VISTO DA SINISTRA: A 20 ANNI
DALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO
di
Franco Astengo
![]() |
In questi giorni si sono
sprecate le rievocazioni, giornalistiche e
televisive, riguardanti le convulse giornate
della caduta del muro di
Berlino, punto di avvio del
dissolvimento dei regimi dell'Est
europeo e del superamento della
divisione del mondo in blocchi, che aveva
caratterizzato il secondo dopoguerra.
Non entriamo nel merito
delle tantissime cose dette e scritte, anche
perché sarebbe impossibile farlo. Ricordiamo
soltanto, ad uso dell'economia del nostro
discorso, come in quei giorni si avviò anche il
processo di scioglimento del
Partito Comunista Italiano,
avvenimento al quale hanno dedicato, proprio in
questo periodo, lavori di ricostruzione storica
personaggi che furono importanti dirigenti di
quel partito, da
Giuseppe Chiarante a Lucio Magri (il
quale, in verità, ha compiuto una operazione
complessiva di ricostruzione dell'intera storia
del Partito). |
Siamo stati però
particolarmente colpiti, proprio oggi, da una
affermazione svolta in suo articolo da
Rossana Rossanda con la quale si fa
notare come il “Manifesto”,
che si definisce ancor oggi “quotidiano
comunista” abbia “elegantemente glissato”
(citiamo testualmente l'autrice) la ricorrenza.
Eppure, proprio il “Manifesto”,
o meglio il suo gruppo politico originario
radiato dal
PCI nel 1969, era stato il primo,
proprio all'indomani dell'invasione della
Cecoslovacchia nel 1968, a denunciare
come nella sinistra si sarebbe dovuto chiudere
da un pezzo con i socialismi cosiddetti “reali”
( fu proprio un editoriale, uscito nel terzo
numero dell'allora rivista mensile “Praga
è sola”, a rappresentare il
“casus belli” per il quale i dirigenti del
Manifesto furono, come ricordavamo
poc’anzi esclusi dal
PCI).
Allora, abbiamo fatto
ricorso al bagaglio della memoria per cercare di
far riemergere i temi di quello che era un
dissenso “da sinistra” riguardante la realtà dei
paesi del socialismo reale; i contatti che, su
quella base, si erano tenuti con i “dissidenti”
che operavano al di là del muro, oppure erano
riparati in Occidente e con quegli intellettuali
che, a livello europeo, portavano avanti
analoghe riflessioni (basterà citare
Louis Althusser e Charles Bettelheim).
Da notare come nessuno,
tra le personalità provenienti dall'Est in
quella fase, ha avuto poi un ruolo dirigente
nella fase successiva al crollo dei diversi
regimi.
Ovviamente la storia del
contrasto “da sinistra”, in
Italia e in Europa, alla realtà del
socialismo reale è molto complessa: parte dal
giudizio sulla rottura
Stalin – Tito nel 1948, al giudizio
sulle prime lotte operaie in
Polonia e in Germania Est nel 1953,
alla repressione della rivolta di
Budapest nel 1956, giù, giù, fino
alla già ricordata invasione della
Cecoslovacchia nel 1968 che diede
fine al tentativo della
“primavera di Praga” e del
“socialismo dal volto umano”.
Non è nostra intenzione
dare conto di tutto ciò ma, più semplicemente,
cercare di ricostruire un quadro d'epoca,
individuare alcune delle discriminanti che
alimentavano quel dibattito e tenevano assieme
il filo rosso del dialogo tra politici e
intellettuali di diversa estrazione.
Il nostro riferimento,
allora, riguarda, un convegno (citato anche da
Rossanda nell'articolo apparso sulle
colonne del
“Manifesto”) svoltosi a
Venezia, nell'autunno del 1978, su
iniziativa del
Manifesto-PdUP,
dal titolo
“Potere e Opposizione nelle società post -
rivoluzionarie”con la
partecipazione appunto di molti intellettuali
europei di alto livello (alcuni sono già stati
citati) di esponenti del dissenso dell'Est
e di politici italiani (il
PCI non ritenne di dover partecipare
ufficialmente e, in quella sede, presero la
parola a titolo personale
Bruno Trentin, Lucio Lombardo
Radice e Rosario Villari).
Ebbene, su quali basi si
espresse sostanzialmente quel dibattito.
Proviamo a sintetizzare,
correndo il rischio della semplificazione.
Nella sostanza si forniva
il giudizio che la linea del
“vogliamo il socialismo nella democrazia”
, che aveva rappresentato fino a quel momento lo
slogan più usato in Occidente, non reggesse più,
soprattutto di fronte ad una prova come quella
che si annunciava ormai, come l'avvio di un vero
e proprio processo di transizione.
Il problema della
costruzione del socialismo come forma superiore
di democrazia risultava, in quel momento,
irrisolto: e non soltanto per l'arretratezza di
certe società, o il peso del loro passato, ma
per dati strutturali e permamenti.
