FOGLI MOBILI

La rubrica di Gloria Bardi  

 

Capitalismo all’italiana?

 

                                                              TERZA PARTE                      LEGGI LE PARTI PRECEDENTI

        

Nel dopoguerra si assistette ad uno slancio altruistico, collegato alla necessità di un impegno che preservasse dal rischio di nuove dittature e alla matrice ideale della sinistra. Ma quello era anche il tempo in cui gli Italiani erano felici, mi si racconta, di pagare le tasse, perché ne avevano chiaro il valore. Tale slancio ebbe una ripresa, sulla scia di quanto accadeva nel mondo, negli anni Settanta. Fummo allora sul punto di abbandonare il nostro provincialismo: i giovani sembravano mirare a valori collettivi. Nacquero anche forme alternative di cattolicesimo, militante e portatore di un diverso senso della solidarietà. Un modo di pensare forse manicheo, ma almeno non biecamente egoistico. Anche allora il capitalismo tendeva al familismo e al conservatorismo, ma non senza una sua eleganza aristocratica, testimoniata dalla famiglia Agnelli, anche se in questo caso non di famiglia ma di vera e propria dinastia si dovrebbe parlare. Esisteva comunque l’obiettivo di trasmettere un bene alla discendenza, perché il futuro, malgrado il muro di Berlino, veniva percepito come perseguibile. I partiti politici nati dalla resistenza contavano numerosi iscritti; erano stagioni di impegno e di apertura al sociale. Anche la Chiesa non mancò di recepire la nuova temperie, cui diede voce il Concilio Vaticano II.

       Ben presto però, sopraggiunta un’età di crisi, la tendenza “genetica” cominciò a farsi nuovamente strada e i partiti ad assumere natura corporativistica e familistica nel senso deteriore; la strutturazione si mutò in gerarchia che, attraverso elevazioni e cadute, si alimentava di fidelizzazioni dovute a debiti di riconoscenza. Divennero centrali dove si gestivano rapporti di padrinato e di privilegio, affiancandosi in questo ruolo alle logge o anche solo alle parrocchie: dispensatori di regalie, quali lavoro o appalti, in cambio di servizi, voti o bustarelle, traducevano nel linguaggio prosastico della politica il concetto di “indulgenza” che aveva innescato la scintilla luterana. Anche la necessità di svolgere con qualunque mezzo la crociata anticomunista, dal momento che il PCI riceveva finanziamenti dall’URRSS e propugnava una collocazione antioccidentale dell’Italia, contribuì ad assolvere i maneggioni.

       E giacché s’è parlato del PCI, osserverò che anche la sinistra, consolidatasi in quegli anni fino al punto di costituire la seconda grande tradizione capace di radicamento a livello popolare, finì con l’amalgamarsi all’inveterato principio del privilegio e del protettivismo, generando uno statalismo sornione e affossatore del merito, insostenibile, come hanno dimostrato i fatti, e generatore di divisioni sociali. Si potrebbe anche parlare di uno statalismo senza senso dello Stato, recepito più come vacca da mungere che come valore accomunante. Partiti e sindacati assecondarono tale tendenza in cambio del consenso. Soprattutto il pubblico impiego assunse i panni di una vera e propria corporazione protetta, indipendente dal merito, in cui vige un triplice dettato”: inamovibilità, irresponsabilità, anzianità.

       Tutti noi abbiamo avuto modo di verificare il gioco al ribasso che un sindacalismo, vissuto in Italia come padrinato, ha prodotto nell’efficienza e nella voglia di progredire. Insomma anche il grande valore dell’uguaglianza, che nella classica formulazione del “Federalist” di Hamilton è un’uguaglianza d’opportunità , non certo un eguagliamento di capacità e destini, è stata qui recepita all’insegna del privilegio e a detrimento del merito, congiungendosi così all’umilismo di matrice cattolica.  Neppure Marx sarebbe stato d’accordo, se è vero che nella Critica al programma di Gotha sostenne la necessità di declinare l’uguaglianza di classe con la disuguaglianza individuale lasciandoci il famoso monito: “Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni.”

