IL TRENO E IL TEOREMA

Dramma in due atti di Gloria Bardi

con musiche di Roberto Grossi 

“Il teorema è spiegazione –dice il professor Marenghi, personaggio del dramma- una battaglia vinta contro il caos”: questa l’aspirazione della matematica in particolare, e comunque della scienza in genere. Ma come si concilia questa prospettiva salvifica (battaglia vinta contro il caos) se mentre vengono elaborati i teoremi passano i treni della deportazione?

“E il treno che ci ha portati a Auschwitz che parte ha in questa storia?”- ribatte infatti Dora Levi, scrittrice ed ex-deportata: la protagonista.

Ma non si tratta solo di contemporaneità tra il treno e il teorema, il caos e la razionalizzazione: lo stesso teorema viene assorbito nella follia del male e dell’ ingiustizia, nel momento in cui viene sottratto al suo vero autore, il professor Levi, padre di Dora, a causa delle leggi razziali e dell’opportunismo dei collaboratori.

Non esistono teoremi in grado di dare soluzione alla storia degli uomini, in cui restano, anzi, essi stessi invischiati.

Il confronto non è solo con la matematica, la più astratta delle scienze, ma anche con la medicina, di Mengele e oltre Mengele: “del resto, da quello che leggo oggi, la medicina è dominio, la matematica è dominio, ogni sapere si trasforma in prevaricazione, ogni progresso ha dietro un olocausto, o perché lo provoca, o perché lo ignora. Lei ha presente l’Africa dell’AIDS?”- questo sempre Dora Levi, lei stessa laureata in medicina.

Nell’impianto drammatico tutto conduce alla prima scena del secondo atto, da cui le precedenti battute sono tratte, luogo della rivelazione e cuore del dramma: vi si consuma un’agnizione preparata da tempo, una drammatica resa dei conti tra persone e non solo: tra la scienza e gli uomini che la praticano, tra la storia e gli uomini che la fanno, nei ruoli, interscambiabili, di vittime e carnefici, col loro carosello di meschinità.

Il dramma è fatto per creare lo spazio della domanda, al di là delle varie, più o meno provvisorie risposte: non vi è nulla che sia bene in assoluto: “Ma mi domando anche se noi ebrei abbiamo salvaguardato la memoria degli altri. E la terra promessa? Una battaglia vinta contro il caos? E i campi profughi palestinesi? E il muro di Sharon?”.

Nemmeno la memoria stessa è bene in assoluto, quando, ad esempio, si riversa come un destino ingombrante sulla vita dei discendenti: in questo caso la figlia della scrittrice, che tenta invano di sottrarvisi, o la nipote che invece vi si dedica, rinunciando tuttavia a una propria vita. 

Attorno a questa scena e ai  fondamentali protagonisti del dramma, ne gravitano tanti altri, che vanno e vengono nell’hotel ove si svolge l’evento, ciascuno con un proprio scopo, una propria preoccupazione, una propria vanità. Come formiche schizofreniche, tese a costruirsi un futuro più o meno appagante, pronto a cadere in mille pezzi al primo disinganno. Accompagnati dagli stacchi musicali, alternativamente ritmici, evocativi, talora ironici, di Roberto Grossi, eseguiti dal gruppo “Subbuglio!”,  rappresentano, col loro entrare-girovagare-uscire o con la loro sospensione in fermo-immagine, la cornice mobile ed evanescente di un tempo –quello della scrittrice- fermo a oltre settant’anni fa e che qui, bene o male, verrà infine sbloccato, dietro spinta della compassione, nel segno della comune vecchiaia che lega la figlia del professor Levi a colui che non si è fatto scrupoli, un tempo, a prenderne il posto. In ogni caso la nipote-assistente, che in famiglia chiamano ironicamente “la sacerdotessa della memoria”, si farà erede di questa liberazione e della tardiva voglia di vivere. Che sia   quella della vita la vera battaglia vinta contro il caos?

Quanto al treno, che accompagna col suo rumore cadenzato l’intero dramma, esso evoca cose diverse per ciascun personaggio, si lega a vissuti antitetici, dalla deportazione di Dora Levi, alle fughe d’amore a Portici della giovane moglie del professore, ai tempi dell’università del professore stesso, all’Orient Express dei gialli di Agata Christie per la scrittrice dell’ultima scena.

 Personaggio speculare, quest’ultima, rispetto a Dora Levi, così come lo è la scena finale rispetto a quella di apertura- espressione di una letteratura votata al mercato, all’intrattenimento, alla voglia di evasione e di facili ricette per la felicità di un mondo che non ama essere messo in crisi ma che non sfugge totalmente al sentimento della propria confusione mentale e della propria inadeguatezza al contesto, riflesso in quella frase conclusiva, che chiude interrogativamente un brillante e acrobatico vaniloquio, e la cui asserzione finale era stata provocatoriamente scelta, in una prima ipotesi, quale titolo del dramma: “Ha presente, Agata Christie, direttore? Già, ma qui Agata Christie non c’entra.”

Gloria Bardi