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MA

Romanzo in dieci racconti di Gloria Bardi

Il figlio di Matilde Agosti

Matilde Agosti, come ci si poteva ben attendere dati i presupposti culturali, fu una madre attenta, molto attenta. Troppo attenta.

Si premurò in grande anticipo di comunicare al figlio i valori universali, la profondità del meditare e le gioie del pensiero astratto.

Già durante la vita intrauterina, dopo la malaugurata scoperta da parte di sua madre che il nascituro ci sente, Agostino Campochiesa si buscò una cura intensiva di musica classica e di testi poetici indiani, rispondenti al nobile compito di introdurlo nella sfera della bellezza e dello spirito.

In culla dovette sciropparsi versi e armonie in tutte le lingue del mondo, musica che andava dal canto gregoriano al bolero di Ravel, dai suoni dell'oriente buddista a Strauss.

Questo per coltivare la propensione alle lingue e alla musica, l'apertura mentale, la disponibilità a comprendere le culture diverse.

Dopo un periodo di schizofrenia da Matilde opportunamente somatizzato ("sono i denti"), il piccolo Campochiesa si trasformò in una carta assorbente pronta a ingollare tutto quanto la grande anima della madre metteva a sua disposizione.

A due anni sapeva riconoscere De Chirico e Van Gogh, a tre Chopin, Beethoven, Bach alla sesta nota, a quattro anni recitava a memoria il primo canto della Divina Commedia, a cinque i sonetti foscoliani, a sei era risultato primo assoluto al premio Italia-Giappone per giovani pianisti, a sette era in grado di citare correttamente le Upanishad, a otto i suoi riferimenti cinematografici andavano da Bergman ad Antonioni passando per Visconti, a nove accadde quello che queste pagine si accingono a raccontare.

Alle sollecitudini culturali di Matilde si aggiungevano poi quelle aristocratiche di donna Ines, sua suocera, volte a plasmare un vero rampollo Campochiesa-La Loubatière, educato nei comportamenti, raffinato nei gusti, elegante nei gesti, compito da lei colpevolmente trascurato nei confronti dei figli, riusciti così poco Savoia, e che si presentava tanto più indifferibile data l'origine crasso borghese e i trascorsi anarcoidi della madre, per fare del piccolo Augustin, così aveva preso a chiamare il nipote, un vero giovin signore.

Ogni giovedì un'auto tirata a lucido veniva a prelevare il piccolo per condurlo negli opachi paradisi artificiali di un mondo Savoia del quale la nobilnonna era la sacerdotessa e le sue blasonate amiche la blasonata comparseria, dove pianoforti ottuagenari si sdilinquivano in artritiche toccate e fughe e dove crepuscolari pinacoteche si aprivano per offrire al neofita ghigni sabaudi e sabaude estasi, mistiche ma non troppo.

Siccome poi in casa del figlio il piccolo veniva crescendo come un libero pensatore, senza radici nella sana tradizione cattolica, ogni Giovedì si apriva con la Santa Messa, celebrata nella cappella di famiglia da certo fra Antimo Bartolommei, un tempo spasimante della giovane Ines e monacatosi a seguito del suo rifiuto. “Cappella di famiglia”era il nome con cui Ines  chiamava una specie di ripostiglio da cui in fretta e furia un bel giorno aveva fatto sgombrare zappe e zappette del marito e fatto affrescare, come viene viene, dalla figlia dell'autista che era al secondo anno della scuola d'arte.

Quanto agli altri membri della famiglia, le loro posizioni erano differenziate e ininfluenti: Stefano Campochiesa era costernato e non sapeva come interpretare gli sforzi congiunti della moglie e della madre, ma siccome tutto avveniva in un'apparente reciproca tolleranza preferiva non indagare e, da buon avvocato, rinviava ogni valutazione circa il progetto educativo della moglie a quando ne sarebbero stati visibili gli effetti.

In realtà solo a un'anima candida come la sua poteva sfuggire il marasma ideologico che quella strana concordia serpentinamente covava.

Al conte Tomaso gli zeli pedagogici della moglie procuravano insperati spazi di libertà da dedicare al vitigno e anche, solito lupo con quello che perde e quello che non perde, a una sciantosetta tutto pepe che recitava nella compagnia dialettale "Bella Turin", lui che era stato amante di una cugina della bella Otero e per i cui begli occhi monache si erano smonacate e contesse si erano scontessate. Fatto sta che grazie alla faccenda che Augustin doveva diventare un giovin sabaudo, la compagnia "Bella Turin" col sostegno di tanto mecenate riuscì ad organizzare una tournée nelle valli monregalesi e a recitare perfino a Mondovì: eterno mistero dell'incrociarsi delle umane cose ovvero insostenibile leggerezza dell'essere.

