Chi l’avrebbe detto, allora, 1956 o giù di lì, di questa fine così cruda, insensata, incredibile, belluina anche nei particolari
Ricordo di GianMario Roveraro
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Sergio Giuliani      versione stampabile

Per quanto ci si possa essere preparati dal cumulo degli anni, la vita ci sorprende sempre, spesso riducendo a commedia quelli che sembravano drammi e scontri epocali; più spesso, però, aggiungendo tragedia là dove non la si aspettava davvero. Ed allora si riflette sulla “vita crudele più che vana” come la definisce Montale e si avrebbe tanta voglia, da laici, di non voler vedere bestialità oscena (e chiedo scusa alle bestie!) e di (ancora Montale) “un filo di pietà” per continuare a credere che vivere abbia un significato, sia pur qualsiasi.

Il richiamo a Montale è doveroso per il liceale Roveraro, come lo conobbi io. Allo scender dai treni per Genova, era involontariamente la nostra guida all’uscita ed agli autobus, perché sovrastava la folla di tutta la testa, un viso scultoreo, con tratti nobili, sempre serio, come compreso di chissà quale missione.

Chi l’avrebbe detto, allora, 1956 o giù di lì, di questa fine così cruda, insensata, incredibile, belluina anche nei particolari, per la quale non mi viene alla mente altra immagine che quella di malfattori infernali che distruggono qualcosa di profondamente diverso da loro, una “persona”?

“Persona” è chi adotta uno stile di vita e Roveraro lo aveva già da allora: lo stile “Horine”, quello che ci affannavamo ad imparare a scuola e che a lui veniva come naturale.

Qualcuno ricorderà i campionati provinciali di atletica al vecchio stadio della Valletta San Michele, col custode Pirola -che-spara-la- pistola e le tribune in legno che scheggiavano le mani.

Ricorderà il “tifo”, vero e senza eccessi e la supremazia dell’Itis “G. Ferraris” guidato dal prof. Raimondo Mac Donald, inutilmente contrastata dall’insieme delle altre scuole e infrantasi soltanto nel 1954 quando una fiorita di atleti al Classico ed al Nautico tolse la vittoria al”Mac” e tutto finì in una irosa scapaccionatura fuori dallo stadio ed in un infrangersi di cartelli.

“L’asticella del salto in alto viene posta a m. 1.55” diceva lo speaker. Saltavano a pelo, con stili un poco promiscui, i concorrenti savonesi (e il “Mac” strigliava i suoi, sempre nervoso ed agitatissimo). Spesso l’asticella cadeva, ormai. Peggio agli 1.60, agli 1,65…

“Salta Roveraro” diceva lo speaker. Imperturbabile, con la maglietta del liceo di Albenga, senza tradire emozioni (forse le dominava benissimo), GianMario saltava in ottimo stile Horine (rotolamento sull’asticella dopo aver richiamato la gamba di spinta) misure impossibili. Ma era di Albenga; batteva i “nostri” e gli applausi erano soltanto di ammirazione. Chissà il “Mac”! Se l’avesse potuto arruolare!

Poi, in vacanza postmaturità 1956 in un paese del Chianti, in un pomeriggio di “quel” caldo che brucia il galestro e matura il vino, ma smembra chi non vi sia abituato, un buio, antico bar con un televisore “olandese” e il fresco di una cocacola, dalla Svizzera, gara di salto in alto. Salta Roveraro…m 2.01…record italiano!

In quel posto sperduto, in un bar vuoto, avevo assistito per caso a un risultato eccezionale, ed ottenuto da un atleta che conoscevo! Ma a chi dirlo? Me ne andai felicissimo, entusiasta (L’atletica allora forse faceva aggio sul calcio…) a farmi smemorare da un caldo e da una luce insopportabili.

Stessa emozione quattro anni dopo, quando, alle Olimpiadi di Roma, Livio Berruti azzeccò una travolgente curva nei 200 m, Wilma Rudolph galoppò, gazzella fiera, nelle gare di fondo e in una serata che pareva non voler tramontare, Abebe Bikila vinse la maratona…

Per il salto in alto, sono venute poi le “scarpette rigonfiate” alla Stepanov, gli stili “ventrale” e “Fosbury”, ma il salto di GianMario rimase come congelato, come un diploma alla parete per lui grande, importante “banchiere”. E’ riapparso nelle cronache di questi giorni, ma come velato, come una antica foto un poco “virata a seppia”. E fosse malinconia; fosse naturale decadere delle cose e dei ricordi; è tragedia; è un male che ci toglie la parola. Troppo grande, dissennato e infame perché lo si possa neppure avvicinare. Neppure provare a capire.

Sergio Giuliani