LA BIOPOLITICA: UN NUOVO PUNTO DI VISTA di GIULIO MAGNO |
Si apre, con questo primo contributo una nuova rubrica, a cura del dott. Giulio Magno, col quale ho avuto modo di condividere alcuni percorsi di studio e dalla cui competenza e serietà sono certa che Trucioli potrà esserne arricchita. Benvenuto, Giulio. (Gloria)
La creazione di questa rubrica vuole costituire principalmente un’occasione di discussione, uno spazio dedicato ad un modo di vedere ed intendere l’agire politico, che non trascuri di considerare le conseguenze delle proprie scelte sulle vite di chi è destinato a farle proprie.
Chiariremo subito che per raggiungere tali scopi, così ambiziosi, dovremo innanzitutto evitare di delimitare l’ambito del confronto al significato più circoscritto del termine “biopolitica”: vale a dire la politica del Bios, della vita nella forma considerata più evoluta, e quindi principalmente umana.
In altre parole, per noi la biopolitica non è limitata all’analisi dell’azione politica votata alla tutela della vita umana in quanto tale, ma deve estendersi necessariamente all’intera società, nella sua accezione più ampia, comprendendo quindi concetti quali l’ambiente, il benessere sociale, le relazioni tra specie diverse (con particolare riferimento alla sperimentazione ed alla zootecnia intensiva). Se la biopolitica fosse solo il frutto di una visione del mondo ristretta alla tutela della vita in quanto tale, e per indicare alcuni temi, quindi, coerentemente, alla tutela del feto, al divieto/regolamentazione della sperimentazione sugli embrioni, a regole più o meno certe per la sperimentazione clinica sugli umani o all’eutanasia, il malessere derivante da una mancata politica di integrazione degli immigrati, per esempio, con i suoi estremi di emarginazione, delinquenza minorile e quant’altro, rimarrebbe iscritto nel novero degli effetti collaterali di un sistema politico che non riesce a dotarsi di un respiro più ampio.
Il termine vita, perciò, in questa sede, dovrà essere dilatato, inteso come l’insieme degli aspetti che condizionano l’esistenza umana, in relazione con le strutture sociali che la colorano di significato, includendo perciò la politica economica, e più in particolare gli effetti che sulla vita delle persone producono determinate scelte politiche in materia economica, la politica sociale, vale a dire la legislazione sull’accoglienza, sull’integrazione o la limitazione posta a tali processi o la tutela delle minoranze, ed infine la politica estera, con le sue scelte più o meno aggressive nei confronti di altri popoli e quindi di altre vite.
La politica, quale azione regolatrice della società, con la sua attività normativa opera continuamente scelte che incidono sulle esistenze dei governati, scelte che possono per questi rivelarsi eccessivamente condizionanti o persino abominevoli (come nel caso del Terzo Reich tedesco), assumendo l’aspetto di un potere sulla vita (e sulla morte) piuttosto che di una politica della vita.
Una critica all’interpretazione “estesa” della biopolitica, così come viene definita da queste premesse, pur molto sintetiche, è il rischio di estendere arbitrariamente la sua pertinenza a tutte le forme di società, che, in quanto necessariamente autodotatesi di norme di convivenza, anche ipoteticamente primitive, possono vedere gli effetti della “politica” sulla loro “vita”.
In altre parole, ogni società umana, in quanto società, è strutturata, si arricchisce cioè, mano a mano che il numero delle persone che la compongono cresce, di una specializzazione degli individui in ruoli che vanno dai più semplici ai più complessi (questo anche a prescindere dal concetto di primitività di una società) e, alla stessa stregua, di istituzioni che ne regolano il funzionamento: il rischio è quello, appunto, di considerare biopolitico ogni atto di queste istituzioni, che in astratto potrebbe influenzare la vita dei componenti la società, nessuno escluso.
E’ un rischio concreto, ma una possibile risposta, che è anche un poco una provocazione, sta nello smettere di pensare che le azioni di chi “sceglie” per noi cittadini debbano essere concepite come slegate dalle loro conseguenze, anche indirette. E se tra le conseguenze ci sono ripercussioni su quella che è la propria concezione di “buona vita”, si può sentire la necessità di ribellarsi. Quanto più questa concezione di “buona vita” è condivisa, tanto più si avrà la possibilità di influenzare, organizzandosi con i mezzi consentiti dalla società, l’operato di chi è stato investito di responsabilità politica.
Aggiornando quindi l’analisi alla società moderna, quella nella quale siamo calati, potremmo porci come fine l’osservazione e la critica degli atti politici che sulle nostre vite generano ripercussioni non solo teoriche, ma concrete.
Un esempio, che speriamo stimoli una proficua discussione: si pensi alla possibile scelta politica di estendere a dismisura e senza limitazioni temporali il cosiddetto “lavoro interinale”.
Ciò che molti considerano una norma puramente economica, che quindi è paragonabile, per materia, ad altre quali l’aumento o la diminuzione di un tributo, o la defiscalizzazione a favore delle somme fatte rientrare dai paradisi fiscali, in realtà, quanto peserebbe sulle vite di coloro i quali dovessero convivere con una precarietà indefinita nel tempo? Quali angosce li accompagnerebbero? Quali vite in ultima analisi potrebbero condurre e far condurre ai propri cari?
Alla prossima settimana