORI DEL ROCK
D
ovrebbe essere ormai sotto gli occhi di tutti l’esaurimento della forza propulsiva della musica pop rock. Resta naturalmente la speranza che qualche artista presto sappia smentire con i fatti tale affermazione, ma da quando è iniziato il nuovo millennio nessuno ha più inventato nulla di nuovo e sembra di essere entrati in un’era di puro revival, tanto che perfino in ambito sperimentale negli ultimi quarant’anni si è ormai provato tutto e oggi si sperimenta, certo, ma senza in realtà inventare un bel nulla. Qualsiasi disco contemporaneo appare a orecchio allenato soltanto un gioco di richiami a lavori di artisti precedenti, come era peraltro già accaduto con la musica classica o con il jazz. Saprete che il genio musicale è, insieme a quello matematico, il più precoce, vedasi ad esempio Mozart, autore delle sue prime composizioni a sei anni d’età. Oggi però i cosiddetti bambini prodigio sono magari assoluti padroni di uno strumento e strabiliano per capacità tecnica quando i loro coetanei giocano ancora con le macchinine, ma più nessuno (nessuno!) scrive brani musicali classici in grado di competere davvero con i grandi pezzi del passato. Non si dice del resto che “ormai tutte le note sono state suonate”? Per necessità dunque l’umanità dovrà rinunciare in ambito musicale a questa fissazione di voler essere originali a tutti i costi. Idea peraltro solo moderna, perché lo stesso Johan Sebastian Bach già tre secoli fa copiava da altri musicisti, tra cui il nostro Vivaldi, rielaborando le altrui composizioni senza scandalo. E così si è continuato a fare nei secoli e nonostante ciò, o forse proprio grazie a ciò, la musica ha continuato a evolversi fino alla stasi contemporanea: nessun nuovo genere musicale è mai stato figlio di padre ignoto.Fattostà che se davvero ulteriori mutamenti non si dovessero rivelare possibili allora noi italiani, che già possiamo vantare un passato musicale illustre, un giorno potremo forse orgogliosamente raccontare di avere annoverato anche gli ultimi veri innovatori della musica moderna internazionale. Perché se innovare significa prendere quello che già c’è, rimescolarlo, rielaborarlo e trasformarlo in qualcosa che prima almeno in parte non c’era, gli ultimi ad averlo saputo fare davvero sono stati gli italianissimi e creativi Quintorigo, il miglior gruppo italiano di sempre, che hanno sì utilizzato ingredienti noti, trovando però una nuova maniera di cucinarli.
I Quintorigo nascono nel 1996, formati da un gruppo di ragazzi romagnoli diplomati in conservatorio e provetti strumentisti. Sono Andrea Costa al violino, Gionata Costa al violoncello, Stefano Ricci al contrabbasso e Valentino Bianchi ai saxofoni, coadiuvati spesso da ospiti che suonano strumenti come il clarinetto o il flicorno. Oltre a loro uno straordinario cantante, John De Leo, capace di rendere la propria voce un vero e proprio strumento aggiunto.
Leggendo la strumentazione scelta dai quattro artisti potrete già in parte intuire in cosa consiste la novità. In passato, negli anni ’70 del novecento, era nato il cosiddetto “progressive”, che aveva la pretesa, partendo dalle sonorità e dai tipici strumenti del rock, e cioè chitarre e basso elettrici, batterie e tastiere, di avvicinare il rock stesso alla complessità della musica classica. I suoi adepti, musicisti in genere dotati di una perfetta padronanza del proprio strumento se non autentici virtuosi, coglievano anche numerose buone intuizioni, ma cadevano vittima delle loro stesse ambizioni, sbrodolandosi sovente in lunghe suite noiose e insopportabili e scadendo in assoli di gran livello tecnico ma fini a sé stessi, del tutto dimentichi del rigore delle sinfonie e dei concerti classici. Non a caso la rivoluzione del punk musicalmente nacque proprio come reazione a quegli eccessi (portando così ad altri eccessi).
Ebbene, i Quintorigo hanno effettuato, primi nella storia del pop, una scelta diametralmente opposta. Rinunciando a chitarre e batteria, utilizzano tecniche e strumenti appartenenti alla tradizione della musica sinfonica e cameristica oppure jazz, di cui hanno a loro volta una padronanza assoluta, e da tali musiche approdano al pop rock con pezzi di breve durata e contenuti, senza le dilatazioni tipiche, ad esempio, della a loro imparentata Third ear band. Contaminando i tre generi sperimentano nel senso più elevato del termine, evitando arroganti solipsismi. Dunque niente sbrodolamenti ma brani a un tempo melodici, energici e incisivi, colti eppure mai presuntuosi. Musica tutto sommato moderatamente orecchiabile e tuttavia impegnativa, inadatta a chi è abituato ad ascoltare solo le canzonette e l’easy listening televisivi e radiofonici. Mitica dimostrazione di coesione e inventiva resta la loro interpretazione, offerta durante i concerti, di “Highway star”, famoso brano dei Deep Purple, storica band dell’hard rock inglese, con il violino di Andrea Costa utilizzato come strumento solista in luogo della chitarra elettrica. Dal vivo i ragazzi hanno sempre saputo donare al brano una straordinaria intensità ed energia, tanto che l’assenza della chitarra non si sente proprio e se gli autori li avessero ascoltati non avrebbero creduto alle loro orecchie. Live d’altronde i Quintorigo presentano con eguale maestria cover rock come di musica classica, ad esempio la “Danza delle spade” di Khacaturian, passando naturalmente per i numerosi brani autografi. Inoltre l’opera dei Quintorigo si caratterizza per la presenza di testi fuori dell’ordinario e privi di banalità.
