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Modello paranoico

di Massimo Fini  da Il Ribelle

Nella società moderna, industriale, dinamica, proiettata verso il futuro, l'individuo non può mai raggiungere un punto di equilibrio, di armonia, di pace. Colto un obiettivo è costretto dall'inesorabile dinamismo del sistema -inesorabile e ineludibile perché su di esso si basa - a inseguirne immediatamente un altro, fatto un gradino a salirne un altro e poi ancora, in un'affannosa rincorsa priva di senso che ha termine solo con la morte. Come al cinodromo i cani levrieri, fra le bestie più stupide del Creato, battagliando e mordendosi l'un l'altro, inseguono inutilmente la lepre meccanica, ricoperta di stoffa, che, per definizione, non possono raggiungere perché serve solo per farli correre, così è l'uomo contemporaneo.

Capovolgendo venti secoli di pensiero occidentale e orientale l'attuale modello di sviluppo ha proclamato, con Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più lucidi e coerenti teorici e interpreti dell'industrial-capitalismo, il principio, fatto proprio anche dai marxisti, che «non è bene accontentarsi di ciò che si ha», fondando così, in modo quasi scientifico, l'infelicità umana. Poiché infatti non si pongono, e non ci sono, limiti a ciò che si può avere, fra realtà e aspirazioni resta sempre uno scarto insormontabile. Da qui l'angoscioso senso di scacco esistenziale che, prima o poi, qualsiasi posizione sociale si sia raggiunta, ci prende alla gola. Il successo è oggettivamente conquistabile, ma psicologicamente irraggiungibile.

In termini psichiatrici: una follia. Confermata dai dati storici e dalle statistiche. I suicidi, in Europa, sono decuplicati rispetto all'era preindustriale: erano 2,5 per 100 mila abitanti nel 1650, sono 20 per 100 mila oggi. Nevrosi e depressione, pressoché sconosciute nel mondo di ieri, sono malattie della Modernità. Si affacciano agli inizi dell'Ottocento, non a caso negli ambienti borghesi, mercantili, e quindi agiati, diventano un problema sociale delle classi benestanti fra Ottocento e Novecento, tanto che nasce la psicoanalisi (Freud), per esplodere poi, come segno di un disagio acutissimo, che permea l'intero Occidente, più o meno dopo la seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti 566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci. Cioè nel Paese di punta del modello, il più forte, il più potente, il più ricco, più di un abitante su due non sta bene nella propria pelle, non regge la società in cui vive. Il fenomeno dell'alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale. Quello della droga è sotto gli occhi di tutti.

Non solo le nostre pillole ma anche i nostri piaceri sono drogati. Perché non soddisfano bisogni reali, essenziali. In verità l'unico, autentico, bisogno che soddisfano sicuramente è quello dell'economia industriale che deve produrre a certe velocità per poter restare, come una bicicletta, nel suo instabile equilibrio. La società industriale ha bisogno del bisogno. Perciò lo crea. Ma, come diceva Voltaire, «non c'è vero piacere senza vero bisogno». Si tratta di bisogni e piaceri surrettizi. La differenza fra un piacere/bisogno essenziale e uno che non lo è, sta nel fatto che il primo ha dei limiti, il secondo no. Io non posso mangiare più di tanto, altrimenti vomito. Il piacere surrettizio, in quanto mentale, astratto, come la matematica e come tutta la nostra società, può e deve essere moltiplicato e gonfiato all'infinito, per trarre dal nostro membro sempre più floscio una goccia di pallido godimento. Per dirla con lo psicologo Dino Origlia: «La società tecnologica crea dei bisogni surrettizi e dei piaceri che sono altrettanto surrettizi, ripetitivi, inesauribili, una vera e propria coazione a ripetere di tipo paranoico da cui il grande assente è proprio il piacere».

Il lettore avrà sentito dire mille volte, da economisti, da sindacalisti, da uomini politici di ogni tendenza: «Bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione». Se la si guarda bene, a fondo, questa frase è folle. Perché vuol dire che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, che il meccanismo economico non è al nostro servizio, ma noi al suo. Siamo i tubi digerenti, i lavandini, i water attraverso i quali deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto rapidamente produciamo. Siamo il terminale uomo, la variabile dipendente dell'economia; anzi non siamo più nemmeno uomini ma consumatori (ci sono «associazioni di consumatori» che non si vergognano di definirsi tali, hanno accettato con fatalismo la propria, completa, reificazione). E non siamo nemmeno consumatori coscienti e volontari, ma ranocchie che, opportunamente stimolate, devono saltare anche quando vorrebbero star ferme, per non ostacolare l' onnipotente meccanismo che ci sovrasta.

MASSIMO FINI       Il ribelle dalla A alla Z