D’improvviso
un bruciore lancinante alla schiena. Avvertii
una presenza silenziosa. Uno spirito indomito,
possente. Un brivido mi scosse da capo a piedi
facendomi rizzare i capelli sulla nuca. Il sesto
senso mi disse che ero preda. Mi voltai con
circospezione e mi trovai davanti quei verdi
fanali.
Le vibrisse fremevano
eccitate, e il labbro appena sollevato sembrava
abbozzare un sorriso “Sei in mio potere”
sembrava dire.
Ci guardammo negli occhi per
un attimo eterno.
Lentamente alzò un poco il
capo, come se volesse osservare il cielo, poi le
sue fauci si spalancarono e il ruggito fece
vibrare l’aria e le mie ossa che, all’epoca, non
definivo ancora stanche.
Mostrandomi le zanne con le
quali avrebbe dilaniato le mie carni mi investì
una tanfata d’aria tiepida e pestilenziale.
Terminata la dimostrazione
della sua potenza scrollò poderosamente la
criniera, si voltò e riprese il suo cammino
sazio, per il momento, di aver mandato il
messaggio “Sei nel mio territorio; ti ho
fiutato. Tu sarai il prossimo”.
Ecco, questo fu il mio primo
incontro con il mangiatore d’uomini che
imperversava terrorizzando quel tratto di savana
che gli indigeni identificavano con il
territorio della veggente Umlino.
Colto dai conati, ancora
tremante, mi affidai al tronco dell’acacia e
capii. Mi resi conto, per la prima volta, che
esistevano cacciatori e cacciatori. Esistevano i
collezionisti, quelli a cui bastava esibire un
trofeo, cacciatori disposti a ingaggiare una
lotta impari con l’animale, pronti ad uccidere
anche con l’inganno, ed esisteva chi cacciava
per sopravvivere.
Lo capii subito, sotto
l’acacia. Lo capii cercando di placare il
bruciore del vomito che mi torturava la gola.
Ero stato sfidato, invitato
al combattimento. Potevo scegliere: lottare o
morire. Fu lì, in quel momento, sotto i rami
spinosi che divenni un cacciatore. Divenni
cacciatore per non essere preda.
La preda è divenuta parte di
me, pensiero ossessivo.
Turba i miei sonni, si
impossessa dei giorni.
Da quel giorno sono trascorsi
anni. Anni passati nell’attesa e nell’ansia di
ritrovarlo.
La preda è divenuta parte di
me, pensiero ossessivo.
Turba i miei sonni, si
impossessa dei giorni.
Anni passati a seguire
tracce, impronte.
Anni trascorsi correndo come
un pazzo di qua o di là esaminando i resti di
chi, meno fortunato di me, era rimasto preda.
Oh, ci siamo amati molto io e
il mio leone.
Entrambi sappiamo di essere
l’uno la preda dell’altro.
Entrambi consapevoli di
essere l’uno la ragione di vita dell’altro.
Ci rispettiamo consci del
caro prezzo che ad entrambi costa continuare la lotta. Spesso ci
osserviamo da lontano.
Più volte l’ho inquadrato nel
mirino.
L’ho inquadrato appisolato
dopo un lauto banchetto.
L’ho inquadrato quando era
distratto e fiutava l’odore della femmina.
L’ho messo a fuoco mentre
giocava con i nuovi nati, ma ucciderlo a
tradimento no, non andavo cercando un trofeo.
Così gli anni sono passati,
trascorsi.
La preda è divenuta parte di
me, pensiero ossessivo.
Turba i miei sonni, si
impossessa dei giorni.
Anno dopo anno sono tornato
qui; non è solo il mal d’Africa che mi lega a
questi luoghi.
Non il deserto infinito.
Non la savana con suo verde
smeraldo e il suo cielo azzurro terso.
È lui: è il mio zahir.
E’ la sfida con la morte per
la vita.
È l’assurda volontà di non
lasciare nulla di incompiuto, nulla al destino.
