BIOPOLITICA

La Finanziaria e
 il ceto medio

                                       di GIULIO MAGNO        versione stampabile

Con il varo del disegno di legge finanziaria, da parte del Consiglio dei Ministri, ha avuto inizio il balletto rituale tra Maggioranza ed Opposizione, e all’interno delle stesse, in difesa della categoria produttiva o della lobby di turno.

Un elemento, però, tra il generale e cacofonico vociare, ha accomunato gli opposti schieramenti: il ceto medio non si deve toccare.

Rassicurazioni, promesse, e poi le aliquote. Si sono accordati, euro in più o in meno, sul limite superato il quale un lavoratore entra nell’olimpo della Middle Class: quarantamila euro lordi l’anno.

A ben vedere, non sembra un buon affare, per chi si guadagna da vivere lavorando, voglio dire per la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti e artigiani. Le aliquote, impietose, aumentano di 4/5 punti percentuali già a partire dai 15mila euro lordi all’anno, sino ai 28500 ed oltre. Praticamente ci sono dentro tutti i lavoratori dipendenti, che non siano dirigenti o assimilabili.

Poi, certo, con il gioco delle detrazioni, sgravi ed altro, molti, soprattutto se hanno figli, si ritrovano in tasca gli stessi soldi di prima.

Ma, tant’è, la mia sensazione rimane di disagio, come se si fosse guastata la festa.

Mi spiego meglio: quando la coalizione di centrosinistra vinse le elezioni, si parlò di riportare l’orologio delle regole e delle istituzioni a prima del cavalierato, ma con questa finanziaria, dovesse essere approvata così com’è, si è scelto di far cassa, in parte, alla vecchia maniera. Perché, per esempio, non intervenire subito sui finanziamenti pubblici alla scuola privata o confessionale (spesso coincidenti)?

Magari non avrebbe risolto, come misura, i problemi di bilancio, ma sarebbe stato coerente con il dettato costituzionale, che, non bisogna dimenticarlo, continua ad essere violato proprio su quel punto. E avrebbe costituito un segnale forte, di discontinuità con il passato.

Ma alcune componenti dell’attuale maggioranza non avrebbero digerito il passaggio, e quindi si è preferito massacrare i soliti, con le aliquote, ma anche con la moderna tassa sul macinato di ottocentesca memoria, vale a dire l’aumento dell’accisa sui carburanti.

E poi la visione del lavoro pubblico come una voce di sola spesa e non come una possibile risorsa: gran parte dei partiti della maggioranza ha sempre proclamato il contrario, promettendo un cambio di prospettiva epocale.

Ritornando al ceto medio, il fatto che, nell’immaginario della classe politica, secondo le famose aliquote, praticamente tutti i lavoratori dipendenti ne siano esclusi, può voler dire solo due cose: o questa categoria di lavoratori è stata a tal punto impoverita da venire espulsa di fatto dal ceto economico di appartenenza, oppure chi si trova nella stanza dei bottoni non ha la minima idea di cosa significhi guadagnare più di quarantamila euro all’anno ed essere dipendente di un datore di lavoro.

Desta indignazione la prima ipotesi, considerando i sacrifici ulteriori richiesti ad una categoria così penalizzata dalla storia economica recente di questo Paese, ma stupisce e preoccupa la seconda ipotesi, perché sarebbe indicativa di un distacco del mondo della politica dalla base dei propri elettori, che mi aspetterei dai partiti della destra ma non  dai partiti del centrosinistra, che nei confronti di questa fetta della società dovrebbero essere riconoscenti e quindi premurosi.

Purtroppo, il lavoro sulle aliquote ha lasciato una traccia che molti hanno trascurato, con quello che testimonia: l’ultima aliquota, quella per i più ricchi, sopra i centomila euro lordi annui, non è stata toccata. Chi, insieme ad altri, percepisce quella somma? I politici, ovviamente.

Staremo a vedere, sperando di essere stati cattivi profeti, e che gli inevitabili aggiustamenti in sede parlamentare contribuiscano a rendere meno indigesto (alla classe infima) questo inizio di legislatura.

Alla prossima settimana

Giulio Magno