Quanto ad Ernesta Franzone in Agosti, era invece diventata una furia e, dopo aver inutilmente tentato di comunicare il suo dispetto a figlia, genero e consuocero, aveva finito per riservare i suoi sfoghi venefici a lui, Renato Agosti, commerciante di stoffe in pensione nonché suo marito, che a ogni attacco rispondeva: "porta pazienza, Ernesta, vedrai che tutto si aggiusta" e si buscava la solita replica con cambio di interlocutore centrale, ritorno ed epilogo profetico: "Porta pazienza? Tutto si aggiusta? Sempre il solito lui, cadesse il mondo non muoverebbe un dito! Beata paciura, camperai cent'anni".

Aveva da pochi giorni compiuto il nono anno Agostino Campochiesa, quando, alla mamma che tutta agitata lo invitava a far presto perché il concerto sarebbe iniziato alle nove in punto ed erano già le otto e ventiduequasiventitrè, senza volgere il capo, immobile come una statua rispose: "ffanculo stronza".

Matilde si arrestò dal suo affaccendamento come se l'avesse colpita un giavellotto proprio nel centro della schiena, poi pensò di aver sicuramente frainteso, che suo figlio doveva aver detto: "Cucùlo o Mozart?".

“Il lamento del cuculo” era infatti l'operina polifonica di un anonimo del settecento che Matilde amava moltissimo perché, così lei diceva, vi ritrovava tutto il respiro esistenziale della sua adolescenza.

"Né uno né l'altro, tesoro -si affrettò a rispondere Matilde-, stasera Bizet, come hai potuto dimenticartene?".

Agostino non si mosse, non si voltò.

Matilde ebbe appena il tempo di notare la stranezza di quella sua immobilità di statua quando nuovo sentì quel colpo di giavellotto, stavolta, siccome era voltata, in pieno petto: "ffanculo stronza".

Aveva proprio detto "ffanculo stronza", altro che lamento del cuculo.

A Matilde scivolò di mano il piccolo binocolo in madreperla con impresse le iniziali ILRC, destinata reliquia di donna Ines che invece, in barba agli umani propositi, si rottamò in cento pezzi proprio come sarebbe accaduto ad un normale binocolo di bachelite: e per le famiglie Agosti Campochiesa ebbero inizio tredici mesi di guai.

Agostino quella volta rimase otto ore in stato di immobilità, con lo sguardo fisso innanzi a sé: "proiettato nell'infinito" secondo il linguaggio di Matilde, "smarrito nel vuoto" secondo quello di Ines La Rocca, "occhi da matto" secondo Ernesta Franzone in Agosti, "in effetti è strano" secondo Stefano Campochiesa, avvocato civilista, "mi ricorda il tenente Colonnello Gianfranco Manzi del decimo lancieri di Novara" secondo il conte Tomaso Agosti, "che gli sia rimasto il polpettone sullo stomaco? Ha mangiato il polpettone, no?" secondo Renato Agosti, commerciante di stoffe in pensione.

A intervalli regolari di sedici primi e otto secondi tuttavia, da quelle labbra schiuse "come un bocciolo di rosa", secondo la descrizione di donna Ines, prendeva corpo il solito osceno giavellotto "ffanculo stronza" . "E’ un grido di dolore" diceva Matilde, "ma che gente frequenta tuo figlio?" diceva Ernesta Franzone in Agosti, "in effetti è strano" era il commento di Stefano Campochiesa, avvocato civilista, "mi ricorda il soldato semplice Gaetano Locascio di corvée al quinto fanteria" quello del conte Tomaso Campochiesa La Loubatière. "Ha mangiato il polpettone, no?" diceva invece Renato Agosti, commerciante di stoffe in pensione, ma lui intanto non lo ascoltava nessuno e se il polpettone suo nipote lo avesse mangiato o no non lo sa nemmeno adesso che pure sono passati alcuni anni.

