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Zahir

I racconti di Cristina Ricci*



Non sono mai andato a caccia; non fino a oggi.

Oggi? Forse meglio dire non fino a ieri.

La preda è divenuta parte di me, pensiero ossessivo.

Turba i miei sonni, si impossessa dei giorni.

Ho solo sentito parlare delle avventure di Achab nei mari del nord, non conosco la storia ma certo la mai vita potrebbe essere simile alla sua.

Ho incontrato il leone nella savana tanto tempo fa.

 D’improvviso un bruciore lancinante alla schiena. Avvertii una presenza silenziosa. Uno spirito indomito, possente. Un brivido mi scosse da capo a piedi facendomi rizzare i capelli sulla nuca. Il sesto senso mi disse che ero preda. Mi voltai con circospezione e mi trovai davanti quei verdi fanali.

Le vibrisse fremevano eccitate, e il labbro appena sollevato sembrava abbozzare un sorriso “Sei in mio potere” sembrava dire.

Ci guardammo negli occhi per un attimo eterno.

Lentamente alzò un poco il capo, come se volesse osservare il cielo, poi le sue fauci si spalancarono e il ruggito fece vibrare l’aria e le mie ossa che, all’epoca, non definivo ancora stanche.

Mostrandomi le zanne con le quali avrebbe dilaniato le mie carni mi investì una tanfata d’aria tiepida e pestilenziale.

Terminata la dimostrazione della sua potenza scrollò poderosamente la criniera, si voltò e riprese il suo cammino sazio, per il momento, di aver mandato il messaggio “Sei nel mio territorio; ti ho fiutato. Tu sarai il prossimo”.

Ecco, questo fu il mio primo incontro con il mangiatore d’uomini che imperversava terrorizzando quel tratto di savana che gli indigeni identificavano con il territorio della veggente Umlino.

Colto dai conati, ancora tremante, mi affidai al tronco dell’acacia e capii. Mi resi conto, per la prima volta, che esistevano cacciatori e cacciatori. Esistevano i collezionisti, quelli a cui bastava esibire un trofeo, cacciatori disposti a ingaggiare una lotta impari con l’animale, pronti ad uccidere anche con l’inganno, ed esisteva chi cacciava per sopravvivere.

Lo capii subito, sotto l’acacia. Lo capii cercando di placare il bruciore del vomito che mi torturava la gola.

Ero stato sfidato, invitato al combattimento. Potevo scegliere: lottare o morire. Fu lì, in quel momento, sotto i rami spinosi che divenni un cacciatore. Divenni cacciatore per non essere preda.

La preda è divenuta parte di me, pensiero ossessivo.

Turba i miei sonni, si impossessa dei giorni.

Da quel giorno sono trascorsi anni. Anni passati nell’attesa e nell’ansia di ritrovarlo.

La preda è divenuta parte di me, pensiero ossessivo.

Turba i miei sonni, si impossessa dei giorni.

Anni passati a seguire tracce, impronte.

Anni trascorsi correndo come un pazzo di qua o di là esaminando i resti di chi, meno fortunato di me, era rimasto preda.

Oh, ci siamo amati molto io e il mio leone.

Entrambi sappiamo di essere l’uno la preda dell’altro.

Entrambi consapevoli di essere l’uno la ragione di vita dell’altro.

Ci rispettiamo consci del caro prezzo che ad entrambi costa continuare la lotta. Spesso ci osserviamo da lontano.

Più volte l’ho inquadrato nel mirino.

L’ho inquadrato appisolato dopo un lauto banchetto.

L’ho inquadrato quando era distratto e fiutava l’odore della femmina.

L’ho messo a fuoco mentre giocava con i nuovi nati, ma ucciderlo a tradimento no, non andavo cercando un trofeo.

Così gli anni sono passati, trascorsi.

La preda è divenuta parte di me, pensiero ossessivo.

Turba i miei sonni, si impossessa dei giorni.

Anno dopo anno sono tornato qui; non è solo il mal d’Africa che mi lega a questi luoghi.

Non il deserto infinito.