Del resto le stesse categorie che di recente orientarono i propri voti verso chi prometteva di togliere tali privilegi dimostrano di avere un concetto per lo meno singolare del liberismo, dal momento che oggi si affannano a cercare garanzie “private” dall’ente pubblico, chiamato in causa per disciplinare e neutralizzare coi dazi la concorrenza che costoro non riescono a reggere col mercato: storia vecchia per chi ricordi la “guerra del vino” in cui fu coinvolto l’improvvido governo Crispi, o gli intenti liberisti del primo fascismo di “Quota Novanta” ben presto sostituiti dalle grevi ingerenze degli anni Trenta, ma si sa che, come scriveva Marx nel Diciotto Brumaio, le situazioni storiche si ripetono, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.

       Tangentopoli fu la rivelazione di un fenomeno che a livello spicciolo non era ignoto a nessuno, un’intersecazione tra politica ed economia secondo le regole del vecchio padrinato. Produsse una ripercussione immediata ma di beve durata, nel frattempo il mondo cambiò, sparito il Muro di Berlino si entrò nell’era del villaggio globale, per molti versi indecifrabile. Il disorientamento vide ben presto ripetersi la corsa verso le mura del castello, verso un “padre protettore e benefico”, vide ritornare cioè il clima di rassegnazione e adattismo tipico di casa nostra e sempre presente nel nostro substrato culturale. E in assenza di una tradizione capace di puntare sul sapere, sia esso della ragione o dell’esperienza, l’aristocrazia della furbizia sostituì definitivamente quella delle dinastie.

       Anche se il mondo è destinato a crollare, l’importante è ancora una volta cavarsela, puntando sul più furbo. E a chi si accontenta di cavarsela non importa granché se il più furbo non sta alle regole, perché le regole valgono solo quando si crede nel futuro e vi si investe. Il fatto è che, senza dircelo e senza particolari apocalissi, stiamo tutti aspettando la fine del mondo, sotto forma di guerra totale o di eco-catastrofe. Il fatto è che chi ci domina sta gestendo sapientemente e a proprio vantaggio la nostra disperazione. Il fatto è che, giocando d’azzardo a dispetto del contesto dove anche i suoi figli vivranno, chi ci domina manifesta egli stesso una lucida e fondamentalmente suicida disperazione.

      Che il mondo così com’è non sia più sostenibile lo avvertiamo chiaramente ma, siccome non possediamo strumenti di comprensione, preferiamo cercare un santo che protegga noi e eventualmente i nostri cari, ci faccia qualche regalo, ci faccia godere il più possibile e soprattutto ci liberi dal pensiero. Preferiamo cavarcela. Il fatalismo, il conservatorismo, il difensivismo e la tendenza a raccogliersi sotto un protettore sono altrettanti caratteri feudali che abbiamo ereditato. Noi nella dimensione globale, forse non avendo ancora superato lo choc dell’eliocentrismo e del darwinismo, sappiamo solo “tirare a campare” e magari assicurarci un posto in Paradiso.

       Il consumismo, sorretto dai mass media, spostandosi verso il simbolico, alimenta bisogni che a loro volta alimentano dipendenze. L’edonismo più spicciolo si sposa con un ritorno ai valori conservatori che, agitando il grande ordigno della punizione e della ricompensa, rendono controllabili le coscienze. Il capitalista italiano più di qualsiasi altro non procede da un impegno responsabile, volto ad edificare un contesto di dignità e bellezza, bensì agisce all’insegna del detto famoso: après moi le déluge, fa del proprio agire uno spazio di edonismo senza grandezza ove cimentare la sua astuzia di buon giocatore, che poi sarà compensata dai riti previsti e dalle dovute beneficenze.

      Del resto che il mondo delle gerarchie cattoliche mal tolleri la ricerca, malgrado le scuse a Galilei, è riemerso con evidenza nel corso del recente referendum. In tale situazione non ha senso investire per il futuro puntando su dimensioni economiche poco sperimentate o sulla ricerca e sulla sostenibilità, tanto più ora che il futuro globale è incerto. Quest’ultima constatazione rende però necessario estendere l’analisi oltre le mura di casa nostra e, dopo aver snocciolato i nostri mali, puntare il dito su quelli altrui.

Gloria Bardi

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