Eccolo lì, quel semplice
vaso.
Sono bastati pochi istanti
per capire che Pandora era tornata e con lei
tutto il suo dolore.
L’anfora
accoglie e
custodisce la sofferenza, l’angoscia, l’amarezza
di tutte le donne che hanno visto la loro vita
spezzata
La sofferenza che resta
dentro anche quando i lividi sono passati.
L’angoscia che rimane dentro
anche quando sei al sicuro, lontano da lui.
L’amarezza che conservi
dentro nel vedere evaporare le tue aspirazioni.
Se il mondo fosse diverso
Lorena l’avrebbe vista partire e Hina arrivare.
Ora loro non ci sono più,
massacrate di botte e uccise.
Uccise da clan, da gruppi
perché anche per uccidere ci vuole coraggio. Ma
i loro assassini quel coraggio non l’avevano.
Dovevano essere gruppo.
Lorena, Hina e tante tante
altre ora non ci sono più; ma ci siamo noi.
Noi a dire basta.
Noi per non dimenticare.
Noi per dire non lasciamo che
accada più.
Noi che non possiamo lasciar
stare perché siamo state, per ora, più
fortunate.
Noi a ricordarle, con le loro
semplici storie che sono anche la nostra.
Ciao,
mi chiamo Lorena, volevo solo vivere la
mia sessualità
liberamente.
Non so’ neanche perché in
quel gruppo.
Non so’ neanche perché con
quei ragazzi.
Non so’ neanche perché e non
importa. Non cerco né ho mai cercato
giustificazioni o perdono.
Mi hanno trascinata là, in
quella cascina, mi ci hanno portata con
l’inganno sapendo già cosa sarebbe stato di me.
Mi ci hanno portata come si
portano oggetti vecchi, rotti, di cui ci
vogliamo sbarazzare.
Mi ci hanno portata per
lasciarmi là, oramai mi avevano usata, non
servivo più.
Mi avevano usata, ed io e il
mio forse bambino eravamo ormai solo un
problema.
Mi avevano usata, ed io e il
mio forse bambino eravamo ormai solo un ostacolo
per la loro futura vita di uomini adulti.
Mi ci hanno portata là, in
quella cascina, senza pensare alla mia futura
vita di donna e al loro forse figlio.
La mia futura vita?
Non importava nulla a loro.
Mi ci hanno portata e
lasciata in quella cascina.
Mi ci hanno portata e
minacciata.
Mi ci hanno portata e
massacrata di botte.
Mi ci hanno portata e
insultata.
Mi ci hanno portata e presa a
calci e pugni.
Mi ci hanno portata e
lasciata moribonda.
Mi ci hanno portata e
lasciata sofferente.
Mi ci hanno portata e
lasciata: morta.
Morta.
Ciao, mi chiamo Francesca.
Vorrei essere libera.
Ciao, sono Francesca ho due
figli.
Sono Francesca, non ci amiamo
più.
Ho due figli e non un lavoro.
Vorrei essere libera, andare
via.
Non ho un lavoro e ho due
figli.
Resto.
Ciao, sono Francesca. La
libertà è un lusso che non posso permettermi.
Ciao, mi chiamo Kamila, ho
solo pochi anni.
Ciao, mi chiamo Kamila, non
so ancora scrivere.
Ciao, mi chiamo Kamila e
posso ancora permettermi il lusso di giocare.
Ciao, mi chiamo Kamila ed
oggi è la mia festa, così mi dicono.
E’ la mia festa, il giorno in
cui diventerò perfetta; perfetta come profetizza
il mio nome.
Ciao, sono sempre Kamila.
Anche se non capisco perché qui sul tavolo ci
sia io e non un banchetto.
Sono Kamila e ho paura.
Sono
Kamila
tenuta ferma.
Sono Kamila i miei occhi
ruotano cercando di capire il perché del
pugnale.
Sono Kamila e ora è solo
dolore.
Dolore tra le mie cosce.
Le spine d’acacia mi
trafiggono la carne.
Le mie gambe ora sono legate
strette, resteranno così quaranta giorni.
Sono Kamila, il mio corpo ora
sarà appetibile per un marito.
