Pubblicità o progresso

Siamo convinti  che la presenza dei messaggi commerciali in così grande misura sia indice eloquente di un asservimento pericoloso della politica (che in questo caso, come vedremo, è, o dovrebbe essere, uno strumento a favore del benessere delle persone) all’economia, quella dalla “e” minuscola, che non rispetta alcun vincolo morale.

di GIULIO MAGNO

 

Scorrendo i canali della padrona di casa (vale a dire della televisione), o come si dice in gergo facendo zapping, si rimane sopraffatti dall’esorbitante numero di intermezzi pubblicitari che interrompono la poco convinta ginnastica dell’ultimo neurone rimasto attivo alla fine della giornata lavorativa: si ha la distinta percezione che i vari programmi non siano altro, in realtà, che un riempitivo qualsiasi tra uno spazio commerciale ed il successivo.

Spesso, nella memoria, rimane più nitidamente impresso il completo da spiaggia della testimonial di turno col telefonino in mano, che la battuta decisiva del film che stavamo seguendo, ed è a questo punto che sembra lecito domandarsi: ma perché ho acquistato un televisore? Tanto valeva sedersi all’interno di un centro commerciale…

In questo periodo dell’anno, poi, la pressione degli spots diventa quasi insopportabile, al punto che si rischia di ingaggiare prima del tempo la solita lotta psicologica con la propria bilancia per avere assimilato troppe calorie, assunte per “via oculare”.

Cosa c’entra con la biopolitica, direte voi, la presenza della pubblicità nei programmi che entrano nelle nostre case?

Ebbene, siamo convinti invece che la presenza dei messaggi commerciali in così grande misura sia indice eloquente di un asservimento pericoloso della politica (che in questo caso, come vedremo, è, o dovrebbe essere, uno strumento a favore del benessere delle persone) all’economia, quella dalla “e” minuscola, che non rispetta alcun vincolo morale.

Parliamo di asservimento perché i mezzi a disposizione della politica per limitare l’invadenza della pubblicità ci sono, ma non vengono utilizzati.

Senza dubbio il mezzo televisivo ci ha fornito informazioni, immagini, emozioni, che nel corso degli anni hanno permesso la stratificazione di una identità nazionale altrimenti più lenta a maturare, senza parlare poi del beneficio offerto alla diffusione della nostra lingua, della sua penetrazione nella cultura popolare. Una bella invenzione, non c’è che dire.

Non è questa la sede per parlare dell’altro lato della medaglia, e cioè del dominio della politica sulla televisione, (lottizzazioni, programmi sottoposti al vaglio politico preventivo dei direttori di questa o di quella emittente) perché è stato ed è tuttora un dominio per la politica.

Il problema che vogliamo portare alla luce è di altra natura, e riguarda la mancata tutela delle nostre famiglie, in particolare della parte più debole della società, cioè i bambini.

E’ innegabile che la televisione abbia svolto in ogni ambito domestico una qualche funzione surrogatoria della presenza dei genitori, e questo accade forse più adesso di quanto non fosse in passato; questa funzione è perfettamente conosciuta da coloro che producono gli spots, e fin qui non ci sarebbe nulla di male, è il loro lavoro. Ma queste informazioni sono disponibili anche per coloro che debbono decidere se permettere ad una emittente di interrompere un programma per bambini tre, quattro o cinque volte con messaggi che sono a dir poco diseducativi.

Malcostumi alimentari (sembra che i nostri piccoli debbano vivere ingurgitando quantità impressionanti di zuccheri), proposizioni di modelli comportamentali stereotipati, a volte marcatamente discriminatori (se non hai le scarpe x sei “out”, oppure “e tu, ce l’hai?”) e quel che è peggio, anteprime di pellicole che verranno trasmesse nei giorni a venire, infarcite di immagini cruente, senza alcun filtro per i minori: uno studio di ricercatori (ma non occorre ricercare tanto, basta fare due conti) aveva sottolineato come un adolescente tipo, di quelli che passano alcune ore davanti alla televisione, avrebbe visto, nella sua infanzia, qualcosa come un migliaio di omicidi (finti, ovviamente, ma vallo a spiegare ad un bimbo di tre-quattro anni che sta guardando i cartoni animati o un programma qualsiasi nel pomeriggio).

Negli spots gli attori sono sempre molto benestanti, belli e giovani, vanno a lavorare anche con l’influenza, e non si pensa che forse qualche bambino potrà sentirsi frustrato, da adulto, se non riuscirà ad avvicinarsi  a quei modelli.

Il fatto è che i bambini stanno diventando consumatori precoci, perché così vuole il mercato, e la scelta tutta politica di lasciar fare al mondo imprenditoriale, è una rinuncia semplicemente inaccettabile. 

Il buonsenso suggerisce che certe esagerazioni andrebbero ridimensionate, e che sarebbe ora che il commercio venisse dotato[1] di un codice cogente di comportamento nel commissionare certi messaggi, con sanzioni effettive inflitte dalle previste authorities.

Inoltre, i programmi non dovrebbero essere interrotti con spots mirati al proprio target (ma perché poi parliamo sempre in inglese? Si dovrebbe dire “consumatore elettivo” o qualcosa del genere), soprattutto se questi è il minore.

Gli stessi minori, poi, non dovrebbero essere usati come attori nei vari messaggi, anche se molti genitori farebbero i salti di gioia se il loro figlioletto venisse reclutato per una tale attività. 

Domani è Natale, e per molti bambini il sogno di possedere un giocattolo o un capo di abbigliamento da tempo desiderato sta per avverarsi.

Per parte nostra, riuscire a tenere desta l’attenzione sui grandi e piccoli temi della vita quotidiana, affinché aumenti nei singoli, attraverso il confronto, la consapevolezza delle proprie scelte, sarebbe un bellissimo regalo. 

Auguri di Buon Natale e felice anno nuovo. 

Al prossimo anno


[1] E’ la politica che deve imporre, democraticamente, l’adozione di tale codice, non potendosi lasciare una materia così delicata nelle mani di chi ha tutto l’interesse a non regolamentarla

Giulio Magno