Settant’anni
e ancora faccio di tutto per allontanare
l’inevitabile “Game over”.
“Io non te ne darei più di sessantacinque” e
come dargli torto? Per tenere la pallina in
gioco il più a lungo possibile mi sono imposto
da anni un regime salutistico. Stop al fumo,
all’abituale whisky dopo cena e via libera ad
una dieta povera di grassi condita da quotidiane
passeggiate a passo veloce. La palestra quella
no, troppo difficile per il mio orgoglio
sopportare il confronto con giovani corpi.
Un’umiliazione intollerabile per il mio ego che
tuttavia si sottopone a faticose sedute
casalinghe con la panca ed i pesi che ho
sistemato in quel che una volta era lo studio.
Quelle che anni fa erano sembrate rinunce si
sono trasformate in abitudini di vita. I
risultati di quelle fatiche si sono ben presto
visti. Il grasso addominale si è sciolto pian
piano e oggi il mio fisico asciutto fa invidia
anche a chi è molto più giovane di me. Io invece
invidio la loro età, il tempo che hanno a
disposizione e che per me, nel bilancio della
vita, è soltanto un passivo.
È stata infatti, la mia,
una
scelta dettata non tanto dal buon senso quanto
dalla voglia di recuperare attimi, giorni e
magari addirittura anni dopo aver visto la
propria vita crollare al primo soffio proprio
come i castelli di carte che, da bambino,
costruivo per ingannare il tempo e la
solitudine.
La vita ha subito un brusco cambiamento il
giorno in cui lei se n’era andata. Poche parole
erano
bastate per farmi capire che, senza rendermene
conto, la donna amata fosse svanita sotto i miei
quotidiani sguardi fino a divenire un’estranea.
Proprio come i figli che giorno dopo giorno,
crescendo sotto i nostri occhi si erano
tramutati in giovani adulti scalzando dalla
mente persino il ricordo dei bambini che furono.
Sono sempre stato un uomo orgoglioso, questo lo
ammetto, ma non un uomo ostinato, fermo sempre e
comunque nelle sue posizioni.
Se dicessi di non aver sofferto dalla volontaria
assenza di Maia direi una bugia; ma lo farei
anche se ammettessi di aver patito per la sua
mancanza.
Così ho passato i primi mesi della mia nuova
vita da scapolo, single è per me un termine
privo di significato, dicevo, ho passato quei
mesi assorbito dall’incombenza di nuovi compiti,
un poco astrusi, come l’utilizzo di un
elettrodomestico di cui ben conoscevo la
meccanica ma di cui raramente avevo sperimentato
l’uso.
Ho passato i primi mesi della mia nuova vita da
scapolo assorbito dall’incombenza di nuovi
compiti e dalla riflessione di quanto Maia fosse
ormai divenuta un’abitudine nella mia esistenza
e non più una gioia.
Sono un uomo orgoglioso dicevo, ma non fermo
sempre e comunque nelle sue posizioni.
Posso dire di essere un uomo diverso da quello
che ero, un uomo migliore di quello che Maia ha
lasciato cinque anni fa, un uomo cambiato
perché, nonostante il mio orgoglio, ho ammesso
che, se Maia è andata via, anch’io per lei avevo
smesso di essere una gioia e mi ero trasformato
in qualcos’altro.
Nelle mie insonni notti questo è il tormento che
più mi assilla. Cosa ero diventato io per Maia?
Cosa, per spingerla lontano da me? Quando ho
smesso di essere gioia? Ci penso e ci ripenso,
notte dopo notte.
Ci penso e ci ripenso.
Notte dopo notte e ancora non capisco.
Mi pare di essere sempre stato me stesso, di
essere, addirittura, lo stesso di un tempo.
Di essermi attenuto ai miei compiti, di essere
stato un buon padre, di aver fatto tutto come
promesso… come promesso quella domenica dal
cielo sereno di tanti anni fa.
Eppure qualcosa mi devo essere perso se tu,
Maia, cinque anni fa, hai pronunciato quella
frase e sei andata via. Uscita.
Uscita dalla nostra casa.
Uscita, ma non dalla mia vita.
Ho ricercato le foto del nostro matrimonio.
Sono ormai stinte, sbiadite.
Sbiadite come ormai, devo ammetterlo nonostante
l’orgoglio, sono anch’io.
Stinto e sbiadito nonostante il mio invidiabile
fisico e le mie eccellenti analisi.
Stinto e sbiadito nonostante il tenue colore che
la voglia di recuperare questi cinque anni
passati stende sulla mia esistenza.
Stinto e sbiadito nonostante il tenue colore che
la voglia di vivere stende sulla mia esistenza.
Colore che si propaga sui miei pomeriggi al
circolo, sulle mie serate al dancing con nuove
amicizie femminili.
Colore che si accende un poco quando la mia
risata risuona ancora argentina.
Ho ricercato le foto del nostro matrimonio.
Speravo di trovare lì la risposta alle mie
notturne domande.
Ho trovato invece solo il riflesso di ciò che
eravamo. Ho visto due ragazzi. Due giovani che
potrebbero anche essere i nostri figli. I figli
di ciò che siamo oggi.
Ho visto due ragazzi, i loro sogni, e la strada
che hanno percorso.
Ti ho rivisto Maia, ho rivisto i tuoi occhi
limpidi, il tuo sorriso pieno di promesse.
Ho sentito ancora la fragilità della tua mano
stretta nella mia.
Ho sentito il suo tepore e un’improvvisa
dolcezza ha scaldato il mio cuore oggi come
allora.
Ho ricercato le foto del nostro matrimonio.
Sono ormai stinte, sbiadite ma non è sfumato in
me l’amore che ho provato per te.
Per te Maia, per te ragazza dagli occhi limpidi
che ancora inseguo.
Per te Maia, per te ragazza che era gioia e che
non sapevo potesse divenire abitudine.
*incipit
di Arthur C. Clarke (1917-2008) 2061: Odissea tre
*Cristina
Ricci,
quarantun anni,
abita a Spotorno,
ha
pubblicato il
suo primo
romanzo (La
montagna d’acqua
– ed. Il Filo,
Roma),
un altro
recentemente
finito e tanta
voglia di
scrivere.
A questo
“scarno”
curriculum si
può aggiungere
la
collaborazione
con il blog
dell’Udi
Savonese per il
quale Cristina
Ricci ha scritto
alcuni pezzi
|