BIOPOLITICA

“LA BIOPOLITICA DEL  TERZO REICH”
ultima parte con le conclusioni

                     di GIULIO MAGNO    versione stampabile

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Il parossismo autoimmunitario 

Mentre il camino dei forni crematori di Dachau fumava, nei campi intorno al lager, i detenuti producevano miele biologico.[1]

L’apparente contraddizione della nota precedente, ci conduce all’interpretazione in chiave biopolitica che del fenomeno nazista ha per primo fornito M. Foucault.

Il nazismo, infatti, ossessivamente preoccupato dell’avvenire del proprio Volk, del proprio patrimonio genetico, spinge all’estremo la funzione terapeutica della morte, nei confronti del proprio stesso corpo (qui inteso nel senso letterale di corpo del popolo).

Se la morte, inflitta alla parte più debole, più degenerata o degenerabile della propria società, assume una connotazione salvifica, ciò diventa ancora più vero e desiderabile, secondo la visione nazista, per i nemici biologici del Volk, vale a dire ebrei, slavi, comunisti.

Per evitare il contagio del popolo tedesco, per garantirne la necessaria rigenerazione,[2]si ricorre all’eliminazione di una parte dello stesso corpo che si vuole curare.

E quando ci si confronta con il problema ebraico, le radici della ideologia di guerra offrono il supporto ad una riclassificazione biologica del giudeo: da nemico della Germania perché privo di patria, non appartenente alla Gemeinschaft, a nemico del popolo tedesco, a nemico del patrimonio genetico tedesco, sino a diventare untermensch “meno che umano”, e perciò trattabile in modo “speciale”.

Del resto, lo stesso Hitler aveva affermato: “La scoperta del virus ebraico è una delle più grandi rivoluzioni di questo mondo. La battaglia in cui siamo oggigiorno impegnati  è uguale a quella combattuta nel secolo scorso da Pasteur e Koch. Riacquisteremo la nostra salute solo eliminando gli ebrei[3] o ancora “La paura dell’arma marxista del giudaismo si insinua lentamente come un incubo nel cervello e nell’anima dell’uomo decente…Il giovane ebreo dai capelli neri, con gioia satanica nel volto, spia per lunghe ore l’ignara fanciulla, che egli insidia con il suo sangue e che in tal modo ruba al suo popolo, al popolo della ragazza. Egli cerca con ogni mezzo di rovinare le basi razziali del popolo da soggiogare”[4]

Roberto Esposito individua tre dispositivi immunitari del nazismo: il primo è la completa normativizzazione della vita biologica, e l’esempio chiarificatore è dato dal crescente potere della classe medica nello stato nazionalsocialista, anche a seguito dell’antitetico e contemporaneo diffondersi dello Stato e del suo potere normativo nelle pieghe della biologia[5]

Come acutamente osserva Esposito, contro la convinzione comune secondo la quale i nazisti agissero distruggendo la legge, in realtà essi la estesero, fino a comprendere in essa ciò che la eccedeva, cioè la vita stessa.

Affermando di desumerla dalla sfera della biologia, essi consegnavano alla norma l’intero ambito della vita.[6]

Lo spazio del lager era lo spazio ove l’arbitrio veniva praticato, ma con norme proprie, cogenti, era il luogo ove il crimine della contaminazione razziale poteva essere prevenuto, e quindi anche il luogo ove la società sana potesse rinchiudere ed eliminare quella malata.[7]

Il secondo dispositivo di immunizzazione è la doppia chiusura del corpo, così come l’autore la definisce: un’azione di completa sovrapposizione dell’individuo sul suo corpo, in unione con la sua anima, secondo un concetto di coincidenza tra corpo fisico e spiritualità, che diventa essa stessa, in unione con i propri simili, il corpo della nazione tedesca.

Ciò potrà essere possibile solo dopo aver purificato il grande corpo etnico dalla degenerazione: il patrimonio sano della nazione, il suo carattere razziale, dovevano essere preservati dalla corruzione mediante una doppia politica demografica, concretizzatasi in negativo con la selezione contro i geni indesiderabili, ed in positivo con la selezione dei migliori, a favore dei geni giudicati desiderabili.

Alla prima faccia della medaglia appartengono, come abbiamo visto, le politiche di sterilizzazione prima e di eutanasia o “trattamento speciale” in un secondo tempo, mentre alla seconda l’eugenetica, come ad esempio il progetto Lebensborn, voluto fortemente da Himmler, un reale tentativo di isolare i “geni migliori” del popolo tedesco, attraverso la consegna di centinaia di bambini, nati da tedeschi “puri”, a strutture apposite, nelle quali, tra amorevoli cure di personale specializzato, sarebbero cresciuti sino a formare un serbatoio genetico d’eccellenza.

Il terzo dispositivo immunitario è rappresentato dalla soppressione anticipata della nascita, vale a dire il programma di sterilizzazione che abbiamo già illustrato più sopra.