Quanto a donna Ines La Rocca Campochiesa La Loubatière non diceva niente e, malgrado un'inevitabile smorfia della bocca come quella che produce il gesso stridente sulla lavagna, fingeva di non aver udito quella che era l'espressione del naufragio più indecente del suo virgulto sabaudo, solo si premurava di scongiurare l'intervento di qualsivoglia medico per non mostrare in pubblico quella immeritata vergogna, cosa che per circa quattro ore le riuscì, nella speranza che quella situazione svanisse così come era nata, con il risveglio da un incubo.

Matilde invece voleva chiamarlo il medico, ma non sapeva quale medico, se un pediatra o un neurologo o un infettivologo o, forse, un allergologo. Donna Ines prendeva sollievo da quell'incertezza e tentava anzi di alimentarla, ma dopo quattro ore di quell' andazzo, durante le quali le sue nobili orecchie erano state crudamente dilaniate dal volgare ritornello, fu lei stessa a proporre chi far intervenire: mons. Ildebrando Navarro y Gonzales, taumaturgo ed esorcista.

E Matilde Agosti vide tra lei e la suocera spalancarsi l'abisso, l'infinita distanza tra due universi culturali incommensurabili, Illuminismo e Medioevo, Roma dei Cesari e Roma dei papi.

Durante tutti quegli anni aveva tollerato e lo aveva fatto perché voleva essere tollerante. Nel contempo, Matilde Agosti era pur sempre Matilde Agosti, voleva essere tollerante perché aveva tollerato.

Traduzione: non aveva ostacolato l'azione della suocera perché riteneva proficuo che il figlio venisse a contatto con messaggi differenti e persino contrapposti, tra i quali avrebbe dovuto abituarsi a distinguere e valutare, maturando il senso della non assolutezza del vero. Su tutto ciò gravava tuttavia il sospetto di essere soltanto una cavillosa giustificazione del senso di soggezione che la suocera le incuteva e che le rendeva difficile vietare e giustificare il vietato.

Tanto più che Ernesta Franzone in Agosti, sua madre, non provava nulla di simile nei confronti della Savoiarda e manifestava disprezzo per la vigliaccheria della figlia, vigliaccheria che, Matilde rifletteva, proprio lei, sua madre, aveva prodotto con la sua dogmatica vitalità. Matilde era infatti troppo solerte nell'indagare se stessa per sfuggire alla consapevolezza del suo opportunismo.

Alla diatriba storico ideologica si aggiungeva fino a prevalere il conflitto psicologico tra Matilde Agosti e donna Ines, sua suocera, e tra Matilde Agosti ed Ernesta Franzone in Agosti, sua madre, tra Matilde Agosti e se stessa. Solo dinanzi all'altare di un figlio pietrificato Matilde avrebbe potuto, da madre straziata, trovare il coraggio per urlare a donna Ines: "Lei e la sua villa di cariatidi e le sue schifose poesie e i suoi schifosi pastrocchi di colore che ci vuole la sua facciaccia tosta a definire 'quadri' e le sue strimpellate al pianoforte che ci vuole il suo coraggio a definire 'petites divertissement'!"

Matilde avrebbe potuto trovare il coraggio per dire tutto questo ma non lo trovò o forse semplicemente preferì qualcosa di più conciso, meno definito, più allusivo e anche un tantino più popolaresco: "ma ci faccia il piacere!", così Matilde diede espressione ad un conflitto storico-ideologico-psicologioco, e ciò di per sé avrebbe costituito un incidente grave ma col tempo rimediabile se Ernesta Franzone in Agosti non fosse intervenuta a completare la frase della figlia con un bel "Savoiarda!" dove era riconoscibile tutta la soddisfazione di un piacere pregustato da anni e che finalmente si era potuta concedere.

Ora la frase nella sua interezza suonava così: "ma ci faccia il piacere, Savoiarda!" e mai e poi mai Ines La Rocca si era sentita tanto offesa in vita sua. Ma anche in lei, pure in quelle condizioni depressive, si accese una lucina, la possibilità di veder realizzato un antico desiderio, e guardò il conte Tomaso, quel marito che aveva sposato per ragioni di blasone ma che non aveva mai amato e dal quale era stata tante volte tradita, che si era giocato persino i gioielli di famiglia, che anche nella raggiunta pace dei sensi dimostrava più dedizione a un vitigno che a lei. Ma tutto questo sarebbe stato niente se quel marito avesse dimostrato nel corso della sua vita un minimo di orgoglio sabaudo. In donna Ines si accese la stessa lucina che si era accesa in Ernesta Frantone: guardò suo marito che vagava nelle sue memorie di guerra e con solenne alterigia gli disse: "hai udito, Tomaso? In casa di mio figlio, il maggiore, mi si è chiamata "savoiarda", adesso non è il momento -e donna Ines si volse a guardare il piccolo che proprio in quell’istante pronunciò il suo refrain e, ancor più sconvolta ripetè: -adesso non è il momento ma –aggiunse-, un giorno ti chiederò di ricordartene".