Non la savana con suo verde smeraldo e il suo cielo azzurro terso.

È lui: è il mio zahir.

E’ la sfida con la morte per la vita.

È l’assurda volontà di non lasciare nulla di incompiuto, nulla al destino.

Ho sentito spesso la sua presenza. Il ruggito mi attraversava il cervello mentre deliravo colto dalle febbri malariche.

Il ruggito mi teneva compagnia, mi scuoteva e io ero consapevole che, in qualche modo, ricambiava il favore di quelle regole d’onore non scritte.

La preda è divenuta parte di me, pensiero ossessivo.

Turba i miei sonni, si impossessa dei giorni.

I miei capelli sono ingrigiti tanto quanto il suo manto che diventa di giorno in giorno sempre più spelacchiato.

Il suo ruggito non è più possente come una volta, o forse è il mio udito che si è affievolito.

Così, dopo tanti anni eccomi ancora qui, a vagare nella savana. Tutto sembra immutato, se mi guardo dentro invece, nulla è più come prima.

La mia vita è trascorsa, passata con un unico chiodo fisso: vincere la sfida del cacciatore di uomini.

Istante dopo istante sempre lo stesso pensiero, un’unica ossessione.

Oggi sono vecchio, stanco.

L’afa mi taglia il fiato.

Sento la camicia bagnata che aderisce al mio corpo come una seconda pelle e ogni respiro è una fatica.

Mi aggiro incauto, solitario perché ormai lo so che questo sarà il mio ultimo viaggio. Non ce ne sarà un altro; non più.

Il mangiatore d’uomini è lì, nascosto da qualche parte. Ormai ho imparato anch’io a fiutarlo. E infatti lo scorgo, acquattato a pochi metri da me.

Le pupille scintillano in mezzo all’erba alta. Alzo il fucile e miro. La croce proprio in mezzo agli occhi. Basterebbe una leggera pressione dell’indice e tutto sarebbe finito.

Il cacciatore avrebbe finalmente vinto.

Io avrei vinto la lotta ingaggiata tanto tempo fa.

Alzo il fucile e miro.

Il cannocchiale restituisce l’immagine nitida. Quello sguardo che superficialmente sembrava acceso è in realtà uno sguardo opaco, quasi privo di volontà.

Le mosche svolazzano pigramente sul muso e si nutrono di muco e sangue rappreso. La criniera non è più folta come la ricordavo e le spalle spuntano da un manto tatuato dai ricordi di troppe battaglie vinte.

Mi chiedo cosa vedrà lui in quest’uomo avanti negli anni che cammina lento e respira a fatica.

La croce proprio in mezzo agli occhi. Basterebbe una leggera pressione dell’indice e tutto sarebbe finito.

Abbasso il fucile. Mi avvicino, il mio passo malfermo non lo spaventa. Sembra, anzi, aver capito. Scuote il capo, la criniera oscilla quasi fosse un saluto.

Scuote il capo, la criniera oscilla, come la prima volta che ci incontrammo.

Ci guardiamo negli occhi, si riaccende una vecchia scintilla.

La fiamma che ardeva una volta sembra voler riprendere ma non incute più timore.

Siamo ormai troppo stanti e vecchi per poterci illudere ancora.

Estraggo la borraccia, il whisky mi brucia la gola riarsa e calma i miei tremori.

Il leone si accascia al suolo.

Mi siedo accanto a lui, lo accarezzo pigramente.

Il suo torace vibra e un nuovo rumore riempie l’aria.

Ascolto il suo saluto, le sue fusa.

Entrambi siamo consapevoli di assistere al nostro ultimo tramonto.

La nostra battaglia è finita.

Nella nostra esistenza l’unica a risultare vincente è stata la vita.

 

 *Cristina Ricci, quarantun anni, abita a Spotorno,  ha  pubblicato il suo primo romanzo (La montagna d’acqua – ed. Il Filo, Roma), un altro recentemente finito e tanta voglia di scrivere.

A questo “scarno” curriculum si può aggiungere la collaborazione con il blog dell’Udi Savonese per il quale Cristina Ricci ha scritto alcuni pezzi