BIOPOLITICA

“LA BIOPOLITICA DEL  TERZO REICH” seconda parte

                     di GIULIO MAGNO    versione stampabile

LEGGI la prima parte

Discriminazione e sfruttamento

L’intreccio tra politica e finanza  

L’antisemitismo era già presente nel patrimonio ideologico di Hitler sin dagli anni giovanili di Vienna, anteriori al suo trasferimento a Monaco, avvenuto nel 1912: in quegli anni, i suoi idoli erano i più fieri esponenti del razzismo antisemita austriaci, Karl Lùger e Georg Schònerer.

Ma una indicazione sulla visione nazista della nuova Europa, così come fu immaginata dallo stesso Hitler nei giorni seguenti ai primi entusiasmanti successi della Wehrmacht, fornisce elementi che dimostrano come la prassi della discriminazione non dovesse colpire solamente gli ebrei, ma si estendesse ad altri popoli, che, seppur privi di un “peccato originale” nei confronti della nazione tedesca, sarebbero comunque stati trattati come animali da lavoro. Vale la pena quindi riportare alcuni brani, scritti dallo stesso Hitler, sull’assetto dei territori conquistati (o in procinto di esserlo) ad Est:

“Bisogna partire dal concetto che questi popoli non hanno altro dovere che servirci sul piano economico. Il nostro sforzo deve dunque consistere nel trarre dai territori che essi occupano tutto quanto se ne può trarre…Solo ai nostri commissari spetterà di sorvegliare e dirigere l’economia dei paesi conquistati…e soprattutto, che non si veda spuntare la ferula dei nostri pedagoghi, con la loro mania di educare i popoli inferiori e la loro mistica della scuola obbligatoria! Tutto quanto i russi, gli ucraini, i kirghisi potessero imparare a scuola finirebbe per volgersi contro di noi…Circa l’igiene delle popolazioni sottomesse, è perfettamente inutile farle beneficiare delle nostre cognizioni.

 Il risultato principale di una tale iniziativa sarebbe un aumento enorme del numero degli abitanti. Perciò proibisco assolutamente di organizzare campagne d’igiene e di pulizia in dette regioni. In tali territori la vaccinazione obbligatoria dovrà praticarsi solo ai tedeschi…C’è realmente il pericolo che, sotto la nostra dominazione, questa popolazione indigena si accresca con un ritmo accelerato. E’ infatti inevitabile che, grazie a noi,le sue condizioni di vita diventino migliori e più sicure. Perciò dobbiamo prendere ad ogni costo le disposizioni necessarie per evitare che in tali regioni si accresca la popolazione non tedesca…Jodl ha perfettamente ragione di ritenere superflui gli avvisi in lingua ucraina che ammoniscono che è pericoloso attraversare i binari. Che un indigeno di più o di meno si faccia schiacciare dal treno, a noi che ce ne importa?”[1]

Queste affermazioni, che risalgono al 1942, non sono solo le farneticazioni di un folle lucido, ma semplicemente costituiscono una cronaca di ciò che in effetti si verificò: uno sfruttamento sistematico e spietato dei territori occupati e delle popolazioni che vi vivevano, da parte del poderoso intreccio tra alta finanza industriale tedesca e vertici del nazismo.

Alla Kriegsideologie degli anni ’20 subentrò infatti, sin dai primi passi del partito nazionalsocialista, il principio del cosiddetto “socialismo germanico”, un tentativo apparentemente genuino di operare una sintesi tra comunismo e nazionalismo, che in realtà si rivelò una copertura ideologica per nascondere agli strati sociali meno dotati di cultura politica la vera sostanza nazionalistico-imperialistica del nazismo.

Attraverso la militarizzazione dei lavoratori, l’introduzione di un corporativismo molto accentuato nel mondo della produzione, ogni conflitto di classe fu estirpato, in ossequio al principio dell’ordine gerarchico, del Fuhrerprinzip.

Il primo beneficiario di tale stravolgimento dei rapporti sociali e di lavoro fu naturalmente il ceto imprenditoriale tedesco, la classe degli Junker e delle grandi famiglie industriali, e non per ventura: cospicui finanziamenti pervennero da questi alle casse del partito nazionalsocialista, sin dagli anni ’20, poiché la destra nazionalista tedesca, spesso costituita da veterani e da reparti di ex-combattenti della Wehrmacht, si scontrava duramente e frequentemente con le forze della sinistra radicale.

La sovvenzione dei partiti di estrema destra in funzione antidemocratica fu quindi non solo una spesa accessoria: essa costituì in realtà un grosso investimento, come vedremo, che avrebbe permesso alla classe sociale dominante di scardinare in breve le ancor deboli istituzioni della giovane Repubblica di Weimar, rafforzando il proprio vantaggio economico e ponendo le basi di una interpretazione estrema del capitalismo che si sarebbe spinta sino alle più disumane conseguenze.

Una conferma di quanto accennato ci è offerta dall’analisi del cosiddetto “secondo piano quadriennale”. Annunciato in occasione dell’VIII congresso del partito nazionalsocialista di Norimberga, il 9 settembre 1936, dallo stesso Hitler, che ne aveva nel contempo nominato commissario Hermann Goering, si presentava come un ambizioso progetto di sostegno al mondo produttivo tedesco, all’insegna di una marcata autarchia e di un proseguimento della politica del riarmo.

