Lessico politico: partiti politici e sistemi di partito 

                              di FEDERICO GOZZI           versione stampabile

- Definizione di partito politico 

         Secondo la famosa definizione di Weber il partito politico è “un’associazione…rivolta a un fine deliberato, sia esso ‘oggettivo’ come l’attuazione di un programma avente scopi materiali o ideali, sia ‘personale’ cioè diretto ad ottenere benefici, potenza e pertanto onore per i capi e seguaci, oppure rivolto a tutti questi scopi insieme”. Questa definizione mette in rilievo il carattere associativo del partito, la natura della sua azione che è essenzialmente diretta alla conquista del potere politico all’interno di una comunità, la molteplicità di spinte e motivazioni che portano ad un’azione politica associata, appunto la realizzazione di fini ‘oggettivi e/o personali’. In termini generali si può dire che la nascita e lo sviluppo dei partiti è legato al problema della partecipazione, cioè al progressivo aumento della domanda di partecipare al processo di formazione delle decisioni politiche da parte di classi e ceti diversi della società. Tale domanda di partecipazione si presenta in modo più intenso nei momenti di grandi trasformazioni economiche e sociali  che sconvolgono l’assetto costituito della società e minacciano di modificarne i rapporti di potere; è in tale situazione che emergono gruppi più o meno estesi o più o meno organizzati che si propongono di agire per un allargamento della gestione del potere politico a settori della società che prima ne erano esclusi o che propongono una diversa strutturazione politica e sociale della società stessa. Naturalmente il tipo di mobilitazione, gli strati sociali che ne sono coinvolti, gli interessi materiali e ideali perseguiti, oltre che l’organizzazione politica di ciascun paese, determinano in gran parte le caratteristiche distintive dei gruppi politici che così si formano. 

- Tipologie di partiti politici 

         Partito d’avanguardia: non è presente nel sistema politico dell’Italia repubblicana. Lo si prende in considerazione per comprendere l’evoluzione del PCI che, al momento della sua nascita – nel lontano 1921- si struttura sul modello del partito bolscevico, teorizzato da Lenin e rivisitato da Gramsci. Strumento per la rivoluzione, il ‘partito d’avanguardia’ ha il compito primario di radicalizzare la lotta di classe, sottraendo le masse alla tutela dei partiti laburisti e socialdemocratici che tendono invece all’inserimento del proletariato nello Stato borghese. È dotato di un personale politico selezionatissimo, una minoranza di intellettuali – ‘tecnici della rivoluzione’-, veri e propri agenti politici che puntano a conquistare la guida delle organizzazioni di classe per immetterle, al momento opportuno, nel processo rivoluzionario. La scelta dell’occasione propizia per la rivoluzione e la direzione del movimento rivoluzionario fino al suo sbocco nella fondazione del nuovo Stato proletario spetta appunto a questa avanguardia, dotata di una superiore capacità di comprendere il corso della storia che porta al crollo ormai imminente del sistema capitalistico-borghese, messo in crisi dalle sue stesse contraddizioni interne. Le avanguardie, cioè il partito stesso, sono solo i garanti della volontà collettiva all’interno del nuovo Stato, il luogo dove si esercita l’egemonia della classe che ha conquistato la sua legittimità con la rivoluzione. Il partito d’avanguardia diventa così il custode e l’interprete permanente dei valori e degli istituti rivoluzionari che vanno difesi dagli attacchi interni ed esterni dei controrivoluzionari. Ne deriva un modello di partito a struttura forte - un ristretto corpo di quadri composti da ‘professionisti della rivoluzione’ – con caratteri di tipo militare. Nella versione gramsciana, il partito si articola su tre livelli: al vertice un nucleo dirigente, dotato di inventiva e capacità coesiva, elabora la strategia, coordina e dirige; un secondo strato di dirigenti intermedi che fa da tramite tra la base e i vertici, ha funzioni esecutive; infine la base degli aderenti e dei simpatizzanti – gli uomini ‘comuni’ – limita la sua militanza all’esercizio della fedeltà e dell’obbedienza alle direttive superiori. In Italia, al momento della sua formazione, nel 1921, il PcdI ( Partito comunista d’Italia), nato da una scissione del partito socialista, si struttura in partito d’avanguardia per realizzare la rivoluzione che, a torto, viene ipotizzata come imminente. Questo modello di partito, rimasto vitale per tutto il ventennio di lotta contro il fascismo (proprio perché funzionale all’obiettivo della rivoluzione antifascista e adeguato alle esigenze dell’attività clandestina) viene abbandonato dai comunisti nel 1944 con la ‘svolta di Salerno’ che segna un cambiamento strategico profondo. La convinzione di Togliatti dell’inesistenza di una prospettiva rivoluzionaria a breve in Italia lo porta a teorizzare il ‘partito nuovo’ che, pur dotato di alcuni connotati peculiari al ‘partito d’avanguardia’, si struttura in larga misura come ‘partito di integrazione di massa’, nella forma specifica di ‘partito di integrazione totalitaria’. 

