Giorgio Amico
Erranze
Pag. 83
"Se tutto
finisce senza nostra colpa, forse ci si rassegna [...]
Non vorrei essere costretta a cancellare anche il tempo più recente"
da Francesco Biamonti "Attesa sul mare".
Quando si viene a sapere che un uomo come Giorgio, attivissimo e severo con se stesso, ha scritto, come lo chiama lui, un "libriccino" che circola tra pochi e fidati amici, la prima reazione è di sorpresa. Si pensa a perché e per chi si scrive e perché, di punto in bianco, vi si cimenti una persona che noi conosciamo impegnata certo nello scrivere, ma non di cose letterarie. Di solito, si pensa a compensazioni, a tardive autoconfessioni o autoproposte; ad ingenuità, insomma. A qualcosa per incontrarsi coi propri simili, qualcosa di sommesso, ma, al tempo stesso, di orgoglioso, come è sempre figlio d'orgoglio l'incipit di un comunicare.
Tanti sono i libri stampati dalle tante case editrici di nicchia e ci si accinge a leggere - siamo onesti - con una certa sufficienza. Dirò subito che non è il caso del "romanzo" di Giorgio. Ho pensato, nel leggere le asciutte pagine, come passate dalla pomice degli antichi librai romani, a quanto gli debba essere costato segnare di tratti il foglio bianco, aprire la scatola riservata dei propri pensieri e, un secondo dopo, rileggersi, pentirsi, resistere alla voglia di cassare subito.
Sì perché scrivere "letterario" presuppone l'esporsi senza una scorza, far un passo dopo l'altro nell'ingenuità che critica o lettura saputa possono distruggere nel tempo che s'increspa un sorriso di sufficienza. Eppure, avanti! Perché quel che si dice è di noi stessi, è noi stessi, al meglio dello smascheramento e della politesse.
Primo libro, "Le illusioni di Itaca", per l'autore, ad una stagione nella quale la vita è digià ben impostata e alla letteratura si intende dare, non toglier favori e mestiere. Muoviamo dal titolo; il viaggio più noto, assieme a quello dantesco, viaggi che riportano ad una partenza modificati, arricchiti, al tempo stesso diversi ed eguali. Non soltanto avventure, pur se non mancano episodi di dramma. De-genere è infatti il romanzo di sola avventura, ed anche abbastanza remoto dalla tradizione europea.
Il protagonista, ad un certo punto dell'esistenza, torna ai luoghi donde si mosse giovane. Ma non per fare un bilancio di bildung, quanto portato da un serendipare inconscio ed angoscioso. Nessun compiacimento; nessuna voglia di ritrovarsi e di ritrovare. Si sente subito che Giorgio è uomo di attente letture, quelle che vestono per una vita. Il suo ritrovarsi, aduggiato, nel paese del ponente ligure di dove è mosso, ricorda lo sciroccoso, attaccaticcio star del Montale degli "Ossi" alla casa dei doganieri, peggio che vuota, come mai esistita se non nella sua "memoria grigia".
Il "viaggio" non è "di formazione" et il porte nulle part. Ciclico, piuttosto, avaro di eventi, ricalpestar di selci consumate ed in cui è casuale il poco o il molto che succede. L'autore è alla poco persuasa ricerca di una stagione con la ragazza Giulia (o di se stesso?); la reincontra mutata ed eguale al tempo stesso; il suo è un amore-rimorso (ma di che cosa, se i sentimenti ci nascono e ci muoiono come a loro pare, ci prendono e ci lasciano come capricci meteorologici?). Tornano, soltanto tinti di colore vetuscolo, i motivi che li fecero esser insieme e li staccarono:uguali ed immedicabili.
E qui, per Giorgio, è stato, lo voglia o meno, gran maestro Biamonti, letto con intensità e presente come pedale di bordone. La stessa immobilità irrisolta dei sentimenti, la stessa capacità di amor de lonh, lo stesso amore-angoscia, sentimento di mancanza e prefigurazione di morte come di un giorno appena un attimo dopo la sua piena maturità.
C'è la stessa cura del dettato; c'è anche lo stesso patire la pittura e saperla davvero, su per dirupi e paesi liguri; ma manca la poetica figurazione, il bisogno etico in Biamonti della parola orfica, come segno di porto sepolto, il sovradeterminare un'espressione spesso paratattica, a dialoghi franti o, meglio, suggeriti.
Biamonti "tiene" al paesaggio come psicologica compensazione;Giorgio Amico racconta una "storia" senza stampelle di eventi, come fuor di tempo e di spazio; a cadenze eguali che si ripetono e si ripeterebbero se non le concludesse la traumatica e forse inevitabile ultima pagina.
Viene alla mente un romanzo, forse un poco frettolosamente archiviato, "Fedeli d'amore" di un altro scrittore ponentino dei nostri tempi, Giuseppe Conte. Titolo assai calzante per una "storia" che si dipana irresoluta ed irrisolvibile come tutte quelle d'amore, tra pieghe di vita frontaliera ricchissima di umani capricci.
Giorgio non si dilunga; come per un pudore di marca etica riduce al minimo il nucleo degli eventi e dedica respiri, slarghi necessari di narrazione, alle città di cui ha la mappa in cuore.Particolarmente pregevole la "sua" Marsiglia, gran bella città che, forse, la pruderie per pessima fama ha sempre tenuto al difuori della letteratura e, a ben considerare, anche della pittura.
Non si ritorna impunemente ad Itaca, perché Ulisse aveva destini che non sono quelli dell'uomo contemporaneo. Non si torna ad una battaglia lasciata e che non convince ad affrontarla: forse Giulia, con la forza della donna, l'ha davvero combattuta: "lui" è egocentrico; come detto, si compensa assorbendo il paesaggio e correndo ad impulsi che lo annientano anche perché hanno, a poco a poco, consumato, annientato il terreno di gioco (e gioco è l'amore) su cui mai è sceso veramente determinato.
Sergio Giuliani