Intanto Matilde aveva chiamato il medico di famiglia che, sconcertato dinanzi al caso inusitato, prescrisse spugnature sulle tempie e tanta tranquillità, consigliando alla famiglia di consultare il giorno successivo uno psichiatra o, con intimo giubilo di donna Ines, divenuta lei stessa un monumento all'orgoglio ferito, e con orrore più che manifesto di Matilde, un esorcista.

Per farla breve, se quella prima volta il fenomeno durò quattro ore, in seguito si ripresentò per tempi sempre più lunghi come sempre più lunghi furono i pellegrinaggi medici delle famiglie Agosti-Campochiesa. Non di donna Ines, che si era chiusa in villa Campochiesa La Loubatière in un dignitoso silenzio e aveva intrapreso con monsignor Navarro y Gonzales, taumaturgo ed esorcista, pratiche esorcistiche per corrispondenza.

Illustri cattedratici esaminarono Agostino, formulando tesi contrapposte e prescrivendo cure inefficaci. Matilde, che gli evidenti insuccessi della medicina e il senso della hybris commessa nei confronti delle gerarchie familiari rendevano distratta, svagata verso quanto le accadeva attorno, con il pensiero turbinante nei gironi infernali dove, tra diavoli dai volti orrendi, suo figlio con piede caprino e forcone ringhiava "ffanculo stronza", mentre il ghigno terrificante di mons. "Navarro y Ramirez sgangherava l'Inferno. Matilde, si diceva, fu davvero sul punto di chiamare l'esorcista quando si presentò uno smunto e crinito dottorino di Settimo torinese, consigliato dalla lattaia di Ernesta Franzone in Agosti e chiamato con lo spirito del "tantounopiuunomeno".

Dopo aver esaminato il bambino, osservato la casa e soprattutto la nutrita biblioteca, dopo aver interrogato tutti quanti, anche il postino, il dottorino formulò con grande sicurezza la sola diagnosi sensata che Matilde avesse udito sulla situazione del suo unico e amatissimo figlio: "si tratta di un raro fenomeno di reificazione e volgarizzazione per eccesso di stimoli contrari".

Insomma, le gioie del pensiero astratto erano state davvero troppe e nel piccolo qualcosa si era ribellato rispondendo a quell' overdose di spirito col diventare cosa, oggetto inanimato, pietra senza pensiero; e all'altra indigestione, quella di raffinatezze tardo-sabaude propinata da donna Ines, liberando quel fondo un po' animalesco presente in ognuno e non impunemente soffocabile a quel modo.

"Bisogna che tua moglie e tua madre si diano una calmata -così disse a Stefano Campochiesa, avvocato civilista, il chiomato dottore che dava, anch'egli per ragioni compensative, del tu a tutti tranne che al suo cane-, e la smettano con queste pompe che gli fanno -anche il linguaggio scurrilotto, che peraltro usava solo parlando con gli uomini, aveva a che fare col suo Edipo e la sua Elettra-, e mandale a ffanculo tu se non lo capiscono da sole perché altrimenti questo -ed indicò Agostino che nel frattempo si era risvegliato e, immemore dell'accaduto, lo guardava inorridito da tanto frasario-,  te lo ritrovi a fare da fermacarte sulla scrivania".

Quando il dottore uscì Matilde era costernata, umiliata, in piena crisi esistenziale: lei aveva speso tutta se stessa per coltivare come un fiore di serra l'intelligenza di quel figlio e si ritrovava in mano un foglio dove erano contenute prescrizioni che imponevano la somministrazione di due cartoni animati al giorno, rigorosamente giapponesi, per poi arrivare, col tempo, a tre cartoni più una telenovela; la progressiva sostituzione di Bach e Chopin con "Heydi Heydi, le caprette ti fanno ciao", l'adozione da parte dei familiari di un linguaggio più popolare, dove si citassero proverbi e ogni tanto una parolaccina, una bestemmiuccina, magari di quelle eufemizzate, così da non preparare al piccolo un'adolescenza da disadattato. 

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DONNA INES