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FUOCO SUI CC

 

  Marco Giacinto Pellifroni

 


M. G. Pellifroni

All’interno del gran polverone che il caso Marrazzo ha sollevato vorrei qui spostare il fuoco dal suo protagonista agli esecutori del blitz, perpetrato sotto mentite spoglie da quattro carabinieri fuori servizio.

La vicenda non fa che sottolineare la metamorfosi che investe chiunque passi dallo status di semplice cittadino a quello di una figura che, secondo vari gradi, ascende nella scala del potere. Potere che si traduce, verso l’apice, nel godimento di privilegi inversamente proporzionali ai meriti, e verso la base nell’esercizio di piccole o grandi vessazioni nei confronti di coloro sui quali i “vigilantes” dovrebbero vigilare.

Questa categoria è enorme e in continua crescita, così come l’arroganza e la certezza, o almeno la sensazione, di impunità che informa ogni loro comportamento. Al già lungo elenco di inquisitori pubblici, il tam-tam della sicurezza, che ci assilla dall’11 settembre 2001, ha addirittura aggiunto quello delle ronde private, di cui davvero non si avvertiva la necessità.

Ma limitiamoci ai vigilantes pubblici, che spaziano dai vigili urbani ai poliziotti, dai carabinieri alle guardie di finanza ecc., in un variegato dispiegamento di divise multicolori. Ecco: le divise. Nell’atto stesso di indossarle un cittadino comune si sente investito di un grado superiore rispetto a tutti gli altri “in borghese” e comincia a guardare il mondo dall’alto in basso, soprattutto a causa del rispetto, spesso della deferenza, con cui tutti si rivolgono a lui in quanto espressione del pubblico potere. Da questo momento in poi, chi indossa la divisa tiene in mano la capacità, e non di rado l’arbitrio, di infliggere ai “laici” sanzioni di ogni genere, di grado via via più rovinoso per il presunto colpevole di  infrazioni ai codici civile o penale, il cui numero è peraltro in costante lievitazione.

Si innesca così un meccanismo psicologico che porta gli uomini in divisa a sentirsi una casta, sia pure in scala ridotta; il che li porta ad instaurare una sorta di solidarietà, spesso complicità, nei confronti di tutti coloro che indossano una divisa quale che sia. D’altronde, se sorgono conflitti che sfociano in un tribunale, le premesse sono sempre a loro vantaggio, anche grazie all’allargamento ai giudici stessi del sentimento di appartenenza alla classe inquisitoria, cosicché la parola di un vigilante gode di ben maggiore credibilità rispetto a quella di chi in quel momento recita la parte dell’accusato, magari di aver reagito verbalmente a provocazioni. Certo, il reato di oltraggio a pubblico ufficiale è stato depennato, dal codice, ma non dalla psicologia di chi è chiamato ad ascoltare testimonianze e a produrre sentenze in base a prove verbali anziché documentali, basandosi quindi su impressioni di colpevolezza, anziché su fatti comprovati: la sua Parola contro la tua. Una situazione spesso sfruttata da chi, forte della sua maggior credibilità, fornisce versioni sfalsate dei fatti per trarne vantaggio, sotto forma di risarcimento danni “morali”.

Nella trasmissione di Anno Zero sul caso Marrazzo le parole più incisive, e più prossime alla realtà, non sono uscite dalla bocca dei politici e giornalisti ivi convocati, bensì dal trans, che ha fornito uno spaccato molto credibile della realtà che si vive in certi ambienti. Parole confermate dai servizi video dai quali è emersa la prassi consolidata di un gioco delle parti, tra “guardie e ladri”, in cui alla fine la legalità evapora e vengono a instaurarsi tacite regole di convivenza (analoghe alle regole comportamentali tra cacciatori di immagini, agenzie fotografiche e case editoriali, tratteggiate da Fabrizio Corona). Così come è emerso che l’irruzione dei falsi CC nell’appartamento del trans aveva modalità ben poco dissimili da quelle applicate normalmente; per cui chi indossa una divisa tende mentalmente a indossarla anche fuori orario, nel bene o nel male, in una fuorviante confusione di ruoli.

A fare le spese in questo piccolo o grande gioco delle parti è il povero cittadino, al quale vengono estesi metodi e preconcetti in uso verso i delinquenti abituali, o perlomeno verso quanti vivono ai margini della legge, come, nel nostro caso, tutta la galassia della prostituzione, in qualunque forma attuata. Penso ad es. a quanti vengono “legalmente” fotografati mentre abbordano una prostituta, donna o trans che sia, per poi venire multati o, peggio, denunciati,  sconvolgendo magari per sempre la loro vita familiare.

Il caso Marrazzo si differenzia da altri, in quanto il sesso praticato era considerato dallo stesso Marrazzo immundus, tanto da portarlo al grave sconquasso psicofisico da lui stesso denunciato, alla vergogna, alle dimissioni, richieste anche dai suoi benpensanti compagni di partito. Eppure, l’unico sesso riconosciuto come “immondo” dalla nostra società è quello di pedofilia, in quanto macchiato di doppia tara: l’essere l’oggetto di abuso non consenziente e minorenne. Quanto al sesso con un trans, c’è poca differenza da quello omosessuale, ormai in larga parte accettato; o perlomeno molto più estesamente accettato rispetto a soli due o tre decenni fa: basti pensare a quanti, ormai senza imbarazzo, si dichiarano bi-sex . Nel trans cambia solo il trucco e l’abbigliamento; con l’attenuante, anche verso se stessi, di andare dopo tutto con una “donna”, pur  con qualche attributo in più. Certi trans, poi, sono così belli/e, come ad es. l’”esule” dell’intervista, che si fatica a non esserne attratti al pari di una donna vera. Insomma, la vicenda Marrazzo non sembra poi così sconvolgente come la si è voluta rappresentare; lo è semmai per lo squallore dell’ambiente e la davvero scarsa avvenenza delle sue frequentatrici. Ma l’attrazione sessuale, si sa, spesso ignora l’estetica.

Sono semmai le “forze dell’ordine” che hanno collezionato l’ennesima brutta figura, dal 1992  ai fatti del G8 di Genova del 2001 via via fino al recente pestaggio a morte di Stefano Cucchi, arrestato dai CC, consegnato alla polizia penitenziaria e poi “negato” alla sua famiglia fino alla consegna della salma. Anni costellati anche di atti di brutalità nei confronti di immigrati. E si ha l’impressione che i fatti che arrivano alla cronaca giornalistica o televisiva siano solo la punta dell’iceberg, vista la facilità con cui i malcapitati possono venire zittiti, ancor più se stranieri, a causa del loro stato di inferiorità, persino più infimo di quello di tutti noi cittadini “normali”.

C’è da sperare che questi ripetuti episodi di sopraffazione (l’ultimo sotto mentite spoglie, ma a quanto è emerso non così lontano dalla prassi reale), aprano le porte ad un futuro in cui chiunque venga giudicato in base agli atti compiuti e che nessuna divisa possa conferirgli l’immunità, ma goda della stessa presunzione di innocenza che solo formalmente vale oggi per tutti. Insomma che non si estenda lo spirito di Guantanamo e di Abu Grabi  ai patrii tribunali e penitenziari.

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                          1° novembre 2009