TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni

 

COME SI DISTRUGGE IL COMMERCIO

 

L’Italia è oggi spaccata in due, ma non in parti uguali. Contro una minoritaria frazione di grandi aziende e di amministrazioni pubbliche che non devono temere i rigori della legge, c’è la stragrande maggioranza di imprese, da piccole a micro, che devono vivere da clandestine in patria. E mi riferisco a imprese, se così si possono chiamare anche quando si tratta di botteghe o piccole partite Iva.

La situazione, infatti, è la seguente: grazie ad una distorta interpretazione ed applicazione della legge Biagi, le grosse ditte hanno la facoltà di assumere schiere di lavoratori “a progetto”, in sostanza precari, che consentono al datore di lavoro di godere di agevolazioni impensabili per le piccole ditte: niente tredicesime, contributi previdenziali quasi nulli, possibilità di licenziare al termine delle brevissime assunzioni. Secondo la Confindustria, il precariato “ha permesso di dare lavoro a chi sarebbe altrimenti rimasto disoccupato”.  Discorso applicato alla grande in Cina, con un pugno di riso per tutti. Peccato che non valga più quando si passa al piccolo commercio, dove non esistono alleggerimenti di sorta per i negozianti che devono avvalersi di aiuti esterni.

Infatti, se passiamo su quest’altra sponda, che è anche la più fragile, grazie ad una concorrenza ingrossata dalla liberalizzazione e dalle schiere di senza lavoro che devono inventarsi un’attività senza alcuna specializzazione, gli “autonomi” sono costretti ad assumere il personale secondo le norme un tempo valide per tutti: quindi con minimi contrattuali, tredicesime e addirittura quattordicesime, pieni contributi INPS, ferie, ecc.; il tutto gravato da una miriade di adempimenti spesso senza alcuna utilità pratica (ad es. sulla sicurezza), se non quella di appesantire i bilanci e le sanzioni in caso di violazioni, spesso suggerite dal semplice buon senso. Sulla quattordicesima sarebbe il caso di aprire un’indagine parlamentare, per verificare se ne persistano le condizioni, che oggi appaiono come una ingiustificata discriminazione nei confronti del settore industria e concorrono a rendere le assunzioni “in regola” nel commercio al dettaglio un anacronismo, dopo l’avvento massiccio della grande distribuzione. Tanto più che le grandi imprese, too big to fail, godono di salvataggi governativi, fatti naturalmente coi soldi e il sudore dei soliti autonomi, peraltro costantemente additati come evasori, per aggiungere al danno la beffa.

Con queste premesse, mentre le grandi aziende assumono pletore di precari a prezzi di saldo e in piena legalità, distruggendo sia l’oggi che il domani di almeno una generazione di giovani, i “piccoli”, oppressi da tasse e contributi sproporzionati al volume d’affari, per sopravvivere e insieme riuscire a pagare i propri addetti, sono costretti ad operare almeno in parte nel “sommerso”, che è tale solo per le autorità, mentre è una realtà di dominio pubblico. Devono cioè sconfinare nell’illegalità, assumendo il personale almeno in parte “in nero”. Incorrendo così in due rischi: incappare negli implacabili controlli (cui sfuggono i “grossi”, che trattano ben peggio, ma in piena regola, i loro precari); e subire i ricatti dei dipendenti, che li tengono in pugno con la minaccia di denunce. Per evitare queste ultime, converrebbe paradossalmente assumere immigrati clandestini, in quanto a loro volta ricattabili con lo spettro del rimpatrio forzato. E infatti è quello che fa la criminalità organizzata, come i fatti di Rosarno di questi giorni non fanno che confermare. Per inciso: ma ai solerti controllori, troppo intenti a verificare l’emissione degli scontrini, erano del tutto sfuggiti gli eserciti di africani sparsi nelle campagne a raccogliere agrumi?

