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PIOVE, GOVERNO LADRO

 

  Marco Giacinto Pellifroni

 


M. G. Pellifroni

In realtà, piove sempre meno, ma il governo è sempre più ladro. Lo Stato è ormai apertamente il grande mungitore degli italiani, da cui difendersi con l’unico mezzo a disposizione: l’evasione fiscale (o fisica, espatriando). Questa constatazione, basata sugli ultimi dati dell’Agenzia delle Entrate sui prelievi coatti eseguiti nell’anno in scadenza, è il vero patto disatteso di questo governo, che subentrava a quello delle tasse, con la promessa di abbassarle e di rendere la vita più facile a chi suda per guadagnarsi da vivere. 

Il premier è molto incazzato. E con lui la maggioranza degli italiani. L’incazzatura  accomuna mister B e lo stuolo di piccoli e medi imprenditori e commercianti, di partite Iva forzate, insomma di tutti gli autonomi che avevano sperato che un governo di destra avrebbe alleggerito le loro cartelle esattoriali, e invece si ritrovano un’Agenzia delle Entrate che si accanisce sempre più famelica contro tutti loro, rei di mancati redditi, falciati dalla crisi.

Il fisco non ha mai saputo dell’esistenza del segno meno: si fa avanti quando si guadagna e si ritira quando si perde. Anzi no, non si ritira, non ammette che qualcuno lavori e perda dei soldi, quei pochi che in anni migliori aveva messo da parte. Non ci crede. Eppure è questa la situazione di tanti italiani, che vivono grazie al concorso della famiglia, dei risparmi, degli avi, del ricorso al monte dei pegni o, peggio, agli usurai.

Il parallelo con mister B vale solo in quanto è condivisa la sua rabbia contro le istituzioni, che da un lato svuotano le tasche degli italiani con tasse e sanzioni, e dall’altro incalzano chi è riuscito a sfuggire alle loro grinfie da imprenditore, ma ora indossa i panni di primo ministro e insieme quelli di ex-evasore ed eversore in pectore in un’Italia allo stremo. Un mix pericoloso, che potrebbe portare a tentare un colpo di Stato sui generis, magari col plauso di tutti i tartassati, speranzosi per l’ennesima volta di un cambiamento in meglio. Speranza purtroppo vana; e vediamo perché.

Lo Stato nasce secondo il principio generale delle compagnie di assicurazione. Si chiede un premio (le tasse) per garantire sicurezza alla collettività: di risarcimento danni, le assicurazioni; di servizi primari, lo Stato. La tentazione, in entrambi i casi, è quella di lucrare sul monte premi, assottigliando sempre più la fetta destinata ai sottoscrittori (contribuenti) a vantaggio della macchina organizzativa. Il paragone è ancora più evidente se si considera la lievitazione dell’aggio nel campo del gioco: si è passati dall’onesta roulette, che chiede per il banco solo 1/37 delle puntate, a lotto e lotterie, che ne ingoiano una fetta ben maggiore, via via fino a Totocalcio, Grattaevinci, Superenalotto, Winforlife, che riservano a sé, ossia all’erario, una frazione esorbitante degli incassi. Per inciso, il gioco è diventato ormai il dorato miraggio di gran parte degli italiani, con l’ultima variante del trading in Borsa, cui si sta dedicando un numero insospettato di giovani delusi dalle aspettative di lavoro, con sostanzioso lucro per Stato e banche.

Lo Stato, dunque, s’è trasformato in un colossale biscazziere, che aggiunge alle tasse -non più (né mai) bastevoli per i suoi appetiti- i proventi dell’illusione collettiva della ricchezza improvvisa elargita dalla dea, bendata per il popolo, ma ben oculata per lo Stato.

La via d’uscita da questa impasse è stato, a destra come a sinistra, l’abbaglio delle privatizzazioni: togliere compiti allo Stato, costoso e inefficiente, per affidarli ai privati, (arrivando ai paradossi di Alitalia, spaccata in una bad company, accollata allo Stato, e una compagnia “virtuosa”, regalata ai privati).


È dai primi anni ’90 che si va avanti con la mitica panacea delle privatizzazioni. Risultato: da una parte, tariffe private più alte, offerte opache, quando non vere e proprie mini-truffe ai danni degli utenti, sgambetti tra i concorrenti a spese della qualità dei servizi; dall’altra uno Stato che, anziché alleggerire le tasse, grazie allo sfoltimento delle sue funzioni, continua ad appesantirle e a bollare come evasori quanti non ce la fanno a pagarle.

