La biopolitica razzista e le leggi del mercato di GIULIO MAGNO |
Prima di spiegare meglio l’accostamento offerto dal titolo di questa settimana, occorre puntualizzare cosa si intenda per biopolitica razzista.
Un esempio illuminante può essere fornito dall’analisi della politica razziale del Terzo Reich.
Nell’ideologia nazista, influenzata fortemente dal Darwinismo (concezione della vita intesa come lotta per la sopravvivenza, a beneficio del più forte), affermatosi proprio all’inizio del secolo XIX, si fece strada una impostazione scientifica che possiamo definire estrema, votata all’eugenetica, cioè al miglioramento della specie tramite la valorizzazione dei geni desiderabili.
A partire dall’estate del 1933, sei mesi dopo l’insediamento di Adolf Hitler al potere come Cancelliere della Repubblica di Weimar (nata dalle ceneri dell’impero, caduto sotto il peso della sconfitta nel 1918), il regime varò i primi provvedimenti legislativi a tutela della razza.
Il primo di questi fu la sterilizzazione delle donne malate di mente, o sposate con uomini portatori di malattie mentali ereditarie, che erano per legge sottoposte ad un procedimento a metà strada tra il giuridico ed il sanitario (componenti del Tribunale di Sanità erano infatti due medici ed un giudice), al termine del quale venivano obbligate a perdere la loro fertilità.
Quanto sopra era stato concepito al fine di preservare il patrimonio genetico della razza germanica dall’inquinamento di geni “devianti”.
Il secondo passo fu quello di introdurre l’eutanasia per i bimbi affetti da gravissime malformazioni fisiche e mentali, subito estesa agli adulti con i medesimi problemi (purtroppo anche essere oppositori del regime nazista era considerato un sintomo evidente di malattia mentale); quando poi la guerra esplose violentemente, la grande massa di prigionieri slavi e deportati ebrei provenienti dai territori conquistati, pose un enorme problema agli amministratori dei campi di sterminio.
L’annientamento fisico, però, fu solo l’ultima delle opzioni che i nazisti adottarono nei confronti dei loro schiavi: il lavoro, un lavoro svolto nelle condizioni più umilianti e terribili, diventò il comune denominatore per sterminate masse di lavoratori, spontaneamente obbligati ad accettare paghe ridotte sino a risultare la quinta parte di quelle accordate ai colleghi tedeschi, o peggio, lavoro che costituiva nei fatti una condanna ad una morte diversa e più lenta di quella somministrata con i gas.
Molti prigionieri italiani, francesi, greci ed altri ancora, non essendo, per loro fortuna, di etnia slava od ebrea, furono costretti a lavorare per l’economia tedesca, per pochi marchi, e spesso con una paga che risultava essere una frazione minima di quella prevista per i lavoratori tedeschi.
I gruppi industriali germanici, che avevano finanziato la crescita del partito nazista, beneficiarono a piene mani di quella mano d’opera a prezzo stracciato, persino di quella offerta dai deportati dei lager, che essi “assunsero” senza indugio.
Quanto detto finora forse sembrerà lontano dal tema delle leggi di mercato evocato dal titolo, ma in realtà non è affatto così. La lettura biopolitica della società nella quale viviamo ci pone infatti di fronte ad una metafora neanche troppo oscura: il mondo economico occidentale (e con esso quello politico, al primo totalmente asservito) ha deciso che gli esseri umani provenienti dal Sud del pianeta, in cerca di una vita migliore, possano restare in questa parte di mondo solo se e fino a quando potranno dimostrare di essere produttivi.
Questa qualità è il vero ed unico lasciapassare, il gene desiderabile di quelle persone, in mancanza del quale si viene selezionati negativamente, rispediti al mittente, nell’oblio mediatico occidentale.
La presenza in Italia, per esempio, di un immigrato, è concessa infatti solo se questi possegga un contratto di lavoro, alla fine del quale costui ritornerà un numero, perché ciò che interessa al nostro mondo è solo che possa fornire forza lavoro, non altro. Della sua vita, del fatto poi che la perda in un tratto di mare, perché il suo paese è lacerato dalla fame, al nostro mondo non importa affatto.
Un ulteriore prodotto delle “leggi” del mercato riguarda proprio noi, che (per seguire la metafora saremmo i lavoratori fuori dai “campi”, i “tedeschi”), in ossequio ai loro dettati, dobbiamo competere con i lavoratori immigrati, subire precarietà, salari più bassi, lavoro straordinario non retribuito, lavoro nero..
Cos’è questa, se non una impostazione razzista? Come possiamo definire una visione del mondo che consideri la vita di un essere umano degna di attenzione solo in quanto produca qualcosa, solo in quanto apporti ricchezza (al costo più basso possibile, sia inteso)?
Certo, i potentati economici occidentali non sono nazisti, non mettono la gente nei lager a lavorare per loro…però consideriamo una cosa (prendetela come una provocazione): se, domani, per una crisi economica incontrollabile fossimo noi a trovarci all’estero, in cerca di una vita migliore, come giudicheremmo una politica che prendesse in considerazione l’eventualità delle nostre esistenze solo per la durata del contratto di lavoro (non garantito, è ovvio)?
E quel domani è poi così improbabile?
Giulio Magno