Etnocentrismo e dibattito sull’età globale di GIULIO MAGNO |
Uno degli aspetti caratterizzanti del dibattito in corso sulla biopolitica riguarda le conseguenze degli effetti dell’età globale sulla pulsione, del tutto peculiare alla specie umana, ad esplorare nuovi territori, conquistare nuovi spazi, in una parola ad estendere il proprio potere sulla natura.
La fine delle possibili scoperte geografiche avrebbe, secondo alcuni, semplicemente operato uno spostamento del campo di esplorazione umano dalla natura alla vita, che in virtù dell’enorme processo biotecnologico raggiunto, non costituirebbe più un campo riservato al divino e avrebbe in questo modo perso le caratteristiche di intangibilità proprie dei tabù.
Ma ciò che risulta più stimolante è che l’uomo, ormai padrone della tecnologia, non sia riuscito a porsi in condizione di rispettare dei limiti necessari, che pur razionalmente riconosce, ma che emozionalmente non ha metabolizzato.
Anders e Jonas sono gli autori che prima di altri hanno posto in luce questa modifica inquietante dell’orizzonte strategico dell’uomo nei confronti della vita.
La consapevolezza della possibilità concreta che gli arsenali atomici possano effettivamente distruggere ogni forma di vita sulla terra non si accompagnerebbe ad un reale sentire dell’umano relativamente a tale pericolo.
La minaccia posta dallo sviluppo incontrollato della tecnologia al genere umano ed alla vita in generale (vita come frutto di un mondo che non è più indistruttibile, nell’immaginario occidentale, come oggetto di minacce reali, più o meno globali) deve perciò, sempre secondo quell’approccio, costringere l’uomo a regolare diversamente il proprio agire, la propria ricerca scientifica, in modo da contenere i rischi di perdita di controllo su quella natura che si presume ormai conosciuta.
L’uomo è quindi onnipotente, almeno su questo pianeta e nelle sue immediate vicinanze, ed il recupero delle emozioni che restituiscano il senso del limite alla coscienza collettiva della nostra specie costituirebbe la soluzione.
La parola etnocentrismo, a questo punto, dovrebbe indurre nel lettore un forte interrogativo.
Molti autori che parlano di globalizzazione si limitano a invocarla nell’univoco senso di riduzione delle distanze geografiche, quale elemento coadiuvante della trasmissibilità di un terribile virus geneticamente modificato, o degli effetti di uno scontro termonucleare locale tra due paesi che possa estendersi ad altri territori e al mondo intero.
Ora, che agli abitanti di un remoto villaggio del Kashmir importi poco o nulla della possibilità concreta che uno scienziato possa creare l’arma definitiva, o che compia esperimenti di clonazione umana in barba ad ogni regola etica, crediamo possa sembrare ovvio ad ognuno.
Il punto è che questo tipo di visione catastrofista nei confronti della vita (della vita di tutti, anche di quelli che non saprebbero neanche come definire l’esistenza che conducono ogni giorno, magari scavando in una discarica per tirare su i sessanta centesimi necessari per non morire d’inedia) risulterebbe più accettabile e plausibile se provenisse dalla parte dell’umanità meno dotata di tecnologia, meno dotata di armi di distruzione di massa, e non da chi appartiene a quel mondo che quelle minacce produce per primo (e di mondi in effetti, ve ne sono diversi, con dimensioni diverse ed umanità diverse che li abitano).
In altre parole, della fame devono parlare gli affamati, di quanto l’uomo debba riorientare le proprie emozioni in modo da riavere il timore delle proprie azioni (ed eccessi) ne dovrebbero parlare i portatori di quelle emozioni. Se le priorità culturali, i valori del terzo mondo in espansione vertiginosa non coincidono con quelle dell’occidente “erudito”che giustamente (dal proprio baricentro culturale) si interroga sui limiti della tecnologia nei confronti della vita, forse sarebbe il caso di ripensare il termine “globalizzazione”.
Una immagine che potrebbe ironicamente descrivere la situazione è quella di un club esclusivo di ricchi che, scoprendo di sorseggiare un the geneticamente modificato, si preoccupasse della minaccia per il resto del mondo, ed iniziasse un dibattito.
La realtà, scusate la vena polemica, è che l’occidente ha visto la fine dei problemi elementari di sopravvivenza per la grande maggioranza della sua popolazione, durante lo scorso secolo. Adesso ha bisogno di ritrovare un senso per la propria esistenza, di ritrovarne il contatto, e non vi è niente di meglio della paura della morte, meglio se collettiva, per ritrovare il piacere di sentirsi vivi.
Nel mondo ci sono milioni di bambini che muoiono per fame, ma noi ci preoccupiamo per loro, perché la scienza potrebbe ritorcersi contro la vita di tutti.
Ci preoccupiamo di cose che gli otto decimi della popolazione mondiale ignorano, e che se anche conoscessero non considererebbero così importanti; senza considerare che di fronte al biopotere dell’economia (quella sì globalizzata), anche chi ha sviluppato un sentire più consapevole non può fare nulla.
Per la nostra cultura anche il senso della morte è diverso da quello sentito dai dannati del mondo, ed è per questo che è lecito domandarsi se sia corretto chiamare umanità un tale coacervo di visioni della vita così diverse tra loro.
Noi intanto ci chiudiamo in casa perché sta arrivando l’influenza aviaria, e non compriamo più il pollo, per paura di morire, mentre altrove, nel mondo globalizzato, chiunque farebbe i salti (mortali?) per poter anche solo assaggiare un pollo…
Alla prossima settimana
Giulio Magno