Sia stata pavidità, miopia, adeguamento all’andazzo, complicità diretta o indiretta, interessata o no, fatto sta che questo banco dei colpevoli è bello affollato

Ferrania deindustria

                                    di Nonna Abelarda          versione stampabile

Savona e il suo immediato entroterra hanno subito in questi anni uno stillicidio di deindustrializzazione costante. E’ un dato di fatto, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, come cambiamento di assetti in peggio e riduzione di posti di lavoro, diretti e nell’indotto. Non solo: questo si ripercuote su tutta l’economia. Quante persone abituate a spendere tranquillamente ben più del necessario si ritrovano ora a fare i conti con un portafoglio assottigliato da cassa integrazione, mobilità, prepensionamento, o peggio, disoccupazione?

Non è neppure un’economia del terziario, quindi, che si è sostituita a quella di produzione. Come avrebbe potuto? Certo, un pochino il turismo, le crociere…ma il grosso della situazione è di sofferenza economica. E gli effetti, che pure già sono visibili, lo saranno sempre di più nel tempo. All’economia delle fabbriche si è sostituita quella dei palazzi e degli assurdi centri commerciali. Anche materialmente: li costruiscono proprio sopra le macerie dei vecchi stabilimenti. I capitali sono nelle mani di pochi, che li usano principalmente per speculazioni edilizie ad alto valore aggiunto e non per investimenti con un ritorno consistente in termini di occupazione e sviluppo. Questi nomi sono spesso gli stessi che hanno finito di demolire i resti industriali rastrellandone gli ultimi guadagni. Come massimo sforzo, si punta a sviluppi portuali, (commerciali o turistici) energetici e carboniferi, antiquati, ad altissimo consumo di risorse ambientali e di territorio e bassa incidenza sull’occupazione. Il tutto con la compiacenza e spesso l’appoggio diretto di buona parte della classe politica.

Finché non ci renderemo conto di tutto questo, noi semplici cittadini persi fra passività e indifferenza,  finché non porteremo le cose allo scoperto e cercheremo di porvi rimedio, il resto saranno solo chiacchiere. Che, come noto, stanno a zero.

Non dico che il declino industriale  fosse evitabile, né che sia un fenomeno solo savonese, e neppure che cambiare rotta sia facile.

Certo, molte industrie sono finite in crisi perché obsolete, stroncate dalla concorrenza, troppo inquinanti. (Il drammatico caso Acna insegna). Ma c’è un esempio su tutti, un esempio significativo di disastro annunciato e ignorato, di sperpero di un capitale umano e industriale, il caso di una fabbrica che meritava sorte migliore e avrebbe potuto diventare simbolo di rilancio, invece che di lenta distruzione, con un po’ più di collaborazione e consapevolezza da parte di tutti i diretti interessati, e invece è stata lasciata volutamente agonizzare: sto parlando di Ferrania.

Un ottimo riassunto delle vicende quasi centenarie di questo stabilimento, più che uno stabilimento, anzi, quasi un emblema, quasi un patrimonio storico, lo ha fatto Rocco Mitidieri in un intervento su Uomini Liberi: http://www.uominiliberi.eu/dicembre/requiem.htm

Condivido quasi per intero quello che ha scritto, compreso il senso di struggimento che prova oggi chiunque abbia conosciuto dall’interno quella realtà, fino alle sue conclusioni: ma non condivido del tutto l’analisi dei colpevoli. Il suo è il punto di vista di una persona di produzione, che ha vissuto i tempi migliori. Vorrei completare dalla parte delle ricerche, di chi ha vissuto i primi scricchiolii fino al declino. Comincio con il fare il difensore d’ufficio di 3M. 

Logico che la responsabilità diretta sia di chi, consegnando la fabbrica alla sua “costola” di spin-off Imation, quella che doveva fare il lavoro sporco sui settori in crisi, l’ha praticamente e consapevolmente mandata al macello.

Così come certe “manovre” ad altissimi livelli con Kodak erano in atto già da molto tempo, e vi rientra l’oscuro episodio dello spionaggio industriale, forse addirittura provocato per mettere la fabbrica con le spalle al muro ed evitare noie all’interno di accordi già presi.

Ma prima e al di là di questo, 3M non si è comportata affatto come la classica multinazionale di rapina; ha dato moltissimo, non “il minimo indispensabile”, e non solo in termini di appoggio e investimenti a produzione e ricerche, ma anche e semplicemente mettendo i tecnici a contatto con un vero e proprio paese dei balocchi: un incredibile avanzamento in termini di laboratori, data base, informatica,  tecnologie, comunicazione, informazione (posta elettronica e poi Internet prima di chiunque altro!), sistemi organizzativi, sicurezza, ambiente,  metodi allora nuovi e rivoluzionari di organizzazione del lavoro (erano fra i primi a parlare di team, team leader, progetti, tutti termini che oggi vanno per la maggiore). Tenevano corsi  innovativi e di alto livello. Organizzavano congressi. Mantenevano contatti.  Propiziavano trasferimenti temporanei in sede. Assumevano o trasferivano laureati di varia provenienza, per creare mescolanza di culture e competenze; francesi, inglesi, tedeschi, americani. In anticipo tremendo su qualsiasi industria italiana, anche grande.