Appetibile per un uomo che
crede che il modo migliore per scongiurare
l’adulterio sia il mio dolore.
Appetibile per un uomo che
dovrà lacerarmi la carne ogni volta che mi vorrà
per sé.
Sono Kamila, dovrò subire la
stessa tortura ogni volta che partorirò.
Ciao sono Kamila: non volevo
essere perfetta.
Ciao, mi chiamo Core, volevo
solo essere felice.
Mi ha corteggiata per mesi,
mi ha riempito di fiori e di regali.
La marcia nuziale e le
candele.
Volevo solo essere felice.
Ora sono incinta!
Ora sono felice!
“Ti ho scelto solo per il tuo
utero!” Ora urla queste parole.
Ora urla.
Urla.
Io sono qui nell’angolo.
Sono qui sbattuta a terra dal
ceffone.
Qualcosa di caldo cola lungo
il labbro.
Sono qui sbattuta a terra dal
ceffone.
Qualcosa macchia di rosso la
mia camicetta.
Sono qui sbattuta a terra dal
ceffone.
Volevo solo essere felice.
Ciao,
mi chiamo Aisha
e vivo in Somalia.
Cammino sotto il sole. Il
burka si trascina sul sentiero. La polvere si
alza.
La polvere si alza quando
cado in terra.
Si alza mentre mi tengono
ferma e mi divincolo.
Si alza mentre loro si
affannano su di me.
La polvere si alza.
Uno.
La polvere volteggia.
Due.
La polvere soffoca.
Tre.
Scrollo la polvere dai
vestiti quando mi rialzo.
Con dolore torno a casa.
Ho tredici anni, il mondo
cambia: lo so.
Ho tredici anni, il mondo
cambia se lo vogliamo noi.
Il magistrato mi rassicura
“Denuncia, non è colpa tua”.
La polvere si alza.
Ora sono allo stadio.
La polvere si alza.
Sono la protagonista della
scena.
La polvere si alza.
Mi hanno stuprato.
Una.
La polvere volteggia.
Mi hanno giudicato colpevole.
Due.
La polvere soffoca.
Hanno emesso la sentenza:
lapidata a morte.
Tre.
Le pietre volano e mi
colpiscono.
Ciao mi chiamo Aisha,
significa vita e prosperità.
Ciao mi chiamo Aisha, il
mondo può cambiare ma non per me.
Ciao, mi chiamo Anna.
Mi chiamo Anna e vado a
scuola in questa città borghese.
Ciao, mi chiamo Anna,
finalmente un mito in cattedra.
Finalmente qualcuno che porta
una nuova ventata nella scuola degli anni ’70.
Finalmente un mito,
discussioni sul futuro femminile.
Nonostante tutto perché
qualcuno insinua che resterò sempre un uccellino
nel nido bisognoso di protezione?
Ciao, mi chiamo Hina.
Mio padre viene da lontano.
Mio padre cerca qui il suo
riscatto.
Mio padre vive in un paese
europeo, lavora come un europeo ma cerca un
riscatto orientale.
Mio padre vive come un
europeo ma esige una figlia orientale.
Ciao, mi chiamo Hina.
Studio in Europa, vivo in
Europa, mi sento europea.
Mio padre vive in Europa, io
indosso i jeans: sono il suo disonore.
Mio padre vive in Europa, ho
un ragazzo cattolico: sono la sua vergogna.
Mio padre vive in Europa,
convivo con il mio fidanzato italiano: ferisco
il suo orgoglio.
Ciao mi chiamo Hina: non sono
più un vanto.
Ciao, mi chiamo Hina: nulla
di me è restato se non qualche povero resto
avvolto nella plastica e sepolto in giardino.
*Cristina
Ricci,
quarantun anni,
abita a Spotorno,
ha
pubblicato il
suo primo
romanzo (La
montagna d’acqua
– ed. Il Filo,
Roma),
un altro
recentemente
finito e tanta
voglia di
scrivere.
A questo
“scarno”
curriculum si
può aggiungere
la
collaborazione
con il blog
dell’Udi
Savonese per il
quale Cristina
Ricci ha scritto
alcuni pezzi
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