Ho sentito spesso la sua
presenza. Il ruggito mi attraversava il cervello
mentre deliravo colto dalle febbri malariche.
Il ruggito mi teneva
compagnia, mi scuoteva e io ero consapevole che,
in qualche modo, ricambiava il favore di quelle
regole d’onore non scritte.
La preda è divenuta parte di
me, pensiero ossessivo.
Turba i miei sonni, si
impossessa dei giorni.
I miei capelli sono ingrigiti
tanto quanto il suo manto che diventa di giorno
in giorno sempre più spelacchiato.
Il suo ruggito non è più
possente come una volta, o forse è il mio udito
che si è affievolito.
Così, dopo tanti anni eccomi
ancora qui, a vagare nella savana. Tutto sembra
immutato, se mi guardo dentro invece, nulla è
più come prima.
La mia vita è trascorsa,
passata con un unico chiodo fisso: vincere la
sfida del cacciatore di uomini.
Istante dopo istante sempre
lo stesso pensiero, un’unica ossessione.
Oggi sono vecchio, stanco.
L’afa mi taglia il fiato.
Sento la camicia bagnata che
aderisce al mio corpo come una seconda pelle e
ogni respiro è una fatica.
Mi aggiro incauto, solitario
perché ormai lo so che questo sarà il mio ultimo
viaggio. Non ce ne sarà un altro; non più.
Il mangiatore d’uomini è lì,
nascosto da qualche parte. Ormai ho imparato
anch’io a fiutarlo. E infatti lo scorgo,
acquattato a pochi metri da me.
Le pupille scintillano in
mezzo all’erba alta. Alzo il fucile e miro. La
croce proprio in mezzo agli occhi. Basterebbe
una leggera pressione dell’indice e tutto
sarebbe finito.
Il cacciatore avrebbe
finalmente vinto.
Io avrei vinto la lotta
ingaggiata tanto tempo fa.
Alzo il fucile e miro.
Il cannocchiale restituisce
l’immagine nitida. Quello sguardo che
superficialmente sembrava acceso è in realtà uno
sguardo opaco, quasi privo di volontà.
Le mosche svolazzano
pigramente sul muso e si nutrono di muco e
sangue rappreso. La criniera non è più folta
come la ricordavo e le spalle spuntano da un
manto tatuato dai ricordi di troppe battaglie
vinte.
Mi chiedo cosa vedrà lui in
quest’uomo avanti negli anni che cammina lento e
respira a fatica.
La croce proprio in mezzo
agli occhi. Basterebbe una leggera pressione
dell’indice e tutto sarebbe finito.
Abbasso il fucile. Mi
avvicino, il mio passo malfermo non lo spaventa.
Sembra, anzi, aver capito. Scuote il capo, la
criniera oscilla quasi fosse un saluto.
Scuote il capo, la criniera
oscilla, come la prima volta che ci incontrammo.
Ci guardiamo negli occhi, si
riaccende una vecchia scintilla.
La fiamma che ardeva una
volta sembra voler riprendere ma non incute più
timore.
Siamo ormai troppo stanti e
vecchi per poterci illudere ancora.
Estraggo la borraccia, il
whisky mi brucia la gola riarsa e calma i miei
tremori.
Il leone
si accascia al suolo.
Mi siedo accanto a lui, lo
accarezzo pigramente.
Il suo torace vibra e un
nuovo rumore riempie l’aria.
Ascolto il suo saluto, le sue
fusa.
Entrambi siamo consapevoli di
assistere al nostro ultimo tramonto.
La nostra battaglia è finita.
Nella nostra esistenza
l’unica a risultare vincente è stata la vita.
*Cristina
Ricci,
quarantun anni,
abita a Spotorno,
ha
pubblicato il
suo primo
romanzo (La
montagna d’acqua
– ed. Il Filo,
Roma),
un altro
recentemente
finito e tanta
voglia di
scrivere.
A questo
“scarno”
curriculum si
può aggiungere
la
collaborazione
con il blog
dell’Udi
Savonese per il
quale Cristina
Ricci ha scritto
alcuni pezzi
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