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UOMINI E BESTIE 

8: Prospezioni dell’immaginario

Anguina numina

Parte prima  

I  Medievali si figuravano i draghi piú o meno come noi potremmo pensare al Fafner wagneriano o allo Smog di Tolkien: con cresta e ali d’uccello o membranose, corpo prima di serpente, poi di coccodrillo, infine del tutto fantastico, due o quattro zampe, fauci velenose poi ignee, coda possente. Due esempi sono la miniatura del f65v del duecentesco Bestiario di Aberdeen (Aberdeen Univ. Libr. ms. 24), ove si legge (f65r-v):

Il Drago è il piú grande di tutti i serpenti o addirittura di tutti gli animali della terra. I Greci lo chiamarono Draconta, da cui è derivato il latino draco. Spesso viene attratto fuori delle caverne in cui stà e vola per l’aria, che a causa del suo passaggio si fa turbolenta. Ha una cresta, bocca piccola e stretti sfiatatoi, da cui respira e sporge la lingua. La sua forza non risiede nei denti ma nella coda, e reca danno piú con un colpo di essa che con un morso. Non è velenoso ma, a quanto si dice, per uccidere non gli serve il veleno, perché se stringe qualcuno fra le spire non c’è piú scampo. Neppure l’elefante, nonostanti le dimensioni, è al sicuro dal suo attacco. Infatti si pone in agguato lungo i sentieri di solito da esso percorsi, gli lega le zampe in modo inestricabile e poi lo soffoca sino alla morte. Si trova in Etiopia e in India, dov’è perenne un’afa che raggiunge l’arsura;

 e lo splendido San Giorgio e il drago di Paolo Uccello alla National Gallery, dipinto circa il 1456, già rinascimentale ma ancora gotico (una versione precedente, del 1439-40, si trova al Musée Jacquemart-André in Parigi).

 

Il Bestiario di Aberdeen: miniatura del f65v

 

Paolo Uccello, San Giorgio e il drago

Greci e Romani invece, a quel che pare, pensavano che fossero serpenti scagliosi, a volte costrittori a volte velenosi, di grandezza smisurata. Si potrebbero rendere con “drago” le occorrenze del gr. drákōn e del lat. draco, con “serpente”, “serpe” o “rettile” gr. óphis, herpetón, lat. serpens, anguis, coluber

Del posto unico che i serpenti occuparono nelle pratiche religiose e nel mito, non solo di Grecia e di Roma ma della maggior parte delle culture, si tentò di dar spiegazione in molti modi, che alla fine però si richiamano, o al simbolismo naturale, ad es. del fulmine e dell’acqua, che è un’interpretazione positivistica cui oggi nessuno presta piú fede, oppure a quello archetipico dello spirito creatore, dell’eterna giovinezza, del rinnovamento, del tempo senza principio né fine (l’uroboro), dell’immortalità, infine dell’incarnazione del male (dal mito biblico). Grosso modo il serpente assume, nelle moltissime culture che in ogni parte della terra lo venerano o lo odiano o entrambi, almeno questi significati simbolici:

         1. la vitalità latente e la fecondità;

         2. la sapienza e la scaltrezza;

         3. il divino cosmogonico;

         4. l’eternità e il tempo;

         5. la guarigione e la risurrezione;

         6. il disordine e la malvagità.

 

Quale emblema d’immortalità il serpente compare nel celebre episodio finale dell’Epica di Gilgamesh. Il drago del caos sembra prenda presso i Sumeri il nome di Asag (accadico Asakku). E nell’Enuma Elish Tiamat, che rappresenta le acque amare primordiali, dopo l’uccisione del marito Apsu (le acque dolci) da parte dei figli, per vendicarlo genera undici mostri, tra cui il dragone, i quali combattono contro Marduk e ne escono sconfitti (si noti la palese affinità colla gigantomachia e la titanomachia elleniche).

Dalle esemplari ricerche di Mario Attilio Levi sappiamo che non a caso Cleopatra si fece avvelenare da un aspide, il sacro Ureo della doppia corona del faraone, identificandosi con Iside e riaffermando in tal modo di fronte ai nuovi padroni l’immortalità propria e del suo regno. Il mito egizio conosceva anche il gran serpente Apep, o Apepi, o Apophis, che vive nelle acque del Nilo celeste (la Via lattea) ed ingoierebbe la “barca dei milioni” (la barca di Ra, il Sole, che attraversa ogni notte dodici stazioni ed all’ultima, nell’ora antelucana, esce dalla gola di Apophis in forma di scarabeo, sorgendo all’orizzonte), se i sacerdoti ogni giorno non compissero i necessari riti apotropaici che allontanano il caos. C’è anche il creatore erpetomorfo, Atun, padre dell’Enneade, che, emerso dalle acque primordiali, “sputò” o “eiaculò” l’universo e, quando l’universo tornerà al nulla, si trasformerà di nuovo nel serpente ignoto a dèi e ad uomini, come dice il Libro dei morti.