         Partito di integrazione di massa (o organizzativo di massa): nasce nell’ottocento come organizzazione politica delle classi subalterne che il suffragio elettorale ristretto e l’area ancora ridotta delle libertà politiche escludono dalla vita politico-istituzionale dello Stato liberale. Quest’origine, per così dire, ‘esterna’ alle istituzioni dello Stato – secondo l’espressione di Duverger – segna profondamente la fisionomia di questa forma di partito che ha un diffuso radicamento sociale ed una complessa struttura organizzativa di tipo piramidale a livello nazionale e locale, tutte caratteristiche, come si vedrà, antitetiche al ‘partito di rappresentanza individuale’. I rapporti interni ad una organizzazione così capillare sono regolati da norme statutarie  definite che comportano anche una ferma disciplina dei militanti e del gruppo parlamentare alle direttive dei vertici del partito. Mentre i ‘partiti di rappresentanza individuale’ diventano socialmente vitali soltanto in occasione delle elezioni, i ‘partiti di integrazione di massa’ sono attivi nella società civile continuamente. Sostenere, organizzare, educare le masse sono gli obiettivi primari di questo modello di partito la cui forza è proporzionale alla capacità di reclutare militanti e iscritti, a loro volta portatori di consensi elettorali. Il ‘partito di integrazione di massa’, per sua natura rappresentante di interessi generali, diffusi, collettivi – primo fra tutti sul finire del secolo XIX il suffragio universale – è stato definito anche ‘partito comunità’, una società nella società, nel senso che è stato il primo legame sociale degli esclusi. Le masse subalterne, avulse dal sistema politico, ‘integrate’ nel partito, si riconoscono in un patrimonio di valori culturali e politici comuni che, come tessere di un mosaico, vanno a comporre l’immagine di quella realtà ideale da conquistare, la meta finale di tutte la aspirazioni, i desideri, i bisogni di cui il partito si fa carico. È proprio la fede nell’ideologia lo strumento primario di coesione, il comune denominatore che lega milioni di cittadini al partito con un vincolo di vera e propria appartenenza.

         Il primo grande ‘partito di integrazione di massa’ in Europa è il ‘Partito socialista dei lavoratori tedeschi’, fondato nel 1875; dopo questa data in tutti gli Stati europei si diffondono i partiti socialisti. In Italia, il ‘Partito socialista dei lavoratori italiani’ nasce nel 1892 e nel 1895 cambia nome in ‘Partito socialista italiano’ (PSI). La forza del suo radicamento nella società civile, testimoniata fin dalle prime elezioni a suffragio universale maschile (1913), si manifesta in modo inequivocabile nel 1919 quando il PSI diventa il partito di maggioranza relativa. Il secondo ‘partito di integrazione di massa’ che fa la sua comparsa sulla scena politica nel primo dopoguerra (1918) è il ‘Partito popolare italiano’ (PPI), rappresentante delle masse cattoliche. Anch’esso mostra la sua forte presenza nella società con una grande affermazione elettorale nel 1919: 100 deputati in Parlamento. 