Come abbiamo visto, la normazione della sterilizzazione fu il primo atto legislativo del nazismo, per ciò che concerneva la vita.

Ciò che sconcerta è la contemporanea presenza di una norma contro la vita ed un’altra a favore: mentre si sterilizzavano le donne giudicate malate o addirittura anche solo consorti di malati, arrivando a permettere l’aborto forzato sino ai sei mesi del feto, una legge puniva l’aborto volontario delle donne sane come un crimine biologico contro la razza, ed un’altra forniva sostegno economico alle famiglie numerose.

L’apparente paradosso viene spiegato approfondendo la differenza tra procreazione, incontrollata, naturale, spontanea, e rigenerazione[8] da incanalare secondo i canoni dell’eugenetica.

In altre parole, la biopolitica del nazismo pose molta attenzione a distinguere tra vita e vita, costruendo un’invalicabile muro tra esistenze in fieri, tra chi dovesse essere considerato cittadino (Reichsburger) di sangue tedesco, o no.

Persino all’interno dello stesso Volk vi erano meccanismi di selezione: in una circolare del 1931, 31 dicembre, Himmler, ricordando che “le SS sono un’unità di tedeschi di stirpe nordica scelti secondo particolari criteri”, disponeva che ogni membro delle Schutzstaffel dovesse chiedere l’autorizzazione per sposarsi, e questa sarebbe stata concessa “unicamente in base a considerazioni razziali o relative a ragioni di salute ereditarie”, esplicitando così la duplice funzione delle SS, di corpo militare custode della rivoluzione nazionalsocialista, ma anche una riserva permanente di razza pura, di patrimonio genetico dotato dei requisiti indicati dal razzismo di stato. 

Conclusioni 

In questo breve lavoro si è cercato di offrire un’analisi delle cause che, a partire dal primo quarto del secolo scorso, generarono il nazismo e la sua interpretazione estrema dei principi razzisti.

Per quanto la barbarie dell’annientamento degli ebrei e delle minoranze etniche, in Germania prima e delle popolazioni slave nei territori occupati in un secondo tempo, fosse stata una scelta alla quale si giunse con una certa gradualità, le linee guida di tale decisione politica furono il frutto di un insieme di fattori disomogenei dal punto di vista storico, alcuni dei quali già presenti nella società tedesca e di questa del tutto peculiari. La volontà di “fare i conti” con il nemico interno, così come indicato dallo stesso Adolf Hitler nel 1922 in “Mein Kampf”, fu sin troppo esplicita per restare confinata nel campo della sterile polemica razzista.

In quel contesto particolare, il miscuglio nefasto di nazionalismo e  voglia di rivalsa nei confronti dei nemici interni ed esterni della Germania, che pervase la società tedesca in ogni sua parte, compresa la classe dirigente, permise ai grandi gruppi di potere e all’aristocrazia terriera di cavalcare il malessere sociale e di dirigerlo contro le forze riformiste e potenzialmente rivoluzionarie dell’opposizione, approfittando dell’impostazione militante e demagogica del partito nazionalsocialista e non solo.

I gruppi politici che nel primo ventennio del XX secolo avevano costituito delle vere e proprie bande contro il “pericolo rosso” e la “degenerazione parlamentare” della giovane democrazia nata dall’armistizio di Versailles, beneficiarono largamente dell’appoggio finanziario offerto da tali poteri forti, nonché della compiacenza delle istituzioni stesse, i cui esponenti erano organici ai vecchi poteri aristocratici.

La rivoluzione di novembre, che aveva dato vita alla democrazia per la prima volta, in Germania, non fu infatti, come abbiamo visto, abbastanza profonda da modificare i rapporti di forza all’interno della società tedesca e consolidare così le istituzioni democratiche.

Ma le formazioni paramilitari che operavano contro la legalità e allontanavano dalle piazze i socialdemocratici ed i comunisti, si impadronirono anche di un grande consenso elettorale tra la popolazione, grazie alla profonda crisi economica e sociale che le conseguenze della sconfitta e delle riparazioni di guerra avevano causato.

Una ascesa graduale ma costante, finanziata dall’alto, ma sostenuta anche da intellettuali ed esercito, che alla fine permise  ad Hitler la vittoria nelle elezioni del 1933.

C’è da chiedersi se la classe dirigente tedesca, nel fornire aiuti così determinanti ad un partito di estrema destra, non si fosse prefigurata l’ipotesi di dover un giorno essere costretta ad assecondare scelte estreme, peraltro esplicitate con larghissimo anticipo, contenute nel patrimonio politico del partito nazista.

