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I racconti di Cristina Ricci*

Due Muggiti


Eva si siede sul letto. Il pagliericcio è alto e lei ha difficoltà a salire ora che quel ventre è così gonfio. Per la verità, ora che la gravidanza è giunta al termine, tutto è sforzo per lei; persino il dover camminare. L’andatura non è più quella di sempre, posa un piede avanti all’altro, ma il movimento che ne viene fuori assomiglia ogni giorno di più all’andamento delle oche che goffamente marciano in cortile.

Prima di sedersi ha avuto un pensiero per quel copriletto di piquè. Le costa parecchia fatica lavarlo ogni volta e altrettanta attenzione quando lo stira per eliminare tutte le pieghe così l’ha scostato e ripiegato con cura.

 Tenta di mettersi al centro del letto.

Questa sera la schiena è proprio a pezzi, ogni piccolo movimento genera dolore.

Facendosi coraggio, cerca di spostarsi facendo leva sulle braccia. Poi, come le grasse foche dell’artico, di cui per altro non conosce l’esistenza, può rotolare sul fianco e portare su anche le gambe.

Finalmente sdraiata.

Ha il respiro corto, quasi ansima.

La schiena pulsa come non mai e mentre cerca sollievo in una nuova posizione spera che tutto abbia presto una fine.

Prima di addormentarsi i suoi occhi lucidi si posano ancora una volta su quel cesto dove tutto è pronto per il suo bambino.

A differenza degli altri giorni il rosario resta sul comodino. Eva si è addormentata. Troppo stanca per recitare le preghiere ma non per rivolgere quel pensiero alla Madonna “Madre di Dio, fa che tutto vada bene. Che il bambino sia sano, forte e robusto”.

Da nove mesi a questa parte Eva conclude così le sue preghiere e, qualche volta, aggiunge anche “fa che sia maschio” ma non sempre. Quello è un desiderio del marito e della suocera: lo rivolgano loro al cielo.

È felice della sua gravidanza. La vive come una benedizione. Il suo bambino poi nascerà a dicembre; proprio come Gesù.

Quando la neve non era ancora scesa e lei poteva incontrare con facilità le comari delle cascine vicine quasi tutte, pur raccomandandole di tenere ben calda la casa, la rassicuravano perché il lavoro in campagna era inesistente in inverno, lei avrebbe avuto più tempo da dedicare al piccolo e al riposo.

Con il passare del tempo, scandito non tanto dalla pendola quando dal lievitare del girovita, la paura aveva iniziato a crescere in lei.

Paura dell’ignoto. Del non sapere cosa sarà; e non basta più per rassicurarla il pensiero che lei è stata creata per essere madre, e come ci sono riuscite tutte, ci riuscirà anche lei.

Ancora una volta, quel pomeriggio, mentre ricamava l’ultimo camicino vicino alla stufa, la suocera aveva cercato di rassicurarla. “Non aver paura, tutto andrà bene. Ricordi la vacca in primavera? Due muggiti e via, il vitello era già in piedi a succhiare. Sarà così anche per te.” Si era fermata, quasi sospirando ripensando a quante volte aveva già ripetuto quella frase: “La levatrice ha detto che va tutto bene, che il bambino è ben girato e con la prossima luna nascerà. Non pensare ad altro altrimenti ti farai venire il latte rancido”.

Ma lei pensava. Pensava a quanto era stanca, a quanto dolesse la sua schiena e a come avrebbe voluto poter chiedere al dottore del paese se davvero era tutto era a posto ma disturbare il dottore per nulla non era immaginabile anche se quell’estate il raccolto era stato sufficientemente buono.

Così negli ultimi tempi al dolore si era aggiunta la paura e la preoccupazione per quel latte cattivo che si sarebbe fatta venire.

Maria dorme e la neve scende.

Soffice si posa e lentamente ricopre i sentieri già faticosamente spalati.

Anche il corpo di Maria, sotto le lenzuola, sembra celato. Il respiro si ode appena. Poi, quando il cielo incomincia a schiarirsi riprende coscienza.

Non è propriamente sveglia, i sensi sono già all’erta ma il cervello ancora non riesce a coordinare le idee.

Ha ancora sonno.

Cos’è quel dolore al ventre? Quel innaturale calore che scorre tra le cosce scivolando via?

Una fitta e poi un’altra.

Poi capisce d’un tratto. Allunga un braccio per svegliare il marito. “Il bambino!! Svelto corri a chiamare Rina”. Mentre lui infila i calzoni lei urla ancora “Svelto, fa presto” e intanto pensa a quella vecchia zitella che dovrà arrampicarsi su per i sentieri e spera che arrivi in tempo; che già non sia fuori ad assistere qualche altra donna.

Il marito esce di corsa, spinto più dall’adrenalina che scorre sempre più a ogni lamento che dalla fretta.

Appena varcata la soglia la tensione cresce anche in lui. Nevica; ha nevicato tutta la notte e ancora non ha smesso. Le caviglie sprofondano nella neve; impensabile usare il carro. Come portare l’aiuto di Rina?

Un altro urlo. Adesso corre, e se lo vedessi non potresti capire se lo spinge la fretta o la voglia di scappare via.

Mentre la suocera si affanna in cucina per scaldare l’acqua Maria è sola. Le acque si sono ormai rotte.

Il cielo si rischiara; la mattina avanza mentre la neve ancora non accenna a smettere. Le contrazioni si susseguono sempre più frequenti. Ormai si è alzata e cammina su e giù cercando di non pensare; e quando proprio non ci riesce si tormenta con quel monito “Ti verrà rancido”.

Le ore passano. Fuori è di nuovo buio. E’ spossata. Poco latte a colazione niente pranzo e…niente Rina.

Si lascia ricondurre in camera. Questa volta la sollevano per farla sdraiare.

Il dolore è ormai una parte di lei. Non sente più la quiete tra una contrazione e l’altra. Anche la paura si è insinuata nel suo essere. Un istinto primordiale suggerisce che le cose dovrebbero andare diversamente.

Urla. Ha la febbre, un velo di sudore imperla la fronte. La camicia da notte, ormai fradicia, aderisce al suo corpo e sembra ricoprirla come una seconda pelle.

La suocera l’assiste impotente. Da ore ha capito che quel parto non ha nulla di simile ai suoi e a quelli a cui ha assistito; qualcosa non va e lei è impotente. Forse il bambino è troppo grosso. Ansiosa guarda la finestra, la luce sempre più debole. La levatrice arriverà domani, quando non servirà più; tutto sarà ormai finito.

Maria urla.

Grida.

Poi la voce si affievolisce pian piano, svanendo assieme alle sue forze. Rimangono solo i lamenti. Ora che sa che il latte non ha più importanza si concede il lusso di pensare. I suoi ultimi timori sono per quel bambino che non stringerà mai. E mentre le ultime lacrime le solcano in viso capisce che quella vacca è stata ben più fortunata di lei.

  

 *Cristina Ricci, quarantun anni, abita a Spotorno,  ha  pubblicato il suo primo romanzo (La montagna d’acqua – ed. Il Filo, Roma), un altro recentemente finito e tanta voglia di scrivere.

A questo “scarno” curriculum si può aggiungere la collaborazione con il blog dell’Udi Savonese per il quale Cristina Ricci ha scritto alcuni pezzi