BIOPOLITICA
Il proibizionismo e i falsi principi morali

Forse siamo riusciti, con il proibizionismo, a frenare il consumo delle droghe?

                          di GIULIO MAGNO    versione stampabile

In una recente intervista a Radio Radicale, il Ministro Ferrero ha chiarito la propria posizione per ciò che riguarda la possibilità di sperimentare nuovi percorsi nella lotta alle tossicodipendenze: il richiamo alle narco salas o shooting rooms, le camere del buco, ha scatenato una serie di polemiche, che per la loro radicale contrapposizione colpiscono il lettore non ideologicizzato.

Vediamo di cosa si tratta.

Le camere del buco sono dei luoghi presso i quali il tossicodipendente può iniettarsi la dose di stupefacente, evitando di farlo per strada, in luoghi degradati, lontano da un eventuale aiuto medico.

Sono state inaugurate in alcuni Paesi europei, quali la Germania e la Svizzera, con incoraggianti risultati: l’approccio offerto da questa innovativa esperienza si propone infatti di conseguire tre risultati concreti.

Il primo di questi, come già accennato, è il controllo medico del tossicodipendente, che anche solo per questo, considerato l’uso di siringhe di sicura provenienza, favorisce una riduzione della mortalità legata ad overdose o infezione da Hiv.

Il secondo risultato è fornito dallo “stravolgimento estetico” che subisce l’azione del bucarsi agli occhi del giovane: trattando la tossicodipendenza come una malattia la si rende inequivocabilmente meno attraente e trasgressiva per chi non l’ha mai provata ed intende accostarvisi.

Il terzo risultato è offerto dall’osservato incremento dei recuperi, cioè di abbandoni della “malattia”, legato direttamente alla presenza di operatori qualificati, capaci di intervenire con un adeguato supporto psicologico.

Tralasciamo per un attimo le ragioni di chi si oppone a questo tipo di sperimentazione, per esaminare ulteriori ricadute di una tale rivoluzione profilattica.

Considerare la tossicodipendenza come una malattia, e non un vizio, anche se le motivazioni iniziali di un drogato possono essere le più diverse tra loro, impone un capovolgimento nella prassi della politica sin qui adottata: la prevenzione prenderebbe il posto della repressione, la cura il posto dell’emarginazione, l’apertura verso le ragioni del disagio il posto dello stigma sociale.

Ma non solo. Pensate alla droga ricevuta in farmacia dietro presentazione della ricetta medica: basta microcriminalità, che nella stragrande maggioranza dei casi porta il tossicodipendente nelle carceri, ove porta il suo disagio aggravandolo, basta lauti e illeciti guadagni della criminalità organizzata, che vengono poi riutilizzati lecitamente dopo adeguate operazioni di “lavaggio”del denaro, basta con l’aspetto seducente della droga nei confronti dei più giovani. Pensiamo a quanto poco trasgressivo appaia il drogato che va in farmacia per farsi dare la dose…

Le stanze del buco non sarebbero quindi che un primo, necessario passo verso una visione pragmatica del problema delle droghe pesanti.

Chi critica questo approccio, chiamandolo “spaccio di Stato”, come le forze politiche più conservatrici hanno fatto, ritiene più sicura la società con i drogati tutti rinchiusi (salvo i loro giovani, tossici anche se di buona famiglia, perché possono mandarli nelle comunità più costose…), confondendo l’effetto con la causa: è il costo altissimo della droga illegale (perché tale) a creare il presupposto della presenza della criminalità, non l’inverso. In altre parole, se la dose costasse un euro, quale mafia si darebbe da fare per importarla, quale famiglia andrebbe in rovina per le continue richieste, i furti, gli scippi del figliolo purtroppo caduto nella dipendenza? Quale allarme sociale creerebbe la parte di gioventù colpita da quel disagio? Trattando la dipendenza per ciò che realmente essa è, cioè una conseguenza di un disagio psicologico, e non uno stigma, una croce da portare nelle carceri, non si otterrebbero migliori risultati di quelli ottenuti sinora?

Forse siamo riusciti, con il proibizionismo, a frenare il consumo delle droghe?

Si deve portare il problema nelle coscienze, a partire dalle scuole, dalle famiglie, e successivamente operare con coraggio, tagliando l’erba sotto i piedi delle organizzazioni criminali, passando la droga ai dipendenti sotto controllo medico, senza ipocrisie, senza preconcetti, prendendo soprattutto atto del clamoroso fallimento delle politiche sin qui adottate.

Non si tratta di consegnare lo stupefacente per incoraggiarne il consumo, il messaggio deve essere forte e chiaro: la droga può essere mortale, ma soprattutto ti può far morire prima del tempo, da un punto di vista sociale, economico, spirituale.

È saggio anche non confondere droghe pesanti con droghe leggere, poiché diversi sono gli effetti, diverso il contesto di assunzione, ma soprattutto diverse le motivazioni individuali. Bisogna anche prestare molta attenzione ad abitudini consolidate culturalmente, che proprio per tale loro natura, passano quasi inosservate rispetto al problema delle dipendenze.

Epidemiologicamente parlando, infatti, gli effetti sociali dell’assunzione di alcool, per esempio, sono tremendi, sintomi anche questi, in taluni casi, di un profondo disagio giovanile. Eppure, anche se l’alcool dà assuefazione, danneggia il corpo e la mente alla stessa stregua delle droghe pesanti, si continua a vedere proposto un modello di consumo che vede associati l’alcool ed il successo.

Contrastare la diffusione di questi modelli, così come tentare di percorrere strade coraggiose nella lotta a tutte le dipendenze, è una precisa scelta biopolitica.

Alla prossima settimana

Giulio Magno