         Partito di notabili (o di rappresentanza individuale): con questo termine si indica la prima formazione partitica ‘moderna’ che fa la sua comparsa negli Stati liberali del continente europeo fin dal secolo XIX. Il tipico esempio di ‘partito di rappresentanza individuale’ è il ‘Partito liberale’, un partito borghese per definizione che esprime il bisogno di partecipazione delle classi medie, comparse alla ribalta della politica sull’onda della grande rivoluzione industriale. Diventata progressivamente forza egemone in campo economico, la borghesia punta a conquistare anche la supremazia politica e sociale all’interno degli Stati nazionali che vanno ridefiniti nelle loro regole, negli ordinamenti, negli equilibri politici, in una parola vanno trasformati in Stati di diritto. Il ‘Partito liberale’ diventa il soggetto collettivo deputato a lottare per la supremazia borghese e a rappresentarla nei nascenti regimi parlamentari. La nascita del primo partito liberale si verifica – non a caso – in Inghilterra (‘Liberal Party’), dove, grazie alla riforma del 1832 (Reform Act), fanno il loro massiccio ingresso nella Camera dei Comuni i rappresentanti dei nuovi ceti imprenditoriali industriali. Più in generale il ‘Partito di rappresentanza individuale’ rappresenta nelle istituzioni dello Stato gli interessi di classe della borghesia, vale a dire interessi individuali o di gruppi ristretti (da cui deriva appunto il nome: ‘partito di rappresentanza individuale’). Questo tipo di partito, proprio in ragione delle sue funzioni, non è attivo continuativamente nella società civile; la sua presenza si manifesta nel paese solo in occasione delle campagne elettorali attraverso lo strumento dei comitati locali. I comitati locali non sono vere e proprie strutture del partito collettivamente intese, in quanto nascono e muoiono in funzione dell’elezione di un singolo candidato. Il partito, in quanto tale, è privo di forme aggregative permanenti, ha una ridotta solidarietà interna e una disciplina quasi inesistente fra i suoi membri. L’assenza di una base di massa, che sia il punto di riferimento e di verifica dell’azione del partito, restringe l’area della sua esistenza politica quasi esclusivamente al momento parlamentare. Sotto  questo profilo, Duverger interpreta il ‘partito di rappresentanza individuale’ come una formazione politica ‘interna’ alle istituzioni dello Stato.

         In Italia, solo agli inizi del XX secolo comincia ad emergere l’esigenza di dare nuova forma al ‘Partito liberale’, anche in relazione all’imminente allargamento del suffragio elettorale – al suffragio universale maschile si arriva nel 1912- che avrebbe richiesto una più moderna organizzazione partitica. Il voto di milioni di nuovi elettori pone ai liberali la questione del controllo e dell’organizzazione delle masse che socialisti e cattolici hanno già affrontato, con strutture organizzative diverse dal  ‘Partito di rappresentanza individuale’ – appunto i ‘partiti di integrazione di massa’ -. Tra i liberali, però, sono in pochi a rendersi conto dell’urgenza del cambiamento; si preferisce eludere il problema, senza rendersi conto che il ‘partito di rappresentanza individuale’ è un canale politico inadeguato in una società di massa. Il ceto politico liberale egemone nel sistema non riesce ad attivare intorno a sé quel vasto consenso popolare di cui invece possono giovarsi i partiti avversari, i socialisti, i  popolari ed i fascisti. Ed è proprio la mobilitazione della piccola e media borghesia, potenziale base di massa del ‘Partito liberale’ passata invece nelle file dei fasci, a determinare il crollo dello ‘Stato liberale’. 

