La gatta rossa
Nel mondo fantastico di Else Lasker-Schüler, in cui abitano l’arte, l’infanzia e il divino, c’è una gatta rossa.
Zia Jettchen!... a casa dei miei nonni chiamavano tutti così la gatta rossa, persino il serio signor nonno soleva chiamare la brava bestiola: zia Jettchen! Dopotutto l'inteneriva l'affetto che mostrava per il suo perdigiorno [Arthur, suo figlio, il padre della scrittrice] Tutti e ventitré i fratelli chiamavano la gatta rossa: Zia Jettchen! Le serve di casa, i servitori del vasto podere, le donne che mungevano nella stalla, le mucche, i buoi pezzati, l'asino, i pavoni in giardino, il paffuto angiolo spoglio della zampillante fontana, gli agnelli al pascolo e il loro pastore, ma anche il cane volpino di cui zia Jettchen aveva gran considerazione. L'intera scolaresca s'informava della salute di zia Jettchen, ma era benvoluta da tutta la popolazione del paesello. Ella tuttavia dal canto suo sfoggiava un tale savoir-faire, una tale distinzione di fattezze e maniere! (Else Lasker-Schüler, La gatta rossa, trad. it. di Marina D’Attanasio)
Else era nata ad Elberfeld, nel Wupppertal, il 1869, da una ricca famiglia ebraica assimilata, ma dopo il fallimento del primo matrimonio si affrancò da ogni convenzione e scelse di condurre una vita da bhoémienne, in giro per l’Europa senza fissa dimora, dormendo persino sulle panchine delle stazioni. Studiò pittura presso l’atélier di Simon Goldberg a Berlino, poi entrò nel circolo letterario di Peter Hille e pubblicò il suo primo libro di poesie, Stryx, che sorprese per la strana bellezza del suo mondo immaginale. Ben presto intrecciò una relazione con Herwarth Walden, l’editore della più celebre rivista espressionistica dell’epoca, “Der Sturm”, e grazie a lui conobbe molti personaggi di primo piano dell’avanguardia europea. Nel 1912 si legò a Gottfried Benn. Fu amica di Max Reinhardt, Franz Marc, Kokoschka, Chagall, Karl Kraus... Il suo dramma Die Wupper, messo in scena all’inizio degli anni Venti da Max Reinhardt, resta uno dei testi più rappresentativi di quel periodo culturalmente straordinario. Quando i nazisti, che tra l’altro la bollarono come “ebrea pornografica”, presero il potere, si rifugiò dapprima in Isvizzera e poi nel 1939 in Palestina. Qui nel 1943 pubblicò la sua ultima raccolta poetica, Mein blaues Klavier, e la sua ultima pièce teatrale, Ich und Ich. Morì a Gerusalemme nel 1945.
Ci vollero cinquant’anni perché ottenesse il giusto spazio “dans le firmament de cette culture de Weimar dont elle fut l’une des plus étranges étoiles”, come dice Jean-Michel Palmier, e volentieri si vorrebbe aggiungere: non soltanto strane, ma anche luminose.
Ecco un suo disegno, un autoritratto.
Ed ecco una sua poesia, tradotta per l’occasione da chi scrive.
Eros
O, ich liebte ihn endlos!
Lag vor seinen Knie’n
Und klagte Eros
Meine Sehnsucht.
O, ich liebte ihn fassungslos.
Wie eine Sommernacht
Sank mein Kopf
Blutschwarz auf seinen Schoss
Und meine Arme umloderten ihn.
Nie schürte sich so mein Blut zu Bränden,
Gab mein Leben hin seine Händen,
Und er hob mich aus schwerem Dämmerweh.
Und alle Sonnen sangen Feuerlieder
Und meine Glieder
Glichen
Irrgewordenen Lilien.
O io senza fine l’amai!
Giacqui alle sue ginocchia
e mi querelai con Eros
della mia passione.
O io senza freno l’amai!
Pari a una notte estiva
la mia testa gli affondò
sangue nero nel grembo
le mie braccia intorno gli vamparono.
Mai arse così il mio sangue in un incendio,
affidai la vita alle sue mani
ed egli mi levò da dura pena vespertina.
E tutti i soli sonarono canti di fuoco
e le mie membra
parvero
gigli impazziti.
Forse la sua gatta rossa era come questa, chissà.
MISERRIMUS