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Nel 1972 la candidatura di  Pietro Valpreda e la costruzione del Pdup

QUARANT'ANNI FA:

RADIAZIONE DEL “MANIFESTO” DAL PCI

   di Franco Astengo

Quarant'anni fa, il 24-25 Novembre 1969, in conclusione di un ampio e complesso dibattito in corso ormai da molti mesi, il Comitato Centrale del PCI votava l'esclusione dal partito degli esponenti del gruppo che aveva dato vita alla rivista “Il Manifesto”: oggi il quotidiano che  ancora reca quell'insegna ha dedicato un inserto speciale alla ricorrenza, ricco di molti ed autorevoli punti di vista.

Purtuttavia mi è parso il caso di tentare una sintesi delle posizioni di allora per cercare di fornire un contributo di assoluta sintesi ad un dibattito su quelle vicende che, oggi nel momento in cui la sinistra comunista in Italia non opera più attivamente da tempo (almeno dal seminario di Arco, dell'autunno 1990) almeno in forma collettiva, potrebbe essere utilmente ripreso, almeno sul piano storiografico.

Il “Manifesto” nacque come un'iniziativa di frontiera: un tentativo di mettere in relazione la tradizione originale , in allora ancora vitale, del comunismo italiano con le esperienze e le culture del '68, che ebbero anch'esse, e non a caso, proprio in Italia una durata maggiore e coinvolsero, oltre a giovani e studenti, operai, intellettuali, pezzi di sindacato e di mondo cattolico.

Il tentativo è quello di mettere in evidenza una storia controfattuale, una potenzialità che pure esisteva nella sinistra italiana di anticipare e di dare carattere offensivo a quel radicale rinnovamento che i tempi richiedevano e che poi, invece, le è stato imposto dalla sconfitta, ed è avvenuta nel segno dell'abiura.

Il primo passo di ogni storia è fissare una periodizzazione: in questo caso è necessari risalire alle vicende della sinistra comunista negli anni'60.

In quella fase  si presentarono, per la prima volta, i problemi della crisi della rivoluzione d'Ottobre e della ristrutturazione della società occidentale.

Il Partito Comunista vi fu attraversato e vi si impegnò dimostrando grande vitalità.

Fu in quel periodo che, sia pure in forma minoritaria ma per lungo tempo non ghettizzata, si formarono le idee fondative del “Manifesto” e si avviarono anche esperienze pratiche che avevano inciso nel grande corpo del partito e nel movimento di massa.

Cercando di riassumere vanno posti in evidenza, sul piano delle idee, almeno tra filoni di ricerca.

Il primo riguardava una riflessione sulla rivoluzione d'Ottobre e sul suo approdo, niente affatto liquidatoria ma già consapevole della crisi di un modello di socialismo, come struttura sociale e non solo come istituzioni politiche, scettica sulle sue capacità di autoriforma (a differenza di Amendola e dello stesso Togliatti) e che, dunque, metteva l'accento sulla necessità di di riportare all'ordine del giorno il tema della rivoluzione occidentale nella sua radicale originalità e non come semplice sviluppo della “via italiana al socialismo”, né come incontro a mezza strada con la socialdemocrazia, in cui si vedeva lo stesso limite di economicismo  e di statalismo, con una critica di fondo al “socialismo” produttivista e statalista.

Con l'espressione della “maturità del comunismo” non indicavamo affatto l'imminenza di una rottura rivoluzionaria, tanto meno nella forma classica di una conquista violenta del potere statale: indicavamo, al contrario, un processo di transizione sociale e culturale di lunga durata, il cui orizzonte fosse ancor più radicalmente alternativo e liberatorio del passato: critica dello sviluppo quantitativo, del consumo e del lavoro alienato, della democrazia puramente rappresentativa e dello stato come apparato separato, della neutralità della scienza e della tecnica, della scuola come trasmissione del sapere e macchina di costruzione del consenso.

Il secondo punto di dibattito riguardava una riflessione sul neocapitalismo, che si vedeva come un processo impetuoso ed irreversibile di cui ormai anche l'Italia era partecipe ma di cui si vedevano criticamente gli aspetti di alienazione e di imbarbarimento, il rischio di integrazione subalterna del movimento operaio, la necessità di contrapporgli un diverso modello di sviluppo alternativo fondato su contenuti più radicalmente liberatori, su nuove alleanze politiche e sociali (i cattolici, i nuovi strati intellettuali, la nuova classe operaia).

Insomma un rapporto meno strumentale e più coerente, come allora si diceva, tra “riforme e rivoluzione”, tra rivendicazioni immediate e un programma alternativo di governo.

Infine, e conseguentemente, una riflessione sulla forma organizzativa tradizionale del movimento comunista e operaio (graduale superamento delle pratiche ormai anchilosate del centralismo democratico e del sindacato come cinghia di trasmissione) e sulle forme di lotta (contrattazione articolata e permanente,partecipazione democratica nella gestione del potere locale).

Questi punti di discussione non solo coinvolsero l'insieme del partito, ma produssero anche alcune innovazioni, come ad esempio l'autonomia del sindacato o il rapporto culturale con le nuove correnti del pensiero moderno, marxista eterodosso o non marxista, che in parte sopravvissero anche quando, dopo l'XI congresso (1966) la sinistra comunista fu battuta, si ruppe ed il gruppo da cui sarebbe nato il “Manifesto” fu emarginato e disperso.

Si aprì, in questo modo, una contraddizione profonda tra il partito che aveva intrapreso un'altra strada e l'appuntamento storico che il '68 aveva proposto con forza.

La decisione di far uscire la rivista fu il tentativo, ben visibile per noi che stavamo in periferia completamente scollegati e con il solo patrimonio delle idee accumulate nel corso di quel dibattito, di rompere questa contraddizione.

C'è da credere, ancora a questo punto, a distanza di tanti anni, a quanto sostengono le compagne ed i compagni che diedero vita a quel tentativo: non si perseguì l'obiettivo di una rottura, neppure di una frazione organizzata.

Si pensò a praticare una riforma del partito che mettesse fine al “rinnovamento nella continuità”, nella convinzione che questa fosse l'urgenza: la radiazione proiettò il concreto delle cose in un'altra dimensione, quella organizzativa sia sul piano editoriale (la rivista, il quotidiano), quella più propriamente politica (la presentazione alle elezioni del 1972 con la candidatura di Valpreda, la costruzione del PdUP per il Comunismo), ma non è questa la sede per affrontare quei passaggi successivi.

L'idea di partenza, nel tirar giù questo breve testo, era semplicemente quella di favorire una riflessione storica sulla vicenda del “Manifesto” nell'idea che potrebbe aiutare anche coloro i quali, oggi, tentano di misurarsi con la realtà di una sinistra italiana mai così disastrata.

Savona, 24 Novembre 2009                                                        Franco Astengo