TRAGEDIA EPOCALE

Sospendiamo, per questa settimana, l'aggiornamento usuale della nostra rivista elettronica: la tragedia epocale che si è abbattuta sulle terre bagnate dall'Oceano Indiano ci ha lasciato attoniti e senza parole.

Non si tratta, semplicemente, della valutazione di quanto piccole siano le nostre questioni di tutti i giorni, rispetto all'immensità della dimensione planetaria (esiste, a smentirci, un relativismo cosmico che non è possibile ignorare): è il caso, invece, di avere rispetto per quanti hanno perso tutto.

Una tragedia esaltata dai mezzi di comunicazione di massa che hanno drammatizzato la situazione di qualche decina di migliaia di turisti occidentali, ma che hanno sorvolato sugli ignoti pescatori della Tanzania o della Somalia travolti dalle onde o dagli abitanti di isole segnate come un puntino sulla carta geografica, che magari oggi non esistono più.

Non vogliamo partecipare alla gara delle statistiche di morte, convinti, come siamo, che alla fine ci si assuefi davanti a quei numeri e che non si riesca più a capire che dietro alle cifre stanno persone, affetti, vite.

La Terra ha lanciato un grido: lo ha lanciato dalle sue profondità, dalle sue viscere per ricordarci la “finitudine” delle nostre esistenze.

L'asse terrestre – ha scritto Mariuccia Ciotta sul Manifesto – si è messo ad oscillare e il pianeta in mezzo all'universo, ha battuto i rintocchi di una immensa campana.

Allora, parafrasando malamente Hemingway, per chi suona questa campana?

Suona per tutti, non  lascia nessuno sordo ai suoi rintocchi perché ridefinisce, restringe, la realtà umana, rimette assieme presunti ricchi e presunti poveri, fa un fascio di tutte le teorie di “chiusura della storia”: ci dice, banalmente, che il libro della storia è sempre aperto.

Non c'è scontro di civiltà in questo dramma collettivo, tutto si cancella,

si assimila, si compatta: è la fine dell'umanità che incombe.

Allora, segue un interrogativo quasi logico e che molti considereranno banale: se questa, che il terremoto scatenatosi nel profondo del mare, è una “morte naturale”, che valore ha quella “morte innaturale” che in tanti luoghi della terra, dall'Irak al Darfour, dalla Sierra Leone alla Liberia e, via, via sempre più vicino a noi, culla del pensiero egemone dell'Occidente ( l'Irlanda, Euzkadi, Cecenia, ecc,ecc,) l'uomo scatena sul suo simile.

“Morte Naturale” e “Morte Innaturale”: due concetti diversi, che non possono stare assieme.

L'uno può eliminare l'altro, renderlo ridicolo: questa è la lezione che ci proviene da questa che abbiamo definito “tragedia epocale”.

Non è , però, nemmeno giusto definirla questa tragedia: si tratta di una convenzione che deriva dalla nostra presunzione di catalogare tutto, scrutare, dare la nostra opinione a qualunque costo.

Non vogliamo farlo, non vogliamo cedere alla tentazione: scriviamo soltanto queste poche righe per esprimere la nostra solitudine di fronte alla “morte naturale”, scusandoci con i nostri lettori per aver fatto mancare le nostre osservazioni sulle vicende più vicine a noi.

Il tutto, questo nostro silenzio innaturale, durerà pochi giorni, state tranquilli: poi la nostra volontà di veicolare comunicazione riprenderà il sopravvento e torneremo alla normalità.

Importante sarà, in ogni caso, fermarci a pensare qualche volta: pensare alla profondità dell'Oceano, senza timore, ma con rispetto.

Il rispetto che si deve alla “morte naturale”, suprema regolatrice di tutto il dipanarsi della matassa umana (gli antichi Greci immaginavano così la vita, un filo tessuto che, alla fine le Parche spezzavano, ed era la morte).

Il Direttore e la Redazione