Gli effetti della precarizzazione sui cuori e sui cervelli degli individui |
- Intro
- Il mio lavoro consiste nel fare ricerca e didattica nell'ambito disciplinare dell'antropologia. Lo faccio all’interno di un’università pubblica, il cui essere «luogo comune» è oggi messo in discussione dal DL Moratti.
Oggi vi parlo in una veste duplice: come ricercatore universitario e come essere umano generico. A volte le due vesti sono difficili da far stare insieme, e lo saranno ancora di più con l'introduzione di una legge che precarizza maggiormente il lavoro in università. Vorrei provare, oggi, a prendere il meglio da ciascuna delle due appartenenze: la tensione verso il rigore scientifico, che è alla base del mandato istituzionale dell'università; e il senso di disagio che attraversa l'essere umano generico.
I dati che presenterò sono tratti, per l'essenziale, dalle ricerche condotte nell'ambito dell'antropologia (in particolare dell’antropologia medica, o della salute) e dalle indagini sulle trasformazioni del lavoro. Ma non solo: in questo discorso si mescolano dati, provenienti da molte discipline, che sono liberamente a disposizione di tutti ma solo raramente vengono letti e interpretati nella loro interezza.
È importante, per cominciare, sottolineare che quest’analisi non riguarda solo l’università e non è per un interesse corporativo che oggi gli atenei italiani si mobilitano. Quel che ora succede all'università è infatti parte di un movimento molto più ampio, una trasformazione che investe l'intera esistenza dei soggetti (basti pensare a quanto sta accadendo ai servizi sociali, all’istruzione pubblica, alle pensioni, ai bilanci degli enti locali, al trasporto pubblico ecc.). Analizzeremo questa trasformazione lungo tre linee: la mutazione di paradigma a livello macrostrutturale; gli effetti sulla strutturazione psicologica e, per così dire, «esistenziale» delle persone; e, infine, gli effetti sulla loro salute.
Per cominciare, è bene notare una bella astuzia del vocabolario in uso in Italia: il lavoro precario non è infatti il lavoro temporaneo, ed è, rispetto a questo, qualcosa di molto peggiore. La temporaneità comporta infatti una scelta e una direzione, una soluzione provvisoria ma comunque decorosa; la precarietà connota invece una situazione di pericolo. Un conto è abitare una casa temporaneamente; tutt’altro conto abitare una casa precaria… Il precariato è, oggi, l’inabitabile.Il nuovo paradigma del lavoro
- Da circa trent’anni il mondo del lavoro ha subito una trasformazione profonda e di lunga durata, i cui effetti compiuti sono oggi sotto gli occhi di tutti. Riassumendo molto, siamo passati dal paradigma fordista a quello postfordista.
Nel paradigma fordista c’era una solida distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita: mentre il primo, retribuito, era impiegato, per una certa quantità oraria giornaliera, nella produzione di beni materiali o immateriali, il secondo era invece dedicato al «resto della vita», e questo «resto» era improduttivo in termini industriali e riproduttivo in termini soggettivi (sia nel senso del recupero delle forze da parte del lavoratore che in quello della riproduzione di nuovi lavoratori).
Nel postfordismo, invece, tempo di lavoro e tempo di vita sono indistinguibili; e anche la produzione, un tempo considerata tale solo se aveva a che fare con la creazione di nuovi beni, si è allargata a includere la ri-produzione (e auto-produzione) degli individui. Oggi è l’intera esistenza dei soggetti a essere messa al lavoro, ovvero a essere impiegata per ottenere plusvalore economico da una situazione in cui produzione e riproduzione si confondono completamente. Facciamo qualche esempio: se nel tempo libero frequento un corso di inglese, è verosimile che le mie nuove competenze linguistiche, nate magari da una passione soggettiva, saranno rapidamente messe all’opera sul posto di lavoro; se un mio amico è un esperto di computer non esiterò a chiamarlo quando il computer su cui lavoro andrà in crash – in tal modo facendo risparmiare soldi all’azienda; e così via. La cooperazione sociale fra soggetti è oggi uno dei meccanismi produttivi più efficienti.
