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IMPRONTA ECOLOGICA

 

  Marco Giacinto Pellifroni

 


M. G. Pellifroni

L’AD Fiat Marchionne ha definita tragica l’eventuale mancata ripresa degli incentivi statali per la rottamazione delle auto. A questo meccanismo ci siamo così familiarizzati negli anni che la cosa ci sembra normale. Mentre si tratta di un evidente aiuto di Stato, elargito ad un ristretto numero di aziende e negato a tutte le altre. In sostanza, tutti i cittadini sono chiamati a concorrere al rinnovo del parco auto (o altri ex-beni “durevoli”), drogandone in tal modo la produzione, al di là delle fisiologiche richieste del mercato, che pur continua a voler definirsi “libero”.  

 In America, l’incentivo, sino a $ 4.800, per cambiare auto è stato un esperimento nuovo,  bollato come cash for clunkers (soldi cash per i macinini) e avversato fortemente dai repubblicani e dalle destre in genere. I fautori di questi incentivi, che hanno fatto seguito a massicci sussidi pubblici a General Motors e Chrysler – per non dire delle grandi banche, li giustificano in base al minor consumo di carburante ed al minor inquinamento delle auto nuove rispetto a quelle usate che vanno a sostituire.

Detto questo, è utile fare qualche riflessione sulla maggiore o minore compatibilità ambientale di tutto un ventaglio di scelte operative, sia a livello di governi che di piccoli gesti quotidiani da parte dei singoli. Cerchiamo insomma, a grandi linee, di valutare il nostro personale impatto sull’ambiente (ecological footprint: impronta ecologica).

Partiamo dalle auto. Ci vorrebbero degli studi molto dettagliati su quello che è il costo ambientale relativo alla fabbricazione di una vettura nuova, partendo dalle miniere del minerale di ferro, nonché della plastica, nel suo percorso dal pozzo petrolifero, dei trasporti connessi alle varie operazioni, delle lavorazioni in officina e così via. Non so se siano disponibili studi siffatti; ma non mi stupirei di apprendere che non è così scontata la superiorità ambientale della sostituzione nuovo per vecchio, a meno che l’auto da rottamare sia veramente in condizioni tali da non superare i periodici collaudi.

Quello che invece so per certo è che il mancato uso dell’auto in favore del mezzo pubblico,  sia per circolare in città che per spostarsi da una città all’altra, è una scelta gentile verso l’ambiente, specialmente su percorsi di intensa utilizzazione. Talmente gentile ed ecologicamente superiore da farmi optare, qualora fossi al governo, per l’uso totalmente gratuito del mezzo pubblico. Non è una proposta demagogica (non devo farmi eleggere da nessuno!), ma sana anche economicamente. Infatti, il contributo dei biglietti alla copertura dei costi di tram, autobus e treni è inferiore al 20%.


Tram di ultima generazione

Tram anni '30, tuttora in servizio!
La loro gratuità ne incentiverebbe un maggior uso, compensando certi disagi intrinseci al trasporto collettivo (in primis, il mancato trasferimento dal luogo esatto di partenza al luogo esatto di arrivo). Si eliminerebbe peraltro tutta l’organizzazione di controlli degli “evasori”, mentre l’aria, specie urbana, ne trarrebbe enormi vantaggi, e con essa la nostra salute. Inoltre, il minor uso dei mezzi privati ne limiterebbe l’usura, anche per lo snellimento del traffico, prolungandone quindi la vita. Ne beneficerebbe anche il debito estero, col drastico taglio alle importazioni petrolifere. Treni e tram, muovendosi a propulsione elettrica su rotaia, hanno rendimenti di circa 6 volte superiori ai mezzi su gomma, a causa del minore attrito (e in più utilizzano ridotte sedi di marcia): basta vedere quanti TIR sarebbero necessari per trasportare il carico di un treno merci con 30 o più vagoni su un’autostrada larga più del doppio! Inoltre, l’usura dei mezzi elettrici su ferro è assai minore di quelli su gomma a combustione interna.  
A questo punto, si inserisce un altro dilemma, agitato dai governi e dai sindacati: macchine a vita più lunga, l’abbiamo appena visto, abbassano l’esigenza di sostituirle,  quindi il famigerato PIL, e quindi la forza lavoro.

Ragionamento che stride con l’entusiasmo che ha caratterizzato l’ultimo secolo di meccanizzazione e automazione spinta, che pur ha buttato fuori delle fabbriche un numero sproporzionato di operai, attuali o potenziali. L’automazione andava bene, finché il grosso dei risparmi dovuti all’innovazione finiva nelle tasche dei capitalisti, e solo le briciole in quelle dei lavoratori. Al contrario, produrre meno macchine, mentre migliora la sanità dell’ambiente di tutti, sgonfia però i fatturati, sia dell’industria meccanica che farmaceutica, e quindi gli utili dei capitalisti, oltre a falciare posti di lavoro.

Questo spiega la coalizione contraria di capitalisti e lavoratori (con la penalità, per i secondi, di potere d’acquisto di salari e stipendi in costante discesa, grazie ad outsourcing e delocalizzazioni).


carretta del mare
La soluzione ideale è solo una, echeggiante sin dal ’68: lavorare meno, lavorare tutti.