         Partito di opinione: nella tipologia dei partiti il ‘Partito di opinione’ tende ad essere confuso con il ‘Partito pigliatutto’ che – secondo Duverger – è la forma del ‘Partito di opinione’ in versione tipicamente europea; talvolta ci si limita a definirlo semplicisticamente come ‘Partito non subculturale’, per sottolinearne l’assenza di radici tra le grandi masse. Secolarizzazione, scolarizzazione e sviluppo economico hanno trasformato radicalmente il comportamento politico dei cittadini insieme ai valori ed agli strumenti della politica. Nell’area dei paesi più avanzati dell’Occidente capitalistico si è attivato un processo di progressiva omologazione che segna il declino delle forze partitiche ottocentesche, via via sostituite da nuove aggregazioni più rispondenti alle diverse domande ed al più maturo livello culturale della società civile. In Italia, più arretrata sul cammino della modernizzazione, questo cambiamento è ancora in divenire, ostacolato dalla persistenza delle subculture e da una tradizione religiosa che frena la completa laicizzazione della politica. A partire dagli anni settanta, comunque, si è cominciato a delineare un primo nucleo di elettorato di opinione ormai libero da vincoli di fede e di appartenenza ideologica che prelude ad un rinnovamento più incisivo degli strumenti partitici tradizionali.

         La comparsa di questo nuovo elettorato ha coinciso con il referendum sul divorzio del 1974 quando, in difesa della nuova legge, si è realizzata una grande mobilitazione civile, a prescindere appunto dai singoli legami partitici e, nel caso dei cittadini cattolici, contro la stessa lealtà del voto al partito. Questo comportamento elettorale che esprime appunto un’opinione libera da condizionamenti di appartenenza ai partiti, riflette la logica dominante il moderno mercato elettorale: il voto di ciascun elettore – secondo Downs – risponde, cioè, a criteri razionali e individualistici. Venuto meno il rapporto di identificazione che vincolava il singolo alle strutture di partecipazione ecclesiale o partitica, l’elettore dispone del proprio voto come di una merce di scambio; acquista ‘beni politici’ sul ‘mercato elettorale’ dove i partiti in lizza si comportano come imprese concorrenti, ciascuna delle quali si propone di monopolizzare il mercato. L’elettore di opinione è disposto a cedere il proprio voto al partito che gli offre un programma più convincente di quello degli altri partiti o, comunque, più rispondente ai suoi interessi ed al suo modo di rapportarsi alla politica. Il nuovo elettorato costringe, dunque, i partiti a modificare se stessi – strutture, ideologie, strategie politiche – per mettersi in grado di conquistare consensi assai più critici e liberi del passato, ma soprattutto non più stabili. La fluttuazione elettorale impone un riposizionamento dei partiti a tutto campo nella società la quale non appare più una costruzione divisa in compartimenti tra loro incomunicabili. Nessun partito ha più la garanzia certa di un ‘suo’ elettorato fedele, né di una subcultura territoriale dove ha radici sicure; costretto a rivolgersi a tutto il paese contemporaneamente, nel tentativo di massimizzare i potenziali elettori, finisce inevitabilmente per darsi un volto dai connotati sfumati e coniare un messaggio dai toni concilianti. Non è casuale, per tornare sul terreno delle tipologie, che Duverger assimili il ‘Partito di opinione’, per quanto riguarda l’Europa, in particolare l’Italia, al ‘Partito pigliatutto’. 