Ciò che più colpisce, indipendentemente dagli obiettivi dichiarati, è la mancanza di un reale intervento dello Stato nell’economia: non incideva sulle sue strutture, limitandosi quindi a costituire un insieme di norme di coordinamento puramente tecniche.

Al di là della creazione di alcune grossa società, laddove gli interessi dei gerarchi del partito potessero avere un qualche riscontro[2], il governo concentrò il proprio operato nella lotta all’associazionismo operaio e nell’attuazione del contenimento delle richieste salariali dei lavoratori, temi questi assai cari  ai grossi cartelli della produzione industriale pesante tedesca che poterono così usufruirne vantaggiosamente.

I salari dei lavoratori subirono quindi un forte rallentamento nella loro dinamica, e vennero svincolati dall’andamento dei ricavi delle industrie.

La creazione del Fronte del Lavoro, affiancata dall’organizzazione dopolavoristica “Forza nella gioia”, nel contempo, costituì un altro strumento di penetrazione ideologica per il nuovo regime, a tutto vantaggio dei poteri forti dell’economia.

Il carattere imperialistico monopolista del regime nazista, testimoniato anche dalla grande dinamica di concentrazione delle società quotate in borsa negli anni correnti dal 1933 al 1943, e di correlati aumenti dei ricavi industriali,[3]non tardò ad affermarsi nello sfruttare l’enorme numero di lavoratori a bassissimo costo che gli eventi bellici offrirono, con le conquiste della Wehrmacht, a partire dal 1939.

Con l’inizio delle ostilità, infatti, questi stessi cartelli assorbirono gli impianti e complessi di produzione di Francia, Belgio, Olanda, Austria, Jugoslavia, Grecia, Unione Sovietica, Cecoslovacchia, Norvegia e così via; gli interessi delle banche tedesche non furono meno tutelati, con l’emanazione di direttive che favorivano l’infiltrazione dei capitali tedeschi nelle economie di mezza Europa, approfittando della confisca delle quote di partecipazioni societarie straniere e soprattutto ebraiche.

Pesanti spese di occupazione furono imposte ai paesi che la subivano, senza considerare l’ingente massa di materie prime sottratte loro direttamente.

Lo sfruttamento della manodopera straniera proveniente dai territori occupati, costretta ad affluire versi i distretti industriali in mano tedesca, oltre che servire a colmare i vuoti lasciati dalle necessità del reclutamento militare, costituì una grande occasione per l’industria del Terzo Reich, che retribuì quei lavoratori con salari che costituivano un terzo od un quarto delle già magre paghe corrisposte ai lavoratori germanici.

E ciò senza considerare l’utilizzo dei deportati come schiavi, e quindi come tali non retribuiti, operato dalle grandi industrie estrattive e di produzione bellica, come la IG-Farben, la Siemens, il complesso Krupp: questa manodopera costava alle industrie circa un quinto della corrispondente manodopera tedesca, e quei soldi venivano versati direttamente alle SS, quali responsabili della gestione amministrativa dei campi di sterminio.[4]

Non a caso, numerose industrie tedesche delocalizzarono i loro impianti proprio nelle vicinanze dei campi di deportazione.

Dalle precedenti considerazioni, emerge con chiarezza come la interpretazione fortemente razzista della società non fosse prerogativa dei soli militanti del partito nazionalsocialista, ma anzi, avesse pervaso molte parti della società tedesca, a tal punto da far ragionevolmente dubitare che il favore accordato al partito nazionalsocialista degli albori, da parte di alcuni grandi industriali, costituisse solo un aiuto concreto in funzione anticomunista.

Lo stretto intreccio tra vertici economici della Germania più conservatrice  e i “nuovi padroni” nacque molto presto, e si consolidò con benefici reciproci, non vacillando neppure di fronte allo schiavistico sfruttamento dei deportati nei lager.

Quantomeno, i grandi capitani d’industria, gli Junkers latifondisti e le grandi famiglie della finanza tedesca, avrebbero dovuto domandarsi cosa si nascondesse dietro quella mano d’opera a prezzo stracciato che permetteva loro di arricchirsi così spudoratamente.

Più probabilmente, invece, con disumana efficienza economica, realizzarono che la competizione tra colossi finanziari e produttivi sarebbe stata vinta solo da coloro che per primi avessero potuto attingere a quella risorsa quasi illimitata di braccia umane a basso costo, perché avrebbero sbaragliato qualsiasi concorrenza.

Il fatto che altri, i politici, in quel particolare momento storico, adottassero politiche razziali estreme, sino all’abbrutimento e alla morte dei nuovi schiavi, probabilmente giocò un ruolo “spersonalizzante” della colpa, ma ai nostri occhi non costituisce di certo un alibi sufficiente.


[1] Adolf Hitler – Conversazioni segrete, ordinate ed annotate da Martin Bormann, Richter, Napoli 1954 – pp. 450-53

[2] La Reichswerke Hermann Goring costituì un esempio in tale senso, anche se orientò i suoi interessi nel campo dello sfruttamento minerario soprattutto verso i paesi occupati.

[3] Cfr. E. Collotti”La Germania nazista” Einaudi Torino1962  p.128-9.

[4] Cfr. ibidem, pp. 174-5

Giulio Magno

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