Partito democratico? C.L.N.
Con insistenza si parla di dar vita, alberi, fiori e cespugli, ad un partito unico
Le grandi “unità” sono sempre necessitate dalle contingenze gravissime.
La situazione contemporanea, mondiale, europea ed italiana è davvero un’emergenza?
 

di Sergio Giuliani

Con insistenza si parla di dar vita, alberi, fiori e cespugli, ad un partito unico in cui la proporzione fra “centro” e “sinistra”, tra “fedeli” e “laici” sarebbe tutta da decidere in equilibrio dinamico, sentita la volontà degli elettori. Eugenio Scalfari su “La Repubblica” plaude all’impresa anche perché indurrebbe analogo processo nel centrodestra e si arriverebbe ad un moderno bipartitismo (non quella finzione scenica in programma adesso!) come in tutte le democrazie degne di questo nome.

Parrebbe facile; persino ovvio. E non lo è per nulla! Per una serie di motivi che cercheremo di chiarire.

Le grandi “unità” sono sempre necessitate dalle contingenze gravissime. Nacque il Comitato di Liberazione nazionale perché la lotta armata contro il fascismo e gli occupanti tedeschi era cogente e primaria. Tutto funzionò, nell’accordo fra i sei partiti, finchè ci fu lotta armata. Finita la guerra, il governo Parri si trascinò per qualche mese, reso impotente dai contrasti subito risorti.

Si legga quel bellissimo ed ultradimenticato libro che è L’ orologio di Carlo Levi (troppo noto soltanto per “Cristo si è fermato ad Eboli”) e si capirà cosa accadde quando ideologie (e,purtroppo, opportunismi) risorsero e dimostrarono che quella unità, venute a mancare le circostanze crude e particolarissime, non esisteva e, forse, era davvero poco esistita.

La situazione contemporanea, mondiale, europea ed italiana è davvero un’emergenza?

Proviamo ad elencare problemi urlanti: petrolio e metano, crisi mediorientale affrontata a suon di bombe, mercato cinese ,riduzione dell’industria e dilatarsi della finanza, posti di lavoro ridotti al lumicino, dovunque, con conseguenti disservizi nella sanità, nei trasporti ma non soltanto, crisi delle culture d’impresa e di ricerca, non promosse da una scuola come non mai appiattita, tanto che ha perduto anche il vizio di contestarsi, inquinamento. E mi fermo qui, ai fatti e misfatti di una globalizzazione di cui non ci siamo neppure accorti quando c’è entrata in casa e non parlo di guerre e di fami che non vanno in prima pagina e che deleghiamo ipocritamente ai missionari, ad Emergency e a Médecins sans frontières.

Non chiedo come se ne esca, ma se abbiamo ben capito quest’amalgama distruttivo.

Aggiungiamo l’aumento vertiginoso dei pensionati e i risicatissimi margini di compenso dei giovani che s’avviano al lavoro e, detonatore, il raffronto tra i giri di valzer di miliardi in stranieri conti e i cento (diconsi 100) euro guadagnati con lotte durissime, spesso neppure capite, dai metalmeccanici, con la minaccia, ben più che minaccia, di uscire dalla strategia contrattuale per riportare in auge le gabbie salariali di famigerata memoria, per cui azienda che fa profitti paga e azienda in acque stagnanti no.

Bisogna decidersi, e con sapiente coraggio, a “sinistra”. Quelli che ho elencati sono peccati veniali a cui si può ovviare con bella dottrina politica, frutto d’un capitalismo avariato dietro al quale spunta di già un dente nuovo d’una qualche lettura marxiana (non è che non vi creda: forse non sarebbe tempo sprecato riprendere in mano i “Grundrisse”: ma sapendo bene che non ci sono santoni per nessuno e che la situazione economico-politica ha fatto passi (molti indietro; altri no) da gigante e nulla è più come prima.

Pasolini le chiamava “Le belle bandiere”, da sventolare con legittimo orgoglio.

Non basta, però, più urlare fedeltà; bisogna riconoscere, studiare,progettare.

Bisogna prender occasione dai terremoti di questi giorni non per scappare ancora una volta nella retorica di frontiera ,ma per lavorare a un modello, anch’esso globale,d’intervento a tutto campo. Non possiamo, come diceva Gramsci (e come ha dimostrato, con la sua cultura d’allora, Marx) ignorare le ragioni che non condividiamo e rinnegarle con sufficienza, con sfottò, cercando una cittadella della ideologica purezza.

L’ideologia va bene, ma verificata, con pazienza, di volta in volta, sui rapporti economico-sociali contemporanei. Nessuna attesa, disperata o fiduciosa, è più possibile. Non ci sono più spazi per i rimandi. Bisogna render agile la nostra mente, conoscere per criticare e criticare per conoscere. Forse è anche tempo di staccarci dagli scogli e di navigare a rischio di marosi. Non aspettiamo “messaggi dell’imperatore”: rischiamocela, una volta per tutte,quest’ideologia, più valida quanto meno del mondo in cui si muove evita e scarta, più piena di futuro quanto più ne conosce. E ci sono parecchi modi di dimostrare fedeltà non cocciute ad un’ideologia!

  Sergio Giuliani