Peccato che tutto questo patrimonio sia stato sottovalutato, accolto con indifferenza, se non con ostilità, da buona parte dell’organizzazione della fabbrica, uno “zoccolo duro” molto numeroso e ramificato, anche a livello dirigenziale, che non solo non ha mai saputo adeguarsi, modernizzarsi, cogliere in pieno questa opportunità di progresso e farla fruttare nella prospettiva di camminare un domani con le proprie gambe, ma ha addirittura sempre trattato le ricerche come un corpo estraneo da tenere un po’ a distanza, diffidenti della loro “diversità”, culturale e geografica, orgogliosi del proprio specifico un po’ grezzo e chiuso. Adeguandosi in superficie, per convenienza, per necessità, ma rimanendo impermeabile dentro di sé alle usanze americane, specie quando predicavano correttezza, meno gerarchie, flessibilità di ruoli o magari uguaglianza dei sessi.  Specie quando iniziarono ad arrivare tanti laureati giovani, anche donne ( “quante ingegnere! Speriamo non facciano troppi danni”  disse il direttore di fabbrica un giorno, a una riunione convocata proprio sulla parità per le tecniche donne).

Non è vero che non siano mai partite ricerche su nuovi sistemi, sul digitale. C’erano già all’inizio anni ’80, sul radiografico. Solo che sono state pesantemente affossate, spesso per beghe interne di potere o per schiacciare elementi troppo brillanti, da cui i capi temevano di essere sopravanzati. E sorti analoghe subirono anche i gruppi di ricerca su nuove tecnologie, sponsorizzati da 3M all’inizio dell’ ultima crisi, gruppi la cui incapacità di fornire vie d’uscita alla fabbrica dipese anche da miopi boicottaggi dei capi locali,  mancanza di lungimiranza, sproporzioni fra gli investimenti, legati più a motivi di politica interna e promozione delle persone che a scegliere le opportunità migliori.  Se gli investimenti erano concentrati sul fotocolor, era anche perché c’era un certo management che non vedeva altro, il radiografico era appena tollerato, benché fonte dei maggiori introiti,  al punto che, quando il settore fu venduto, con un piede della fabbrica nella fossa, qualche residuo del  “partito” fotocolor ottusamente esultò per la “vittoria”  finale. 

Un’altra cosa da riconoscere agli  americani è una loro forma di onestà: 3M prima, persino Imation poi, hanno sempre spiattellato in faccia cosa intendevano fare. Non hanno mai mentito più del necessario.

Da anni i manager 3M alle riunioni con gli alti dirigenti avvisavano della crisi, e delle conseguenze che avrebbe avuto. Addirittura, tutti i dettagli del passaggio del radiografico a Kodak, brevetti, royalties ecc., si vennero a sapere in riunione da inviati Imation, non dai massimi dirigenti italiani,  che avevano iniziato una specie di congiura dell’omertà. E prima ancora, agli esordi, Imation aveva detto chiaramente, in riunione con i quadri, che intendeva trattare la fabbrica da “cash cow”, da mucca da mungere.

Mitidieri dice che allora i quadri si affollarono preoccupati a chiedere spiegazioni ai capi, i quali tentarono penosamente di rassicurarli.

Può essere. Comunque,  non si sarebbe dovuti certo rimanere a quelle assicurazioni: era allora, quando si sarebbe stati ancora in tempo, il momento di protestare sul Vispa, di scrivere ai politici, ai giornali. Ma tutti zitti, per paura di perdere il prossimo aumentino. Tutti incerti, pavidi, tutti preoccupati di salvare il proprio “particulare” più che la fabbrica, e assolutamente privi del gene della protesta organizzata.

Con l’avvento di Imation, che contrariamente a 3M si disinteressò completamente dell’organizzazione aziendale, limitandosi a raccogliere gli utili, e ancor più dalla cessione del radiografico in poi, iniziò e si completò la riscossa del management locale, la vendetta dello zoccolo duro mai convertito al progresso multinazionale. E se ne videro tutti gli effetti, uno dopo l’altro: basta mentalità aperta, basta organizzazione flessibile e multilivello; al loro posto un arretramento pauroso, dirigenti da una parte, a far quadrato con una sistematica congiura del silenzio, dipendenti dall’altra, sempre più schiacciati in basso. Una grezza fabbrichetta di produzione.

