TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni

Aristotele? Era veramente un grande filosofo...

          

Ecco due opere di Hans Baldung Grien intitolate entrambe Fillide e Aristotele, la prima, a penna e inchiostro nero, del 1503, al Louvre, la seconda una silografia del 1513. Il tema è tratto dal ben noto Lai d’Aristote del poeta normanno ducentesco Henri d’Andeli. Ordunque, avendo Aristotele imposto al suo discepolo Alessandro di lasciare Fillide, che troppo lo assorbiva impedendogli di prepararsi al “grande ufficio e pio”, i due studiarono una trappola per zittire il parruccone: un mattino la ragazza entrò di soppiatto nel giardino di fronte alla stanza ove il “maestro di color che sanno” stava già studiando e si mise a cantare e a ballare; era a piedi nudi, colla cintola slacciata e i capelli sciolti. Aristotele s’accostò alla finestra, la vide e disse: “Oh Dio!”, e certo intendeva Cupido. Fillide s’accostò al davanzale ed egli la ghermì, confessandole il suo ardente desiderio; lei promise che lo avrebbe soddisfatto, se prima però la contentava in un piccolo capriccio: fingere d’esser un cavallo, farsi sellare e portarla in groppa in giro per il giardino. Detto fatto, mentre il Filosofo, nudo ovviamente tal qual un cavallo, trotta sull’erba a quattro zampe colla fanciulla sulla schiena, “tradendo la grammatica e confondendo la logica”, come nota l’anonimo commentatore del Livre de Leesce del 1373, lei intona una canzoncina: 

Mastro Sciocco mi trasporta

l’amor guida ed egli avanza

da poter d’Amor condotto, 

che altro non è se non il segnale concordato fra i due giovani: ed ecco presentarsi Alessandro che, fingendosi stupefatto dell’insolito spettacolo offerto dall’aio, esclama: “Maestro, ma è possibile?”, ed Aristotele, cui per lo meno non fà difetto l’abilità argomentativa, sùbito gl’improvvisa una lezione per dimostrargli che, se su di un vecchio Eros ha ancora tutto quel potere, a maggior ragione i giovani come lui dovrebbero andar cautissimi nell’accostarlo. Alessandro, divertito del sofisma, dimentica il comportamento poco ortodosso del precettore e con ogni probabilità si riunisce a Fillide, senza che chi ha completamente perso la sua credibilità possa rimproveragli più nulla. Non ci sono fonti antiche dirette, ma non si potrà non citare la Lettera di Taide ad Eutidemo (Alciphr. IV 7)

“Da quando hai avuto l’idea di dedicarti alla filosofia, sei diventato quasi un santo e tieni le sopracciglia alzate sin sopra le tempie. Poi dandoti un contegno e con un libriccino in mano incedi verso l’Accademia, e passi davanti a casa mia come se non l’avessi mai vista prima. Sei diventato matto Eutidemo, non sai dunque chi è in realtà quel saggio dall’aria così arcigna che vi espone tutti quei discorsi elevati, ma quanto tempo credi che sia da quando mi dà il tormento perché vuole uscire con me? Tra l’altro, si fa consumare il patrimonio da Erpillide, la sua favorita di Megara”

 

ove non deve sfuggire che Erpillide era il nome della concubina storica di Aristotele.

Il testo di Henri d’Andeli divenne ben presto famosissimo, destando l’allarme di Santa Sessuofoba Romana Chiesa, che non poté certo trascurare l’impegno d’emendarlo, in questo caso tramite il buon vescovo Jacques de Vitry († 1240), forse cresciuto al cardinalato per codesta benemerenza, il quale lo riscrisse in una versione tetra e ortodossa ove Fillide diventa la moglie d’Alessandro (nihil nisi ex matrimonio, mi raccomando) e la morale quella millenaria degl’inganni diabolici delle femmine (m’ero infatti dimenticato di aggiungere a Santa Sessuofoba anche Misogina Romana Chiesa). Così l’incantevole leçon de vie, l’unica filosofia che si dovrebbe veramente insegnare, diventa un greve memento mori che la tradizione cristiana, da Tertulliano a Francesco di Sales a don Alfonso Maria de’ Liguori a padre Lombardi, il “microfono di dio”, sino a Escrivá de Balaguer e a Don Giuss, come lo chiamavano i suoi entusiasti discepoli ciellini, ci ha indefessamente ammannito per secoli, con costanza in tutto degna di miglior causa, perché si secundum hominem ad bestias pugnavi Ephesi, quid mihi prodest si mortui non resurgunt? manducemus et bibamus: cras enim moriemur (“Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”: I Cor. 15, 32, trad. CEI).

MISERRIMUS