È dunque questo il modo di lavorare in un paese civile? Essere costretti a lavorare come fuorilegge, anche con la miglior volontà di rispettarla? E quindi assistere ad un’Italia sotto doppio ricatto: quello dei grandi imprenditori verso i propri dipendenti, sempre più precari, con la minaccia del non rinnovo del contratto; e quello dei dipendenti verso i propri piccoli datori di lavoro, costretti a dichiarare solo una parte di ore in regola per non dover chiudere e vivere col patema di assillanti controlli? Circa le associazioni di categoria dei commercianti, non mi risulta abbiano mai fatto pressioni sulle istituzioni per modificare le storture qui denunciate, assimilando così il loro ruolo a quello, ormai in forte regresso, dei sindacati.

Pur essendo questa realtà ben nota anche ai sassi, nel suo bel discorso di fine anno il capo dello Stato l’ha taciuta, sottolineando soltanto il dramma, pur sacrosanto, dei dipendenti delle grosse società accampati sui tetti delle fabbriche, ma evitando di mettersi anche nei panni dei “padroni”, sopra descritti, che sono ormai padroni solo dei propri debiti verso il fisco e l’INPS e delle loro rovinose sanzioni, vere macchine da guerra contro quanti cercano di sopravvivere in un mondo consegnato alle grosse compagnie. In fondo, bene fa Berlusconi a sottolineare l’anima vetero-comunista che tuttora alberga in Napolitano, che lo porta a vedere, tra i problemi dell’imprenditore e quelli del dipendente, soltanto questi ultimi, anche perché, coalizzandosi, possono dare maggior visibilità alle loro proteste; mentre nessuno parla dei milioni di piccoli autonomi, ciascuno col suo problema, enorme a livello personale, ma polverizzato su scala nazionale. È questo esercito di minuscoli e oscuri lavoratori che ha dato il proprio voto ad una coalizione di destra, nella ragionevole aspettativa di un benevolo atteggiamento del governo verso le loro tribolazioni. Stupisce che: il governo non abbia mosso un dito per sostenerli nella loro lotta per la sopravvivenza, il che significa sopravvivenza dell’Italia, visto che ne sono la grande maggioranza; e che, a dispetto della solenne ingratitudine di un governo perennemente distratto dai problemi personali del suo leader, il consenso si ostini a rimanere così alto (sempre che i sondaggi riportino il vero).

Mi chiedo chi, e in così gran numero, ancora mantenga fiducia nell’operato del governo: i precari, i disoccupati, i pensionati (che quest’anno, nonché vedere adeguati i loro magri introiti al costo della vita, se li sono visti limare, causa l’allungamento della vita media!), i lavoratori dipendenti, gli autonomi? Nessuna di queste categorie mi pare ne abbia motivo. E allora chi? I privilegiati della politica, i grandi imprenditori, i banchieri? Certo; ma quanti sono, alla fine? Un manipolo di beneficiati. Il mistero permane; come all’epoca della DC, che nessuno diceva di votare, ma usciva vincente dalle urne. Ma là almeno si intuiva chi fosse a sostenerla: chi godeva di trattamenti di favore, dal pubblico impiego ai piccoli proprietari, dai contadini ai falsi invalidi, dai baby-pensionati al clero. Di più, la disoccupazione era a livelli accettabili, c’era ancora speranza nel futuro da parte dei giovani, chi aveva un impiego non doveva subire verifiche ogni due o tre mesi per averne conferma. Ma oggi? Credo che chi appoggia ancora il governo sia, in gran parte, chi non vede una credibile alternativa nell’attuale opposizione, che di opposizione vera non ne ha mai fatta, preferendo rincorrere la destra sui suoi stessi temi, dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni alla globalizzazione. Perché, dunque, abbandonare un governo dichiaratamente di destra per uno che di sinistra ha soltanto il vessillo?

Forse lì sta la chiave del problema. E l’IdV sta a dimostrarlo: solo un’opposizione dura può sperare di crescere, certo non quella beneducata di un Bersani e del PD che l’ha eletto a suo segretario, secondo criteri di un tempo che fu.

 

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                                         10 gennaio 2010