Nel frattempo, tuttavia, il tempo retribuito resta solo quello del lavoro formalmente inteso; e chi non lavora, per quanto possa essere partecipe della cooperazione sociale, resta senza reddito. (Ancora un esempio: se per far ripartire il computer di cui sopra chiamo un amico disoccupato, le sue competenze serviranno senz’altro alla ditta per cui lavoro, ma non gli saranno in alcun modo compensate.) È possibile che l’unico meccanismo sociale in grado di retribuire la cooperazione sociale sia il reddito di cittadinanza – ma questo tema lo lasciamo per la prossima volta.
Dal punto di vista della storia dei sistemi, il passaggio dal fordismo al postfordismo è avvenuto grazie alle nuove tecnologie: computer, rete e telefoni cellulari frammentano e ricompongono in continuazione il tempo di vita dei soggetti in tempo lavorativo a spot. Non c'è più bisogno di fornire al datore di lavoro batterie giornaliere di ore lavorative: è sufficiente che il lavoratore sia continuamente disponibile, sia all'interno della ditta (vedi il caso dei cellulari accesi durante le ferie) che all'esterno (vedi, appunto, la cooperazione sociale ma anche la diffusione delle agenzie di lavoro interinale).- La cooperazione sociale richiede una vera e propria messa al lavoro degli affetti e delle potenzialità di ciascuno: non solo nel senso della collaborazione di tutti con tutti, ma anche in quello delle capacità messe all’opera nel lavoro. Queste non sono più, infatti, competenze specifiche, abilità tecniche avanzate, ma capacità multiple, generiche, versatili: la capacità di persuadere qualcuno; quella di rispondere gentilmente a tutti; quella di lavorare in gruppo in modo collaborativi; quella generica di saper «scrivere bene»; e via così.
L'ideologia dell' "imprenditore di sé"
Nel momento stesso in cui il lavoro si allarga a comprendere l’interezza della vita e la collaborazione sociale è massima, è anche massimamente diffusa una strana ideologia secondo la quale ciascuno è «imprenditore di se stesso» o comunque aderisce a un preciso scopo imprenditoriale.
Il problema è diffuso e riguarda tanto il lavoro «sotto padrone» in una ditta all’antica quanto il lavoro, apparentemente ben più libero e gratificante, nel terzo settore. Nel primo caso, viene richiesto ai soggetti di aderire in modo acritico a una serie di proposizioni false (le famose mission, vision & values del mondo aziendale): tale adesione è ottenuta, spesso, mediante tecniche di persuasione implicite (dal mobbing soffice alla pubblicità interna fatta apposta per controllare l’umore dei dipendenti, dall’urlo corale per aprire la giornata di lavoro alla dipendenza del lavoratore dalla figura gerarchicamente superiore). Nel secondo caso, quello del terzo settore, gli effetti della «imprenditorialità di se stessi» sono forse ancora più visibili: il lavoro a progetto richiede spesso che chi è competente non solo faccia il lavoro ma anche che trovi da sé il finanziamento (ovvero: che si procacci lo stipendio); a fronte di 10/12 ore di lavoro giornaliero, senza ferie e senza garanzie, gli stipendi possono essere anche di soli 600 euro al mese.
In un sistema del genere, i sentimenti individuali più diffusi sono, ovviamente, la paura, l’opportunismo e il cinismo (AA.VV., 1990), con tutto il corteo di modificazioni a lungo periodo nella personalità che questi comportano (Sennett 1998). La morale di quest’umore diffuso potrebbe riassumersi in un laconico «ciascun per sé». Nel valutare questa situazione, comunque, si deve anche tener presente che proprio la paura rappresenta oggi un mercato estremamente redditizio (dalla paura delle malattie a quella del terrorismo, dalla paura del licenziamento a quella del fallimento personale, tutto fa salite le vendite: di porte blindate, di pensioni integrative, di ansiolitici, di esami medici, ecc.).
Ma a ben vedere, si tratta di una situazione del tutto schizofrenica: i soggetti dell’attuale mondo lavorativo collaborano fra loro in modo mai visto prima, e al contempo si pensano soli al mondo e necessariamente egoisti. Il tutto, in mezzo a una precarietà che investe qualsiasi zona dell’esistenza. Questo è infatti il nodo: dal momento che, in questa fase storica, il lavoro si è allargato a includere gran parte della vita, precarizzare il lavoro significa, automaticamente, precarizzare la vita.