La formazione originaria pubblica 3 album.
Con “Rospo” (1999), la cui traccia titolo viene anche presentata a Sanremo, i Quintorigo vincono il premio Tenco per la miglior opera prima. Rospo è il disco che meglio di tutti esemplifica il loro sound fatto di aspre melodie e di contaminazioni ed è uno dei più riusciti in assoluto grazie alla sua travolgente forza innovativa. Un po’ tutti i brani sono di qualità, spiccano però la tosta e cattiva “Kristo si!”, la canzone che intitola l’album, suonata con l’accompagnamento di un’orchestra, “Tradimento” dal perfetto impasto sonoro a cui si unisce un cantato che davvero qui suona come fosse un quinto strumento e “Heroes”, magnifica, soffusa cover di David Bowie.
“Grigio” appare l’anno successivo, con la piacevolissima canzone omonima ispirata a Paolo Conte, con la versione in studio della già citata “Highway star” e con brani sempre nel loro tipico stile, validi e mai monocordi anche se meno convincenti rispetto al lavoro precedente. L’album, in origine composto da dieci pezzi, nel 2001 è stato ristampato con l’aggiunta di “Bentivoglio Angelina”, presentata a Sanremo e ovviamente terminata in fondo alla classifica. A parere di chi scrive è il disco meno riuscito della loro discografia.
“In cattività” (2003) è invece forse l’album che da un lato si spinge maggiormente su strade impervie e meno immediate, come accade con le anomale “Clap hands” di Tom Waits e “U.S.A. e getta” e dall’altro si allontana maggiormente dalla forma canzone spingendosi fino a qualche vaga concessione alla suite progressiveggiante, con il curioso racconto in tre atti del “signore inesistente” (“Raptus”), caratterizzato tra l’altro dal cantato discorsivo. Si tratta tuttavia di un’opera coesa e intensa e in cui sono presenti anche quelle melodie dissonanti o dolci ma ad ogni modo sempre fascinose che solo il violino è in grado di offrire, come ad esempio nelle iniziali “Illune” e “Neon-Sun” e nello splendido strumentale “Bogliasco”. E poi c’è la solita manciata di cover, da “Night and day” di Cole Porter allo standard “Darn that dream”, magnificamente interpretato in chiave jazz classica con sax e contrabbasso grandi protagonisti insieme all’onnipresente violino. Insomma un’opera di notevole spessore.
A questi tre titoli va aggiunto “Nel vivo” (2004), un magnifico disco dal vivo registrato durante la tournee di In cattività e allegato in esclusiva al trimestrale di approfondimento musicale “Il mucchio extra.”Dodici riusciti brani tra cui mancano purtroppo i due pezzi live succitati ma dove spicca, in mezzo a varie canzoni interpretate con energia, classe e maestria, una sorprendente “Purple haze” di Jimi Hendrix, sempre con il violino solista in sostituzione della chitarra elettrica.
Nel 2005 il cantante John De Leo viene sostituito da una donna, Luisa Cottifogli, dotata a sua volta di una voce splendida, e con la nuova line up i Quintorigo pubblicano “Il cannone” (2006). Un ottimo disco, raffinato, melodico e jazzato, con brani cantati in italiano e altri in inglese, tra cui anche uno a cappella. Album che magari non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo al loro sound ma che li conferma artisti di grande classe. Probabilmente è il meno sperimentale del lotto e dunque per questo forse pure il più fruibile e orecchiabile della discografia con, ad allargare ulteriormente il loro spettro sonoro, una cover di Bob Marley e una, parzialmente in italiano, di Sting.
Se i Quintorigo fossero angloamericani probabilmente oggi sarebbero considerati una band di culto, adorata da tutta la critica internazionale e con schiere di fans fedelissimi. Invece sono italiani e benché stimati non se li fila quasi nessuno. Provate a stimolare la vostra mente e le vostre orecchie con la grande musica dei Quintorigo, ultimi innovatori dell’epopea pop rock, non ve ne pentirete.
Massimo Bianco