         Partito pigliatutto (o Partito elettorale di massa): il modello del ‘Partito pigliatutto’, teorizzato negli anni sessanta da Otto Kircheimer (‘catch all party’) deriva direttamente dalle evoluzioni subite dal ‘partito di integrazione di massa’ nei paesi che hanno subito un elevato grado di industrializzazione, urbanizzazione ed estensione dei diritti politici e civili. In queste nuove società moderne, ideologia e organizzazione, i due pilastri portanti del ‘partito di massa’, sono minati alla base dal ‘Welfare State’ che favorisce un’integrazione indiretta delle masse e porta via via alla secolarizzazione della politica. Il crescente potere dei media semplifica i processi di socializzazione e di politicizzazione, omologa rapidamente la popolazione ed abbatte i recinti delle subculture tradizionali; mentre la scolarizzazione, anch’essa strumento di omologazione culturale, produce un nuovo elettorato critico e pragmatico, svincolato dai legami di appartenenza fideistica ai partiti, con il conseguente progressivo aumento della ‘turbolenza’ elettorale, vale a dire dell’instabilità e imprevedibilità nel voto. Nel tentativo di adeguarsi a questa realtà, i ‘partiti di integrazione di massa’ mutano le loro strutture interne ed il rapporto con la società civile, fino a snaturare il modello originario che assume appunto le caratteristiche di ‘partito pigliatutto’. L’impegno di aggregazione, gestione e controllo degli iscritti diventa sempre più pratica amministrativa, mentre l’azione politica passa nelle mani dei cosiddetti ‘politici di professione’ che guidano i partiti come e vere ‘agenzie elettorali’. Allentato, con il tramonto delle ideologie, il legame tradizionale con la ‘classe gardée’ – il proletariato per quanto riguarda i partiti di massa socialisti – il ‘partito pigliatutto’ definito anche ‘partito elettorale di massa’ o ‘partito professionale elettorale’, punta a massimizzare gli elettori. Si propone, cioè, indistintamente a tutte le classi sociali in un mercato del voto che la crescita dell’elettorato di opinione, laico ed instabile, ha reso fortemente concorrenziale. Nel tentativo di persuadere ed attirare il maggior numero possibile di elettori, la fisionomia del partito perde le connotazioni estreme e la cornice ideologica di riferimento, mentre acquista una identità contemporaneamente più astratta e più concreta: astratta a tal punto da rendere irriconoscibile la matrice ideologica, in un richiamo a valori ideali del tutto condivisibili; concreta perché alla strategia ed al programma si sostituisce la specificità di alcuni temi di immediata attuazione, capaci di attirare consensi certi.

         La comparsa dei ‘partiti pigliatutto’ sulla scena politica italiana è causa ed effetto di un’evoluzione del sistema che va lentamente superando la contrapposizione frontale tra schieramenti, tipica del ’48, quando si è toccato il culmine dello scontro. Le distanze tra i partiti si vanno via via colmando in una dinamica centripeta speculare alla maturazione democratica della società civile dove le laceranti fratture sociali ed ideologiche si sono fatte a loro volta meno profonde. Dallo scontro insanabile – in un conflitto con caratteri di vera e propria guerra di religione – si passa al dialogo, alla trattativa ed al patteggiamento tra i partiti, per spartirsi aree di influenza elettorale dai confini indeterminati. In Italia, durante la cosiddetta ‘Prima Repubblica’, la DC, per sua natura partito interclassista, determinato a collocarsi al centro del sistema, è la forza politica che meglio incarna il ‘partito pigliatutto’; ma a questo modello, a partire dagli anni ottanta, si viene uniformando il PSI, con la progressiva perdita delle radici ideologiche e di classe; persino nel PCI, a partire dagli anni settanta, è in atto una trasformazione in questa direzione, anche se prevalgono fino al suo scioglimento i connotati del ‘Partito di integrazione di massa’. 

- Partitocrazia 

 Il termine viene utilizzato in alcuni contesti europei, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, con riferimento ad un fenomeno non nuovo, ma inusitato nelle sue manifestazioni quantitative: la presenza e l’insediamento sociale e politico dei ‘partiti di massa’. Il fenomeno non è nuovo poiché sia la Germania che la Francia che l’Italia avevano conosciuto partiti di massa, radicati e insediati, fin dall’inizio del secolo, con il rafforzamento dei partiti socialisti. Tuttavia, esso acquisisce caratteristiche insolite poiché ora abbiamo una preminenza dei partiti in tutti i settori: politici, sociali ed economici; costante è il loro sforzo di penetrare nuovi e sempre più vasti ambiti. Ciò  culmina nel loro completo controllo di tutta la società. A questo punto davvero partitocrazia è ‘dominio dei partiti’.