Nel pantheon ittita compare il dio serpente Illuyankas (che potrebbe essere l’archetipo di Tifone; Illuy-ankas, cfr. lat. anguis, lit. e aprus. angis). Disfa il Signore delle tempeste in Kiskilussa poi, allettato da Inaras con un’opulenta offerta di cibo, esce dal covo coi figli e tanto s’ingozzano che non riescono piú a rientrarvi, allora gli dei, aiutati dall’eroe Hupasiyas, li sopprimono. Secondo un’altra versione, sconfitto il Signore delle tempeste gli sottrasse gli occhi e il cuore e diede in moglie la figlia al figlio di lui, il quale, istruito dal padre, chiese la restituzione degli organi rubati; quando li resero, furono entrambi uccisi. Il rituale della battaglia e dello sterminio del dragone era celebrato ogni primavera per favorire il risveglio della terra.

L’India, com’è ovvio, ha un rapporto particolare coi serpenti. Il mito piú celebre è quello degli Dei e dei Demoni che zangolano l’oceano primordiale usando il monte Mandara quale spatola e quale laccio il Gran serpente Vāsuki (che altrove appare cingere la tartaruga che regge i quattro elefanti che portano l’universo), per trarne il liquore dell’immortalità (amŗta; Mahābhārata I 15 sqq.). Ci sono poi le innumerevoli saghe che hanno a protagonisti o comprimari i nāgā, che è il nome sscr. dei rettili, ed il loro re, Śeşa-ananta il millicipite (an-anta indica l’infinito, cfr. alpha privativum e ingl. end; nel Vişņupurāņa risulta fratello di Vāsuki, a volte forma colle sue spire il giaciglio e il baldacchino ove Visnú dorme gl’intervalli delle creazioni, o regge le sette regioni infere, sede dei Nāgā, su cui insistono le sette regioni supere del mondo), e la battaglia cosmogonica fra Indra e Vŗtra (“il costrittore”, altrimenti Ahi, il serpe celeste, è il demone della siccità, costretto col tuono e il lampo da Indra ad aprire la cateratte superne e ad abbeverare la terra assetata: RV I 31). Il Laya Yoga del tantrismo immagina la natura femminile dell’energia (la Śakti) acciambellata in forma di serpe (Kuņđālinī, “colei che porta orecchini”: la dea Kālī) alla radice della spina dorsale, dormiente ed increata; l’arteria centrale (suşmaņa) del corpo sottile attraverso la colonna vertebrale ridesta la Kuņđālinī lungo sei centri (cakra, “ruote” o padma, “loti”) di crescente potere psichico, sino all’estremo, sotto la nuca, il “loto dei mille petali” (Sahasrāra), ov’essa s’immerge nel Puruşa, il Supremo mascolino, emancipando l’adepto. Raccontiamo ora dallo Harivamşa il mito splendido di Kŗşņa e Kālya, un rettile demoniaco che infestava lo Yamunā. Qui giunse un giorno il giovane eroe vagando colla sua banda, i fanciulli bevvero l’acqua avvelenata e caddero morti. Kŗşņa li resuscitò “con uno sguardo che pioveva ambrosia” e si gettò nel fiume per uccidere il serpente. Kālya lo avvolse nelle sue spire e lo morse nei punti vitali. Gli amici, gli uomini e le donne del villaggio, avvertiti da portenti, tutti gli animali domestici e della foresta temevano per la sua vita.

I cuori delle mogli dei bovari erano appassionatamente devoti al Signore infinito, e ricordavano la sua amicizia, i suoi sorrisi, gli sguardi e le parole; e quando il loro beneamato fu inghiottito dal serpente, arsero di dolore e per loro fu vuoto il triplo universo, perché era vuoto del loro caro.

Ma Kŗşņa cominciò a crescere e ad espandersi e ruppe le spire del rettile.  

Sollevò adirato i cappucci e stette spirando veleno dalle nari sibilanti; fissava Hari [Kŗşņa-Vişņu] cogli occhi che non palpebrano, grandi come crogioli, e si lambiva gli angoli della bocca colla lingua biforcuta. Il suo sguardo era pieno del fuoco di un tremendo veleno. Giocosamente, Kŗşņa nuotava in cerchio attorno a lui, come Garuđa, il signore degli uccelli, e anche Kālya si moveva attorno, cercando un varco. Quando le forze del drago si esaurirono, il Primo si piegò sotto le spalle alzate del serpente e montò sulle ampie teste di lui. E allora il Maestro d’ogni arte musica, con i piedi di loto arrossati dal contatto colla moltitudine di gioielli sulle teste del serpente, si mise a danzare.

Kālya, colle membra spezzate, vomitando sangue, stava per soccombere, ma le sue mogli supplicarono il dio di risparmiarlo, e Kŗşņa acconsentí. Ripresosi, cosí addolorato gli disse:

Noi siamo malvagi dalla nascita, creature dell’oscurità la cui rabbia sempre dura. Signore, è difficile abbandonare la propria natura, perché ci possiede come un demone cattivo. Creatore, l’intero universo è stato creato da te nei tre costituenti della materia, con la sua varietà di nature, i poteri, le forze, le fonti, i semi, le speranze e le forme. Ed anche noi siamo in esso, i serpenti, la cui ferocia sin dalla nascita è vasta. Come possiamo noi, creature illuse, abbandonare la tua illusione, di cui cosí difficile è l’abbandono? Tu sei la causa di questo, Onnisciente, Signore dell’universo; ordina per noi grazia o punizione, come meglio tu credi.

 Il dio lo congedò e lo collocò nell’Oceano colla sua famiglia, e le fluenti dello Yamunā, da allora, scorrono acqua dolce come l’ambrosia

 

 Kŗşņa danza su Kālya. Bronzo del X/XI sec. d. C.

MISERRIMUS