“Scuorante” è l' aggettivo che ci piace scegliere  per definire la triste vicenda che ha visto l’arcivescovo di Genova, Tarcisio Bertone, impegnato nel tentativo di boicottare la messa in scena al Teatro dell’Archivolto di La scimia, un atto unico realizzato dalla “Compagnia Sud Costa Occidentale” di Emma Dante.
L’orazione della bertuccia

PIER LUIGI FERRO

Scuorante” è l’aggettivo che ricorre per due volte nell’esordio de Le due zittelle di Landolfi a definire il carattere d’un grigio quartiere borghese di Roma, le cui vie erano segnate dai nomi delle patrie battaglie risorgimentali, e tuttavia ovunque vi si spandeva l’odore dei moccoli e dei panni sporchi, insieme ad una vaga aria di grettezza e reazione di cui qualche alito forse giunge anche ai giorni nostri. Tale aggettivo ci piace scegliere allora per definire la triste vicenda che ha visto l’arcivescovo di Genova, Tarcisio Bertone,  impegnato nel tentativo di boicottare la messa in scena al Teatro dell’Archivolto di La scimia, un atto unico realizzato dalla “Compagnia Sud Costa Occidentale” di Emma Dante.

Lo spettacolo, che ha esordito alla Biennale di Venezia nell’autunno del 2004, non è dunque un’assoluta novità, ma neppure sono nuovissime tali polemiche sotto la lanterna: il cardinale Bertone, un anno fa, si era impegnato in una crociata nei confronti del Codice da Vinci che ha avuto il demerito di infestare i muri cittadini di brutti manifesti, insieme a quello di incrementare probabilmente le vendite locali del romanzo di Dan Brown. Gustoso anticipo della levata di scudi (crociati) che ha accompagnato all’uscita nelle sale il film, se possibile ancor più scadente del romanzo stesso.

Mauro Manciotti ha, del resto, ricordato sulle pagine genovesi de “la Repubblica” le polemiche che accompagnarono la messa in scena nel 1962, l’anno della Legge Fanfani sulla censura,  del sartriano Le diable et le Bon Dieu tradotto da Giacomo Debebedetti per la regia di Luigi Squarzina e la memorabile interpretazione di Alberto Lionello, vincitore quell’anno del premio “San Genesio”, alimentate con molta energia negli ambienti cattolici più retrivi del capoluogo ligure, che però videro il Cardinale Giuseppe Siri su una posizione assai più defilata di quella del suo successore, se non addirittura con funzioni  di calmiere.

Vien da considerare con curiosità – sia detto per inciso - che natura e qualità abbia la formazione del clero oggi e soprattutto quali siano le letture dei nostri cardinali, che godono evidentemente, assolti gli impegni pastorali, di molto tempo libero per esibirsi nel pubblico agone e redarguirci argomentando la falsità delle invenzioni romanzesche (dopo le riserve di Ratzinger su Harry Potter, dovremmo forse attenderci una messa al bando del burattino collodiano?) a meno non si voglia arguire che parlino  di cose che non conoscono, ma si tratterebbe di assai malevola considerazione, tant’è che essi soprattutto di Dio devono rendere testimonianza.

Chissà, piuttosto che delle fole romanzesche, forse varrebbe la pena di occuparsi  di quelle che vengono ammannite ai creduloni in ambiti extraletterari, anche con minor coerenza narrativa (un esempio per tutti: se il paradiso esiste, nessun cattolico può dubitare che Karol Woytila vi sia stato accolto subito, allora perché il vescovo di Civitavecchia ci racconta al telegiornale che la statua della madonnina piange a un anno dalla morte del sant’uomo? se son lacrime di gioia bisognerebbe fossero accompagnate anche da un bel sorriso…)

 Ritornando al punto, non risulta ben chiaro se nella condanna di Bertone sia accomunata alla riduzione scenica di Elena Stancanelli anche il romanzo di Landolfi che, pubblicato a puntate nell’autunno 1946 sul “Mondo” di Bonsanti, ha passato indenne sei decenni ed è considerato una delle sue opere migliori. Stante il lavoro di libero riadattamento e le differenze che derivano anche dalle peculiarità dei diversi linguaggi, il tema centrale, teologico, rimane infatti  identico, pur essendo diversamente modulato, nelle due opere.

Rinaldo, vedendo nel Morgante il cugino Orlando assestare fieri colpi  alla bella Antea, “ogni volta con Cristo si cruccia/ e dice l’orazion della bertuccia”, vale a dire bestemmia, borbottando tra i denti. Ed è probabile che anche da tale proverbiale espressione toscana tragga  origine la blasfema vicenda di Tombo, il cercopiteco castrato di Lilla e Nena, che si rende protagonista della sottrazione dei “sacri commestibili” dalla cappella di un convento di suore vicino all’abitazione in cui è rinchiuso, nonché della celebrazione di una messa parodica e grottesca che prevede  persino lo scompisciamento dell’altare. Ciò dà adito ad una disputa, resa con sostanziale fedeltà nella pièce teatrale, tra monsignor Tostini, uno di quei sacerdoti “di cui più retriva e declamatoria genia non si dà” e padre Alessio, giovane “prete timido e facile ai rossori”, entrambi  chiamati dalle sorelle a decidere della colpevolezza o meno dell’animale. Di fronte al cieco rigore del vecchio monsignore, padre Alessio esplode in una vigorosa defensoria che muove da una sorta di panteismo di matrice  bruniana per affermare che Dio non ha nulla a che fare con le nostre istituzioni morali e con la nostra idea del bene e del male, che esistono nell’universo infiniti altari e che di essi “il più piccino e più triste” è “quello davanti al quale si genuflettono i vostri sacerdoti”. Essendo la stessa natura di Dio  inconoscibile  ogni giorno chi lo cerca davvero cento volte lo bestemmia e cento lo benedice. Così solo non sapendo chi sia gli si può essere davvero vicino, come solo nella consapevolezza di non poterlo trovare si può fondare la sicurezza di non perderlo. Per tali vie la bestemmia partecipa del sacro assai più di quanto faccia una religione ridotta ad abitudine liturgico-letargica o ai contemporanei fasti catodici.