Questa condizione postmoderna di continua incertezza ricorda da vicino quella delle antiche società contadine, esposte ai tutti i rovesci della sorte, del tempo, delle malattie e delle guerre. La differenza più rilevante fra le due situazioni è che mentre un tempo la principale fonte di incertezza era il mondo naturale, oggi è invece il mondo economico. Di questa situazione testimoniano diversi sintomi. Ernesto De Martino, nelle sue indagini sulla magia popolare fra i contadini dell’Italia meridionale di metà Novecento, ha sostenuto che, in un mondo precario come quello, la magia serve a ridare consistenza alla presenza individuale, consolando dell’incertezza in modo tecnicamente inefficace ma psicologicamente sensato (De Martino 1961).
Allo stesso modo, si assiste oggi a un ricorso massiccio a pratiche di salute / salvezza che rimandano assai più alla magia che all’efficacia della scienza, più all’irrazione che emerge nella paura che a un uso consapevole e libero della razionalità. Dalla diffusione delle religioni orientali (in versione, naturalmente, riadattata per il pubblico occidentale) alla pletora di medicine «alternative», dai tariffari dei maghi alle «ginnastiche mistiche» (anch’esse, beninteso, banalizzate a uso occidentale), tutto rivela una «crisi della presenza», come direbbe De Martino, legata appunto alla precarietà del vivere.
Ma, ciò che più conta, la precarietà ha come effetto principale quello di rendere dipendenti da tutta una serie di legami da cui diventa impossibile svincolarsi. Da un lato, come già abbiamo visto, è tornato a essere fortissimo il legame con la famiglia di provenienza, l’unica istituzione in grado di fornire ancora la garanzia di un pasto caldo e l’appoggio nei momenti di crisi, e che al contempo perpetua nei soggetti dipendenti un pericoloso infantilismo nei comportamenti e nelle aspettative; dall’altro, in ambito lavorativo la scelta soggettiva del datore di lavoro è tornata a essere cruciale, ciò che induce nuove forme di caporalato (che, per quanto soft, è e resta un sistema di quasi-servaggio).
Per finire, sia per via della soggezione supina al sistema economico (le tante litanie di quelli che dicono «farà anche schifo, ma io che posso farci?») che per via dell’oggettiva dipendenza personale dalla decisione altrui (e dalle bizze dei governi), i soggetti si trovano in una situazione di notevole impotenza rispetto alle proprie scelte (Pignarre & Stenger 2004).
In questa schizofrenia, qualcosa al corpo (che, per sua parte, è spesso molto più ribelle della mente) deve pur accadere…Il corpo ribelle
I dati disponibili sono molti ed è impossibile citarli tutti. Ne vediamo quindi solo alcuni, in modo rapsodico:
· I registri civili indicano che l’età al matrimonio (o comunque, l’età a cui si esce dalla casa dei genitori) è in drastica risalita; conseguentemente, sale anche l’età media al primo figlio. Il tasso di fertilità risulta quindi complessivamente assai ridotto, e l’Italia è, insieme alla Spagna, il paese meno prolifico d’Europa. Spesso si sente dire che questo è un portato necessario dell’industrializzazione, ma basta fare un breve viaggio in Francia per rendersi conto che, forse, a incidere sulle scelte degli italiani c’è anche una situazione disastrosa dal punto di vista dei servizi sociali.
· Il problema, comunque, non è solo italiano. In un’indagine condotta in Francia sull’infertilità maschile è risultato che il numero di spermatozoi vivi presenti nello sperma si è dimezzato dal 1980 (data di una precedente e analoga indagine) ai primi anni del nuovo secolo.
· Le allergie (dalle più leggere a quelle invalidanti) e le intolleranze sono aumentate in modo vertiginoso: l’inquinamento diffuso fa sentire la sua onnipresenza, nonostante tutte le buone intenzioni sul fumo delle sigarette
· Diversi disagi psichici sono in forte espansione presso tutta la popolazione, e in particolare hanno andamento pressoché epidemico ansia e depressione.
· Il consumo di medicinali in grado di aiutare a far fronte alla vita quotidiana (ansiolitici e antidepressivi, soprattutto) è aumentato in modo esponenziale, rendendo oggi la categoria degli psicofarmaci una delle più redditizie per le industrie farmaceutiche.
· L’età media al primo ricovero in un reparto psichiatrico, che ancora all’inizio degli anni Ottanta era attorno ai 25 anni, è oggi al di sotto dei 18.