         Il termine viene utilizzato in una prima fase che va fino alla fine degli anni sessanta in maniera essenzialmente critica da autori e uomini politici che si potrebbero definire in senso lato ‘liberali’. Essi rimpiangono i tempi della rappresentanza individuale degli interessi, la fase in cui i notabili (cioè gli uomini degni di nota) potevano svolgere attività politica relativamente svincolati dalle organizzazioni, tempi in cui esisteva un ‘pubblico’ ristretto e bene informato a dibattere i problemi politici e a controllare il proprio rappresentante (va aggiunto che spesso, forse ingiustamente, la polemica contro la ‘partitocrazia’ si accompagna agli attacchi contro la rappresentanza proporzionale). Se da una parte c’è chi, sull’esempio di De Gaulle, non cessa di criticare i partiti come corpi intermedi che distorcono la volontà dei cittadini e chi, come Maranini,  egualmente conduce una battaglia contro la penetrazione ossessiva dei partiti nella società, dall’altra parte vi è chi, in Germania, allo Stato dei partiti (‘Parteienstaat’) attribuisce anche qualità positive di consolidamento della democrazia post-nazista.

          È tuttavia necessario sottolineare come, dopo la lunga fase di insediamento - consolidamento dei partiti, anche alcuni studiosi e uomini politici che avevano visto con favore l’espansione della politica attraverso e grazie al ruolo dei partiti, comincino a sottoporre a critica alcuni elementi di inadeguatezza e di degenerazione. Appaiono così le critiche di Bobbio ai partiti italiani divenuti diaframma e non tramite delle domande sociali e politiche, di Pizzorno ai partiti incapaci a svolgere con efficacia le funzioni di trasmissione della domanda e di delega politica (polemica che già tocca il problema della burocratizzazione dei partiti e del mancato ricambio), di Sartori alle degenerazioni dei partiti in coacervi di fazioni. Ma il momento della ‘svolta’ nella critica alla ‘partitocrazia’ avviene da un lato nel ’68 quando alcuni gruppi rifiutano l’istituzionalizzazione burocratica e vedono nei partiti, in tutti i partiti, uno strumento di conservazione e non di trasformazione della società, e alla metà degli anni settanta quando, soprattutto i movimenti e gli autori radicali lanciano le loro critiche ai partiti totalizzanti e pedagogici e alla loro pretesa di monopolizzare la domanda politica, controllare l’espressione dei nuovi bisogni, impedire ogni movimento potenzialmente destabilizzante di equilibri politici tradizionali. A questo punto la critica alla ‘partitocrazia’ ha cambiato segno politico: essa proviene ora da sinistra (anche dall’interno dei partiti di sinistra, pur preoccupati di mantenere le loro posizioni di potere), si erge a rappresentante di una società civile cambiata e che vuole cambiare, anche contro i partiti e comunque senza i partiti e al di fuori di essi. La ‘partitocrazia’ viene accusata di volere cambiare le esigenze di mutamento, di volere incanalare tutto nell’alveo  della politica istituzionale dei partiti, di non lasciare spazio alla società civile, ai veri bisogni delle masse. L’attacco alla ‘partitocrazia’ è anche un attacco alla sorda politica dei ‘professionisti’, di un nuovo ceto che si autorecluta e si mantiene, che vive della politica e non per la politica (come profeticamente aveva ammonito Weber). Il circolo si chiude così: la ‘partitocrazia’ ha creato potenti critiche anche all’interno di coloro che ne avevano apprezzato le esigenze nella fase di trasformazione della politica in attività di massa, ma che ora ne denunciano le insufficienze ed i guasti e alla loro scoperta si dedicano. 