Ma tali considerazioni e la sua condizione di belluina innocenza  a poco valgono, di fronte a un peccato tanto aberrante, sufficiente di per sé a meritare la morte, che coglie il povero Tombo con la sgomenta meraviglia negli occhi dopo le crudeli trafitture al costato nel romanzo, mentre una paradigmatica crocifissione si accampa sulla scena essenzialmente concepita da Mela Dell’Erba e dominata da una luce che annulla quasi i colori: un’immagine che conclude icasticamente l’allestimento teatrale, segnato nella prima parte da una spigolosa danza composta di genuflessioni  e ossessivi segni di croce, atti rituali di convulsiva e parossistica evidenza, articolata nelle movenze delle due zittelle (intrepretate da Manuela Lo Sicco e Valentina Picello) e dei due preti (Savino Civilleri e Marco Fubini) a preludere le più plastiche movenze scimmiesche, rese con notevole prova in completa nudità da Gaetano Bruno. Così come le parole smozzicate, i confidenti grugniti, gli squittii, gli “oh” tremolanti e i fonemi strozzati  delle zittelle nonché lo stralunato latino della funzione preludono ai borbottii della scimia durante le sue impegnative evoluzioni mimiche, le capriole, la gestualità che quasi dall’altare stesso, dandogli movimento con felice e semplice invenzione, scaturiscono e prendono senso. Ciò forse vuol significarci che l’atto liturgico, nella sua forma rigida e inderogabile si dà come tentativo tutto umano di riproduzione imitativa dell’evento mitico, irripetibile, che vuol celebrare e, tutto sommato, come sua prima forma di degradazione e oltraggio: una bestemmia tanto più colpevole quando sale al cielo tra cori, nuvole d’incenso  e ori.

La scimmia nella nostra percezione si offre infatti come irritante caricaturale imitazione dell’umano, come un io brutale cupido e lascivo, preconscio. Tombo è però significativamente castrato, prigioniero di una gabbia da cui evade per finire in una di poco più ampia costrizione,  per esprimere come tale segno nell’opera landolfiana non valga come semplice allusione alla dimensione di una vitale ed esplicita libido, ma si ponga in relazione al tema della morte, del sacrificio, della negazione di sé. Nel romanzo il viso “difforme” della scimia appare per la prima volta infatti accompagnato da mugolii strazianti, con una felice anticipazione figurativa, sul volto prosciugato ormai nelle forme di un teschio di donna Marietta, la madre delle due zittelle, un personaggio minore di cui non è traccia nell’allestimento teatrale. L’esibita fisicità dell’attore protagonista nella sua felice dinamicità sembra appannare un poco tale segno, ma la soluzione cristologica dell’allestimento teatrale ha d’altro canto il merito di condensare in figura un nucleo semantico forte e originale, che sospende cioè per un attimo in un vertiginoso segno tutte le contraddizioni che produce questa riflessione sul sacro. Una caricatura sublime e oltraggiosa, un animale sospeso tra la condizione propria e quella umana, che a sua volta allude nelle forme grette e imitative del rito al divino, così come il Cristo è lacerato dalla scelta di porre la contraddizione del divino nella storia umana. Risultato di tale voluta contraddizione è appunto il sacrificio necessario mentre l’arroganza, l’orgoglio, le ricchezze e il potere saranno esclusivo decoro e appannaggio dei carnefici. 

Un altro animale abita il romanzo di Landolfi, appena evocato subito dopo la prima apparizione di Tombo: neanche a dirlo, si tratta di un uccello cardinale “così chiamato da una sorta di cresta o cappuccio d’un rosso fradicio e mortuario”: le due zittelle avevano l’abitudine di nutrirlo di pan di spagna inzuppato.

Con un gesto elegante e rapido Landolfi lo abbandona alla sua oscurità non nominandolo più per tutta la storia: assicuratici che la sua tazzina è stata recentemente ben riempita, vorremmo anche noi poter fare altrettanto, ora, chiedendo qualche venia ai nostri lettori se, in tempi in cui i cardinali capita si possano occupare di film e romanzetti, non manca il caso  d’un povero letterato che s’occupi di cardinali.  

PIER LUIGI FERRO

Pubblicato su “Il Ponte”.Rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei, Firenze, a.LXII n.7, luglio 2006, pp.131/134.