La disinvoltura con la quale la grande industria tedesca attinse ala forza lavoro dei nuovi schiavi, arrivando a costruire le proprie fabbriche presso i lager, depone probabilmente per qualcosa che andò ben oltre un pur profondo cinismo capitalista. L’ipotesi che si vuole avanzare in questo lavoro, è che la classe imprenditoriale del tempo accettò di ignorare ciò che in realtà tutti sapevano, probabilmente perché i benefici economici si profilavano giganteschi e perché le necessità della guerra totale, alla quale quella stessa élite si era preparata da tempo,  a quel punto, costituivano ormai un imperativo ineludibile.

Il nazismo, per i suoi contenuti imperialistici e militaristici, rappresentò il partner ideale per chi voleva far risollevare la Germania e la sua industria, senza fare i conti con le istanze di rinnovamento sociale che pure erano ben visibili. 

Al di là delle premesse di tipo socioeconomico, l’analisi delle origini ideologiche e pseudoscientifiche del nazionalsocialismo ci suggerisce che l’affermarsi del suo potere nei confronti della vita fu solo apparentemente contraddittorio.

La prescrizione di norme igieniche più salutari, l’inaugurazione di campagne per la prevenzione delle malattie epidemiologicamente più significative, si accompagnarono ad una continua azione di discriminazione ed annientamento di esseri umani, spesso appartenenti alla medesima comunità tedesca.

Questo paradosso viene spiegato, come si è visto, esaminando le linee di azione della politica nazionalsocialista sulla vita di tutto il popolo tedesco e sulle etnie cadute in suo potere: linee che videro la prima prevalere sulla seconda e sulla sua potenza rigenerativa, in modo selettivo, come dimostrato dai tentativi di “purificare” la razza germanica dall’inquinamento razziale impedendo i matrimoni misti, o di “migliorare” il patrimonio genetico della popolazione con l’istituzione di “riserve di eccellenza” come le SS.

La forza politica necessaria a concepire e realizzare tali deliranti esperimenti, in negativo, fu la stessa che riuscì a concepire ed organizzare il genocidio, compiuto in nome della vita, di una vita dotata però dei requisiti che i nazisti ritenevano qualificanti.

Tutta la vita che non poteva “rientrare” nel telaio disegnato dai principi nazisti doveva scomparire,  perché priva dei presupposti necessari ad essere riconosciuta come “degna” di essere vissuta.

Lo squilibrio nefasto tra politica e vita, o meglio tra potere e vita, a tutto vantaggio del primo, nella visione nazista si risolve perciò in una questione di classificazione tra vita e non vita, tra “affermazione” e “negazione”, con un marcato arretramento dei limiti della prima nei confronti della seconda.

Lo si è visto con l’introduzione dell’eutanasia, o con l’aberrante dualismo tra sterilizzazione obbligatoria delle donne sposate con malati ereditari e contemporaneo sostegno alla fertilità delle famiglie ariane.

Si intravede qui il mostruoso filo logico, che unisce provvedimenti di legge solo apparentemente dissonanti, e che guidò la politica nazionalsocialista.

Una “biopolitica” interpretata quindi in negativo, mortifera, che negò il naturale dispiegarsi della vita umana nella sua molteplicità, eleggendo un particolare popolo, in un particolare momento storico, ad unica espressione di umanità da preservare, a qualsiasi costo, persino quello di un dominio violento della parte “sana” su quella “malata” perché considerata pericolosa per la prima. 

BIBLIOGRAFIA 

  • D. Lo Surdo – La comunità, la morte, l’occidente – Bollati Boringhieri

      Torino 1991  

  • E. Collotti”La Germania nazista” Einaudi Torino1962 

·         R.J.Lifton – I medici nazisti – Milano 2003 

·         A.Hitler – Mein Kampf – Monaco 1936 

·         R. Esposito –Bios. Biopolitica e filosofia – Einaudi Torino 2004

·         R. Esposito – Immunitas – Protezione e negazione della vita – Einaudi  Torino 2002 

·         L. Bazzicalupo – R. Esposito – Politica della vita – Laterza Bari 2003


[1] R. Esposito –Bios. Biopolitica e filosofia – Torino 2004 p.121

[2] Cfr. supra, nella parte dedicata al sentimento scaturito dalla sconfitta tedesca nel Primo conflitto mondiale, presente nella Kriegsideologie

[3] A. Hitler – Libri proposti sulla guerra e la pace raccolti per ordine di Martin Bormann – Parigi 1952- in R. Esposito –Bios. Biopolitica e filosofia – Torino 2004 p.123

[4] A. Hitler – Mein Kampf – Monaco 1936 pp.356-57

[5] Cfr supra, in merito ai Tribunali speciali per la decisione sulla sterilizzazione coattiva , o la burocrazia dei programmi di eutanasia, o” trattamento speciale”

[6] Così, testualmente, R. Esposito. Op.. cit. p. 151

[7] Cfr. R. Esposito. Op.. cit. pp. 149 e segg.

[8] Cfr R. Esposito. Op. cit. pp 155 e segg

Giulio Magno