- Sistemi di partito 

         La classificazione dei sistemi di partito che Sartori porta a compimento nel libro Parties and Party Systems costituisce un significativo esempio di ricerca comparata. Secondo Sartori per distinguere tra sistema e sistema occorre prendere in considerazione almeno quattro fattori:

1.)  Il grado di frammentazione di ciascun sistema

2.)  La distanza ideologica che separa i vari partiti tra di loro

3.)  Il potenziale di coalizione

4.)  Il potenziale di ricatto

         I due ultimi fattori consentono di distinguere i partiti che contano da quelli irrilevanti. Il potenziale di coalizione riguarda i partiti minori che diventano rilevanti ai fini della caratterizzazione del sistema quando si dimostrano necessari per la costituzione di qualsiasi possibile maggioranza governativa; il potenziale di ricatto o intimidazione concerne invece anche i partiti di opposizione permanente, esclusi in quanto tali dalle coalizioni, ma tuttavia rilevanti nella misura in cui costringono i partiti di governo a modificare la loro strategia competitiva e talvolta le loro scelte

         Partendo da queste variabili Sartori distingue nei regimi precedentemente classificati come monopartitici i sistemi a partito unico da quelli a partito predominante e da quelli a partito egemonico. La sua tesi è che sono a ‘partito unico’ quei sistemi che non permettono né di fatto né di diritto l’esistenza di altri partiti, mentre tanto nei sistemi a ‘partito predominante’ che quanto in quelli a ‘partito egemonico’ sussistono altri partiti. Nel primo caso, i partiti minori si configurano come legittimi competitori del ‘partito predominante’, anche se generalmente hanno pochissime probabilità di vincere la competizione elettorale; nel sistema a ‘partito egemonico’ possono essere presenti altri partiti che tuttavia non sono in condizione di competere né di fatto né di diritto con il ‘partito egemone’, rispetto al quale si configurano come ‘partiti satelliti’. Così, mentre il sistema a ‘partito predominante’ è per certi aspetti un sistema pluralistico competitivo in cui, tuttavia, non si verifica alcun avvicendamento al governo, il sistema a ‘partito egemonico’ esclude non solo l’avvicendamento ma anche qualsiasi competizione effettiva. I sistemi a ‘partito unico’, invece, vietano esplicitamente ogni manifestazione di pluralismo partitico e, sulla base di un ordine di intensità decrescente di repressione o coercizione che vengono esercitate nella società, possono dar luogo a tre diversi casi di regime monopartitico dominato da:

a.)  Partito unico totalitario

b.)  Partito unico autoritario

c.)   Partito unico pragmatico

         Anche i sistemi bipartitici, che apparentemente non presentano difficoltà di individuazione, debbono essere sottoposti ad esame accurato, dal momento che spesso in essi si ritrovano dei terzi partiti. Utilizzando il potenziale di coalizione, il terzo partito non viene contato quando la sua presenza non impedisce ai due partiti maggiori di governare senza l’ausilio di coalizioni. D’altro canto, sotto il profilo della meccanica, il bipartitismo è tale quando si realizzano quattro condizioni:

1.)  Due partiti sono in condizione di competere per la maggioranza assoluta dei seggi.

2.)  Almeno uno dei due partiti riesce a conquistare una maggioranza sufficiente che lo mette in condizione di governare da solo.

3.)   Tale partito è disposto a governare in questa condizioni.

4.)   L’avvicendamento al potere tra partito di governo e partito di opposizione rimane un’aspettativa credibile e concreta.