Alla base del bubbone giace imperterrito e ben schermato il sedicente debito pubblico. Quando i politici si riempiono la bocca con parole quali “risanamento” et similia, fanno come l’ingegnere edile che risana una casa pericolante rinforzandone i piani dal primo all’ultimo, ma trascurando le fondamenta. Lo Stato riconosce di avere verso la Banca Centrale un debito accumulato di oltre 1760 miliardi di euro. Debito insanabile (oltre che fittizio), non solo per la mole, ma per l’aggravante degli interessi; i quali, per essere onorati, obbligano lo Stato a contrarre ogni anno nuovi prestiti, in un crescendo esponenziale. Se dai proventi dello Stato (ossia dalle tasse) si cominciano a prelevare 70-80 miliardi di euro all’anno di interessi, la coperta diventa irrimediabilmente corta; e, appurata l’indisponibilità dei papponi di Stato a fare il benché minimo taglio alle proprie prebende, non resta che scagliarsi sui cittadini. Eppure, tolti gli interessi, fittizi quanto il debito, lo Stato sarebbe, non in pareggio, addirittura in avanzo. Ma il debito c’è, in quanto il debitore (lo Stato) è il primo ad ammetterne l’esistenza e ad affrettarsi a pagarne gli interessi al circuito parassitario bancario.

Ergo: servizi sempre peggiori e cittadini sempre più spremuti, sia dal pubblico (Stato + Regioni + Province + Comuni + ecc.), sia dal privato. Tutto ciò mentre i privilegi dei pubblici “eletti”, dal Parlamento in giù, brillano senza scalfitture alla luce del sole, ingenerando rancore, invidia, rabbia, sentimenti di vendetta nel popolo degli esclusi, ossia proprio dei loro elettori.

Mister B, in forma subliminale, riesce a cavalcare questi sentimenti nella sua lotta personale contro quelle stesse istituzioni di cui si trova a capo e che considera intollerabili, in buona compagnia di milioni di italiani. Parla di ipocrisie. E ha ragione: al linguaggio dell’ufficialità non crede più nessuno, compresi coloro che se ne servono per esorcizzare la cruda realtà. A cominciare dall’anziano Capo dello Stato, che sperava in un tranquillo settennio di cerimonie e pacati inviti al dialogo, e si ritrova tra i piedi un Capo del Governo che non ci sta e minaccia una vera e propria eversione, dall’interno. Con il primo stanno i residui benpensanti; col secondo, irrazionalmente, quanti non ne possono più di una crescente produzione di leggi che pretendono regolare ogni ora della giornata, acuendo il desiderio di evadere (in tutti i sensi).

Berlusconi è il ribelle numero uno di un’Italia ai limiti della sopportazione. Peccato che si scaldi soltanto quando ad essere toccato è il suo portafoglio. Si infervora unicamente quando vede minacciato il suo impero, i suoi interessi, la sua persona. Non l’ho mai visto scaldarsi per le aziende che chiudono, i cassintegrati, i precari, le sanzioni usurarie comminate a chi non paga puntualmente le esazioni di Stato e dintorni, l’Iva anche se non incassata, e insomma tutti gli adempimenti che vengono zelantemente richiesti ai cittadini a fronte di prestazioni carenti e di ripetute promesse mancate. Né s’è mai scaldato per la tirannide delle banche, cui è permesso prestare soldi che non hanno, chiederne l’interesse e la puntuale “restituzione” in soldi veri, ossia guadagnati dai mutuatari lavorando e producendo. Del resto, ci sono solo tre modi per far soldi: lavorare onestamente (cittadini); prelevarli legalmente ma illecitamente (Stato e banche); rubarli illegalmente e illecitamente (criminalità). 

Si metta un po’ di più nei nostri panni, caro premier, invece che solo nei suoi, quando vuole pronunciare un discorso appassionato e anticipare nuove iniziative. Parlare solo dei suoi problemi mina la sua credibilità di rappresentante degli interessi di tutti, quale dovrebbe configurarsi la carica che ricopre. Vorrei tanto vederle porre la stessa enfasi, le stesse palle che sfodera piangendo su di sé, nel perorare i nostri calpestati diritti.

 

  

Marco Giacinto Pellifroni                                                      13 dicembre 2009