L'interrogativo che ci si
poneva, a sinistra, in quel momento era questo:
40 anni di gestione socialdemocratica in paesi
occidentali non era riuscita a intaccare le basi
del sistema; quanto lo sviluppo economico,la
stabilità politica e la sicurezza militare non
erano bastate all'URSS
per liberarsi delle proprie istituzioni
autoritarie.
La ragione di tutto ciò
era individuata dal fatto di trovarci, in
entrambi i casi, di fronte alla restaurazione di
una società di classe, ed è in quello andava
trovata la radice dell'autoritarismo.
La domanda, però, per quel
che riguardava le società che erano definite,
nel titolo del convegno “post-
rivoluzionarie”, era quella del
come mai questo dominio di classe non potesse
permettersi il lusso quanto meno di un
pluralismo di facciata e avesse bisogno di un
soffocante apparato repressivo e di una
ideologia autoritaria.
La risposta stava
nell'individuazione di un
“circolo vizioso”: non si poteva
reintrodurre in quello che sostanzialmente era
un capitalismo di stato il pluralismo politico,
senza andare a fondo nel restaurare mercato e
profitto come meccanismi repressivi e misura
dell'efficienza; e non si poteva reintrodurre
tali meccanismi senza una conflittualità sociale
e politica tale da dover essere padroneggiata
con strumenti autoritari.
Si andavano così
accumulando tensioni, che poi
avremmo visto sfociare appunto nell'89,
allorquando giunse al tetto l'ipotesi di
acquisire nuova
stabilità con l'impetuoso sviluppo del
consumismo, scontrandosi fatalmente con la
stagnazione produttiva in atto, a quel tempo, in
quei paesi.
Dal punto di vista della
sinistra europea non si può non far rilevare
l'emergere dal dibattito di quel convegno,del
come non si fosse compiuto alcuno sforzo serio
per alimentare e organizzare in un progetto
consapevole una proposta alternativa;
soprattutto non si era fatto, fino ad allora (e
meno che mai successivamente) alcun tentativo
per tradurre proprio gli elementi più avanzati
della riflessione teorica in allora portata
avanti da più parti, in lotta per modificazioni
reali dell'economia, dello Stato, delle forme di
organizzazione: dalla critica alla neutralità
della scienza, alla lotta per il cambiamento
dell'organizzazione del lavoro, all'adozione di
forme di democrazia diretta non poste in
semplice convivenza con le istituzioni
tradizionali, allo smantellamento del dato di
separatezza della scuola dalla società,
socializzando così almeno una parte dei ruoli
intellettuali.
Dall'Occidente, secondo il
dibattito emerso in quel Convegno, in saldatura
con l'opposizione presente in quei paesi andava,
ancora, compiuta una scelta
di lotta politica concreta da condurre
nei confronti del blocco sovietico: lotta
politica perché non aveva più senso ipotizzare
una autoriforma di quel sistema.
Non era sufficiente, però,
mettersi sul terreno degli appelli rivoluzionari
ma individuare, con molta serietà, il ventaglio
degli interlocutori, degli alleati, pensando
agli obiettivi intermedi su cui poteva procedere
una crisi delle società dell'Est,
di cui si intravedevano comunque i segnali.
Infine, appariva
necessario, nel momento in cui si portava così a
fondo la critica al “socialismo
reale” non rinunciare a quanto
appariva di più vitale nel marxismo: la
persuasione, cioè, che la società si potesse
cambiare, che andava cambiata a partire dalle
sue contraddizioni reali, con la modificazione
delle sue strutture e non solo come una
testimonianza morale.
Queste valutazioni
datavano 1978: quasi in contemporanea con lo “strappo”
(coraggioso ma insufficiente) compiuto da
Enrico Berlinguer.
Nei 10 anni successivi, da
lì alla caduta del Muro, in Occidente non si
realizzò un livello adeguato di riflessione
politica, al punto che, in quel Novembre 1989 fu
scelto, da parte della maggioranza dei dirigenti
del
PCI, di abdicare totalmente; di stare
dentro a quella che appariva, secondo la
definizione di
Francis Fukuyama, la “fine
della storia”, per non finire
travolti da quelle macerie.
In realtà (cito ancora
Rossanda) ci si era collocati dalla
parte, non soltanto dei distruttori di quella
che era definita l'utopia comunista, ma
addirittura di quanti miravano alla morte dello
stesso compromesso socialdemocratico, nella sua
veste keynesiana.
Si andava così, e si è
arrivati, ad una americanizzazione fondata sulla
libertà politica e sulla schiavitù sociale:
questo l'esito dell'iperliberismo che ha
guidato, in teoria e in pratica, l'andamento
politico di questi vent'anni a livello
internazionale, intrecciato con l'esportazione
della guerra su larga
scala.
La voce della critica “da
sinistra” al socialismo reale era
rimasta negletta e dimenticata.
Oggi abbiamo pensato di
riscoprirla.
Qualcuno pensa
ancora che, su queste basi e con questa
storia, non ci sia più spazio a sinistra?
Savona, 12
Novembre 2009
Franco Astengo
|