         Riguardo al sistema con più di due partiti, Sartori non si limita ad articolare la categoria generica del pluripartitismo, ma predispone una vera e propria ‘teoria del pluralismo polarizzato’, che fino ad oggi costituisce uno dei risultati più rilevanti dell’analisi dei partiti. Punto di partenza per la tassonomia dei sistemi pluripartitici sono i concetti di polo e di polarizzazione. Se l’analisi è rivolta ad individuare i ‘poli’, i punti di coagulazione di un sistema partitico, si scopre che il numero dei poli può oscillare , senza corrispondere al numero dei partiti, tra una situazione ‘bipolare’, orientata secondo un allineamento dualistico del tipo ‘governo - opposizione’, che esclude la presenza di un eventuale ‘centro’ ed una situazione ‘multipolare’, in cui, al contrario, esistono tre o più punti di coagulazione per l’elettorato e le forze politiche. La ‘polarizzazione’ invece misura la ‘distanza ideologica’ che separa i partiti tra loro e, mentre da un lato riguarda la distanza fra i poli, dall’altro indica la distanza su cui si distribuiscono le opinioni dell’elettorato. Infine, se si tiene conto delle direzioni e delle ‘spinte’ che caratterizzano la dinamica competitiva di un sistema partitico, si possono osservare due opposte tendenze: quella centripeta, tipica dei sistemi bipolari, in cui i partiti convergono verso il centro, e quella centrifuga, presente nei sistemi multipolari e polarizzati, in cui i partiti sperimentano un processo centrifugo di dispersione e di lacerazione del consenso.

         Applicando questa tipologia al contesto europeo, nel pluralismo semplice, bipolare, non polarizzato e centripeto, può essere fatto rientrare il sistema partitico inglese; mentre, all’estremo opposto, un pluralismo estremo, multipolare, polarizzato e centrifugo, può essere utilizzato per descrivere ed interpretare il sistema italiano negli anni del secondo dopoguerra. Gli altri paesi europei rientrano (indipendentemente dal fatto che abbiano tre, quattro o cinque partiti) quasi tutti nel pluralismo moderato e presentano polarità moderata anche se, in tempi diversi, la Germania di Weimar e la Francia della Quarta Repubblica hanno assunto le caratteristiche del pluralismo estremo. L’elemento che connota i sistemi di pluralismo moderato è la presenza di governi di coalizione (a differenza dei sistemi a pluralismo semplice dove, invece, governa un solo partito), mentre nel caso di sistemi multipartitici estremi e polarizzati l’elemento caratterizzante è la presenza di partiti antisistema, cioè portatori di ideologie e valori contrapposti non solo alla coalizione di governo, ma ai valori ed alle formule politiche dell’ordinamento in cui si trovano ad operare. Secondariamente, le opposizioni sono più di una e per giunta si trovano collocate sui due lati estremi rispetto al governo. Dal momento che sono ideologicamente distanziate, le opposizioni bilaterali non possono allearsi e solitamente si combattono tra loro conferendo una straordinaria importanza politica al ‘centro’, che diventa pertanto il perno su cui funziona l’intero sistema. Alla polarizzazione che contraddistingue il pluralismo estremo, per cui lo spazio politico ed ideologico su cui si distribuisce l’opinione pubblica copre la massima dispersione possibile da un’estrema destra ad un’estrema sinistra, si accompagna una prevalenza delle spinte centrifughe sull’attrazione centripeta. Infine il pluralismo polarizzato, a causa dell’intensa mentalità ideologica che permea l’elettorato, consente lo sviluppo ed il consolidamento di opposizioni irresponsabili che, nella quasi assoluta certezza di non riuscire ad entrare in una coalizione di governo, non hanno nulla da perdere nel perseguire una politica di ‘scavalcamento’ nei confronti di chi è al potere, esercitando una critica continua e spesso non costruttiva e lanciandosi in programmi e promesse che difficilmente saranno chiamati ad onorare. Da tutti questi elementi consegue che la meccanica del pluralismo polarizzato è radicalmente diversa da quella del pluralismo moderato. Quest’ultimo ruota attorno a coalizioni governative in cui alcuni partiti si avvicendano al potere ed altri cambiano alleati; tutti i partiti che contano sono orientati a governare e possono avere accesso al governo. Nel pluralismo polarizzato si ha invece una situazione semiperiferica limitata ai partiti di centro-sinistra e centro-destra, mentre i partiti collocati su posizioni estreme non si aspettano di diventare partiti di governo. 

                                                                     Federico Gozzi