· Gli psicoterapeuti segnalano che le nosologie classiche del disagio psichico sembrano oggi venir meno: in presenza di sofferenza mentale, anziché chiudersi, il soggetto tende piuttosto a disgregarsi, come se non avesse nessun nucleo stabile (riformulando: come se tutto ciò che fa parte del soggetto fosse, in ogni momento, solo precario).A questo punto, si prospettano due interpretazioni possibili:
1. la prima, riduzionista, è quella che va per la maggiore: si è malati (di questo o di quello poco importa), per una responsabilità individuale che fa il paio, in campo medico, con l’ideologia dell’«imprenditore di se stessi»; ovvero, si è malati perché si è individualmente e naturalmente predisposti a quella malattia. Nei nostri anni, la predisposizione alla malattia x viene di solito spiegata con la presenza, nel genoma dell’individuo affetto, del gene x. Anche senza entrare nei dettagli della genetica (o meglio: delle distorsioni sulle ricerche della genetica che vengono sistematicamente perpetrate dalla stampa), o questo è vero, e allora negli ultimi 25 anni l’allele per l’ansia e quello per la depressione si sono diffusi a macchia d’olio e in modo lamarckiano; oppure questo è, semplicemente, falso.
2. la seconda interpretazione, che tiene fede all'antica missione utopica della medicina (quella di creare le condizioni della propria scomparsa o, quantomeno, della riduzione della propria importanza), tiene conto di tutti i fattori che costituiscono l’ambiente entro cui i soggetti nascono, vivono e si ammalano – ivi inclusi quelli sociali (Onagro-Basaglia & Bignami, 1979). Se nell'Inghilterra dell'Ottocento si moriva tanto di TBC non era solo perché il bacillo era nell'aria, ma anche per via delle condizioni disastrose del proletariato urbano. Se oggi tanti soffrono d'ansia, non è perché c'è un gene mutante che la scatena, ma perché la situazione psicologica degli abitante dell’occidente è ansiogena.
Per non finire affatto…
- Il quadro è bigio e non ci sono soluzioni pret-à-porter. Si tratta, per ciascuno, di fare una scelta.
D’altra parte, l’esigenza di scegliere è anche la lezione maggiore che si ricava dai pensatori, dagli scienziati, dai letterati di tutte le epoche. Ognuna delle generazioni che si sono susseguite sulla terra ha dovuto scegliere: in base ai propri tempi, ai problemi che al loro tempo si sono presentati, alla distribuzione delle forze, delle fragilità e delle speranze.
La scelta, oggi come sempre, è facilmente detta: accetto lo stato delle cose o provo a inventarne uno diverso? Ciascuna alternativa presenta vantaggi e svantaggi: la prima è comoda e depressiva; la seconda è scomoda e forse felice.
Ciò che più colpisce del tempo presente è proprio l’incapacità diffusa di immaginare qualcosa di diverso. Questo, tuttavia, ha una ragione: immaginare da soli significa cullarsi in sogni che non cambiano di una virgola lo stato delle cose. È solo immaginando insieme che si ha qualche possibilità di riuscita.
Luigi Pintor ha detto: «Azione è uscire dalla solitudine». Non è vero che siamo soli al mondo.
Stefania Consigliere (insieme a molti altri; e comunque, non da sola)
- Bibliografia
- AA.VV., 1990. Sentimenti dell'aldiquà. Opportunismo paura cinismo nell'età del disincanto. Theoria, Roma-Napoli 1990
DE MARTINO Ernesto, 1961. La terra del rimorso. Feltrinelli, Milano 1961.
ONGARO-BASAGLIA Franca, BIGNAMI Giorgio, 1979. «Medicina / medicalizzazione» In: Enciclopedia Einaudi, vol. IIX. Einaudi, Torino 1979.
PIGNARRE Philippe, STENGERS Isabelle, 2005. La sorcellerie capitaliste. Pratiques de désenvoûtement. La Découverte, Paris 2005
SENNETT Richard, 1998. L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale. Feltrinelli, Milano 2002.
VIRNO Paolo, 1994. Mondanità. L'idea di "mondo" tra esperienza sensibile e sfera pubblica. manifestolibri, Roma 1994.
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Dr. Andrea Balduzzi
DIP.TE.RIS.
Dipartimento per lo studio del Territorio
e delle sue Risorse
Universita' di Genova
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