Quelli delle ricerche sempre più umiliati ed emarginati. Finalmente messi al loro posto, questi parassiti! Iniziarono vere e proprie forme di mobbing, verso i singoli o  di gruppo. Era chiaro che il laboratorio non serviva più, nel destino già programmato della fabbrica, anzi, delle aree della fabbrica. Lo si teneva in piedi per motivi di apparenza, per politica sindacale e con i media, ma solo di facciata, e dietro poteva accadere di tutto. Si continuava la politica iniziata da tempo, di riduzione del personale con prepensionamento, e si sperava che i laureati, pressati, dessero spontaneamente le dimissioni. Ma la crisi lavorativa internazionale, ben peggiore di quanto si dica e si sappia, faceva sì che persino molti fra i ricercatori stranieri non trovassero, né in patria né in altri paesi europei, posti per andarsene. Figurarsi gli italiani: solo i più giovani o quelli disposti a fare tutt'altri lavori riuscivano a licenziarsi. Gli altri, costretti a rimanere e subire. Ma sempre e comunque incapaci di proteste. Intanto i dirigenti erano intoccabili, numerosissimi, anche quelli in età da pensione erano lasciati al proprio posto, arrivarono a essere uno ogni dieci dipendenti, il che per una ditta ormai piccola che in teoria doveva risanarsi era una aberrazione. Ma quando tentai, unica, di farlo notare in assemblea mal me ne incolse. Omertà innanzitutto.

Insomma, la faccio breve, a questo punto, il resto è abbastanza noto: volevo solo rimarcare che quando finalmente si è iniziato a strillare di fabbrica strategica, di rilancio, di nuove tecnologie, altro che buoi scappati, era ipocrisia bella e buona, della peggior specie.  Il laboratorio non esisteva più: non c’era più niente da salvare, se non la faccia dei politici, in questo abilissimi, da Scaiola che disinvoltamente, quasi en passant, affermava: “abbiamo salvato Ferrania” mentre trecento si avviavano alla cassa, a Burlando che ora parla con aria convinta di pannelli fotovoltaici e investimenti, dopo un altro bello scossone occupazionale. 

Però, siamo giusti, se proprio vogliamo allestire un banco degli imputati, facciamo un bell’elenco delle colpe e dei gradi di responsabilità: va bene accusare al primo posto la multinazionale “cattiva” , che da mamma che era (eh, sì, la chiamavano tutti così, a Ferrania: “mamma 3M”, il che la dice lunga) si è trasformata in feroce matrigna. Va bene al secondo posto i politici, gli unici veramente che avrebbero potuto fare qualcosa. Ma di cosa sono colpevoli? Di esseri rimasti indifferenti alle sorti di una entità industriale preziosa e unica nel suo genere in Italia, o di aver voluto “apposta” guardare dall’altra parte? Di aver creduto alle rassicurazioni del direttore (che era allora, non dimentichiamo, presidente dell’unione industriali di Savona) o di aver “voluto” credere?

E i sindacati? Tutti e tre, in tutti i loro esponenti, con pochissime eccezioni, si sono sempre adeguati alle spiegazioni ufficiali, senza mai organizzare proteste mirate e incisive. Con la sola attenuante di avere poche adesioni, specie nei quadri.

E i dirigenti? Ne ho già detto sopra. Hanno dato prova, nella migliore delle ipotesi,  di miopia e meschinità quanto basta.

E gli stessi lavoratori, a partire dai livelli alti? Esperti in politica dello struzzo. Asindacalizzati. Se qualcuno veniva epurato, “doveva essere colpa sua”. Mai solidarietà,  mai un briciolo di iniziativa o di coraggio o di consapevolezza sociale. A voltarsi dall’altra parte, a fingere di non vedere, sperando sempre che toccasse a qualcun altro, illudendosi che bastasse fare il proprio dovere lavorativo, non chiedere e non protestare, per essere a posto con la coscienza. Anche quando ciò su cui si lavorava non stava chiaramente andando da nessuna parte e fare il proprio lavoro senza mezzi stava diventando impossibile. Importante, sempre e solo salvare le apparenze.

 E l’opinione pubblica, i media? Tutto messo a tacere, per diplomazia, oppure, a diffondere assurde imbeccate delle pubbliche relazioni aziendali. Imation era “una grossa opportunità”, la cessione del radiografico a Kodak significava “nuove commesse e nuovi posti di lavoro”, e poi giù a parlare di rilancio, di nuove tecnologie, nuovi mercati, addirittura “sviluppo del radiografico”! Fino a che non è stato proprio più possibile nascondersi dietro un dito, per quanto, anche adesso, mica si dice tutto…

Insomma, sia stata pavidità, miopia, adeguamento all’andazzo, complicità diretta o indiretta, interessata o no, fatto sta che questo banco dei colpevoli è bello affollato. E ha sulle spalle l’attuale destino negativo di tante persone e tante famiglie, e il mancato futuro per tanti altri. Per non parlare del triste corollario, un enorme patrimonio disperso: il centro ippico, il tennis, il bocciodromo, la stupenda riserva dell’Adelasia, frutto di un certo rispetto ambientale, il centro storico del paese, le proprietà e le sponsorizzazioni della fabbrica, che era quasi un microcosmo, un perfetto esempio di integrazione nel territorio,  che fine hanno fatto o faranno? Davvero, c’è di che esserne tristi. E davvero sono in tanti a doversi vergognare.
Nonna Abelarda