L’INFLUENZA CON LE ALI
di Antonella De Paola

Se qualcuno ha pensato che il caso “mucca pazza” ci avrebbe insegnato a non posporre la salute umana agli interessi economico-finanziari, si è sbagliato. Le farine animali, causa della follia bovina, sono state sì bandite dai mangimi destinati a bovini ed ovini ma continuano ad essere ampiamente utilizzate, con il beneplacito di tutti i governi, nell’alimentazione di avicoli e conigli (granivori i primi, erbivori i secondi). Considerato che sono molto economiche, non avevamo dubbi.

Analogamente, nonostante sia evidente a tutti che le malattie del pollame sono strettamente correlate alle aberranti condizioni di vita cui sono costretti gli animali degli allevamenti intensivi, le normative europee (e chissà quelle asiatiche!) prevedono, per l’allevamento di una gallina ovaiola, uno spazio pari alle dimensioni di un foglio A4. In questo spazio, la gallina vivrà tutta la sua vita (che, fortunatamente per lei, sarà interrotta prematuramente all’età di circa 18 mesi per declino delle sue capacità produttive). In un moderno capannone occidentale sono così stipate fino a 60 mila ovaiole che, illuminate artificialmente 17 ore al giorno, d’estate come in inverno, producono uova ininterrottamente. Per evitare poi che si azzuffino, viene loro tranciato il becco e per facilitare l’eliminazione automatica delle feci, la base della gabbia è costituita da un reticolato inclinato che è causa di ferite ed infezioni alle zampe.   

Le condizioni igienico-sanitarie dei Paesi del sud-est asiatico sono sicuramente di gran lunga inferiori di quelle dei Paesi occidentali e non è quindi un caso che il pericolo di pandemia da H5N1 provenga da queste zone tuttavia anche nei Paesi ricchi gli allevamenti intensivi sono degli attentati alla salute umana (oltre che un pugno nello stomaco per chiunque creda nella necessità di avere un po’ di rispetto anche per la sofferenza degli animali).  

Le incredibili concentrazioni di volatili, sia all’interno di ogni singolo allevamento sia all’interno del distretto territoriale, fanno sì che virus e batteri si manifestino e si diffondano con grande facilità. Non a caso, nei primi 120 giorni di vita di una pollastra, cioè nell’arco di tempo necessario perché sia in grado di produrre il suo primo uovo, all’animale sono di norma somministrate 20 diverse vaccinazioni. Tre di queste entro le prime due ore di vita.  

Un sistema produttivo che sopravvive solo grazie all’uso massiccio di trattamenti antibiotici non può però che comportare una serie di conseguenze nefaste anche per gli umani. Nell’immediato, la scarsa qualità della carne. Sapore e proprietà nutritive a parte, non è una novità che la Food and Drug Administration statunitense denunci regolarmente il fatto che l’uso massiccio di antibiotici da parte degli allevatori sia all’origine della resistenza ai farmaci sviluppata da un numero sempre maggiore di batteri e quindi della sempre più frequente difficoltà a curare le malattie umane. Ciò nonostante, oltre la metà degli antibiotici usati in Europa e negli Stati Uniti sono impiegati dall’industria zootecnica. 

Bombardare gli animali di antibiotici e farli vivere in condizioni aberranti significa però anche annullare le loro difese immunitarie e quindi favorire l’aggressività degli agenti patogeni e tutte le epidemie che questo comporta. E’ molti anni che gli esperti sono a conoscenza dei possibili risvolti drammatici che l'industrializzazione della zootecnia potrebbe provocare ma nessuno ha osato mai proporre di intervenire sulle origini stesse del problema, di eliminare le aberrazioni di questo sistema produttivo, di diminuire le concentrazioni di animali, di dare la preferenza alla qualità anziché alla quantità, di permettere agli animali condizioni di vita naturali, come quelle previste dall’allevamento biologico, che non comportano la necessità di far ricorso a sostanze chimiche. 

Immediato invece il tentativo di arginare i danni economici etichettando i polli nostrani per cercare di convincere i consumatori a continuare a comprare la preziosa (per chi?) carne. Cosa garantiscono in effetti queste etichette? Che controlli possono esserci in un settore che, nel solo Veneto, coinvolge quasi 100 milioni di galline? Dobbiamo fidarci del senso di responsabilità dei singoli produttori? E perché mai dovremmo farlo, dopo che i tanti scandali del settore alimentare a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, non lasciano spazio a dubbi riguardo al principio di sfruttamento estremo che regola l’industria zootecnica?  

Riformare il sistema sembra fuori discussione, non solo perché si scontra con gli interessi ed i guadagni di allevatori ed industriali ma anche perché, occorre dirlo, troppi consumatori preferiscono comprare capi firmati e cibo-spazzatura. Perché il vero nemico dell’umanità non è l'H5N1 ma la logica consumistica e mercenaria della nostra cultura. 

Per ora l’unica soluzione è quindi il vaccino. Ancora da inventare, ancora da produrre, dall’efficacia tutta da sperimentare. Ma nel frattempo, in Gran Bretagna, dove è stata preventivata la morte di 700.000 cittadini, si va alla ricerca di luoghi adatti ad una sepoltura di massa. 

Antonella De Paola