 

Con una aggiunta, nuova ed antica insieme: quella del “superamento della lotta di classe, dell’accordo tra capitale e lavoro, mediante la partecipazione degli operai alla gestione e agli utili delle imprese”*. Idea antica, perchè risale agli anni del futurismo (della cui nascita s’è celebrato quest’anno il centenario) e della Carta del Carnaro, partorita da Gabriele D’Annunzio e Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario e braccio destro del “Vate” durante l’epica occupazione di Fiume nel 1919-20. Una Carta estremamente moderna e anticipatrice per molti versi della nostra attuale Costituzione.

 

Un altro esempio che richiede attenti e non preconcetti calcoli di impronta ecologica riguarda le tariffe di beni di prima necessità, come acqua e luce. Al contrario dei trasporti pubblici, che andrebbero incoraggiati mediante il taglio a zero delle tariffe, quelle di acqua ed elettricità andrebbero calibrate per scoraggiarne gli abusi: superata la soglia minima di stretta necessità personale e aziendale, il loro consumo andrebbe progressivamente penalizzato mediante tariffe in crescita coi consumi stessi. Tra breve saranno obbligatorie le lampadine a basso consumo; col difetto però di soffrire per le frequenti accensioni, il che spinge a tenerle accese più a lungo, per non abbreviarne la vita…

Riscaldamento domestico: follia pura è quella americana di farlo con lo stesso principio dell’aria condizionata, utilizzando cioè energia elettrica, ossia una sorgente che spreca in calore di scarto i 2/3 dell’energia del combustibile. Eppure, i calcoli che colà si fanno per stimare quanta superficie desertica andrebbe ricoperta di pannelli fotovoltaici per soddisfare la domanda, si basano sui consumi elettrici anche per il riscaldamento domestico, alzando così il fabbisogno alle stelle. Il principio cui attenersi è quello di uso congruo delle varie forme energetiche, secondo una scala di “nobiltà”, sulla cui cima svetta la preziosa energia elettrica, ottima per usi meccanici (treni, tram, metrò), elettronici (computer e periferiche varie), di illuminazione, ecc., ma NON per la vile funzione di riscaldare un ambiente di pochi gradi partendo da reazioni, in centrale, di migliaia di gradi (o peggio ancora, milioni, nelle centrali nucleari).

Se poi scendiamo ai beni di largo consumo, un occhio di riguardo meritano le loro confezioni, da premiare in proporzione alla loro riciclabilità o riutilizzo, anche con opportune variazioni dell’Iva. I primi imballaggi da bandire, tramite tasse più alte, sono quelli composti da accoppiati, specie di carta e plastica: non è ammissibile che, ancora nel 2009, il “cartone” del latte sia un accoppiato di cartone e film plastico o di alluminio, impedendo il  successivo ricupero di entrambi. La Coop, notevole per l’attenzione che in molti settori dedica alla compatibilità ambientale, continua imperterrita a usare l’irriciclabile Tetrapak. Chi poi volesse acquistare latte o yogurt in vetro, ossia nel materiale per imballaggi più chimicamente inerte che ci sia, resterebbe deluso: solo una marca di yogurt (e nessuna di latte) lo commercia in vetro; con il non trascurabile particolare che viene… dalla Germania. Con buona pace delle campagne Kilometri Zero che vengono lodevolmente portate avanti.

Altro dilemma, ma di facile soluzione: se potete scegliere tra un apparecchio a pile o a filo, optate decisamente per il secondo, evitando le inquinanti batterie. E ogniqualvolta potete fare uno spostamento in bicicletta, non esitate: datele la precedenza. Ve ne saranno grati il vostro corpo e il vostro spirito, per il senso di libertà che ne trarrete (nonché la salute di quanti vi circondano).

Gli esempi si potrebbero moltiplicare; ma qui mi limito a un suggerimento: qualunque azione stiate per compiere durante la giornata, chiedetevi sempre, come faccio ormai da decenni, senza neppure dover più porci mente, se esiste una maniera alternativa, e più ecology-minded, di ottenere lo stesso scopo. A volte non è facile, lì su due piedi, decidere cosa sia meglio. Tuttavia, se cominciate a porvi la domanda, prima di accingervi a fare qualcosa, qualsiasi cosa, è già un buon segnale che state avviandovi sulla strada giusta. E se avete dei figli, il miglior insegnamento è l’esempio; e se cominceranno a porsi le vostre stesse domande già da ragazzi, c’è buona speranza che diventino adulti con l’innato senso di rispetto e gratitudine per l’ambiente e per chi concorre a renderlo migliore.**

Certo non è l’atteggiamento mentale di quei terroristi che danno fuoco ai boschi; o dei camorristi che affondano navi cariche di veleni. Per tutti costoro i media dovrebbero enfatizzare non solo i crimini, ma anche i processi e le giuste condanne, a titolo di avvertimento per quanti volessero riprovarci. Insomma, è fortemente diseducativo riportare i delitti, e non, con altrettanta enfasi, pure le pene.

 

* Vedi l’ottimo libro di Claudia Salaris “Alla festa della rivoluzione” sull’avventura di Fiume, Ed. Il Mulino, 2002.

** Consiglio la lettura del conciso saggio di Serge Latouche “Breve trattato sulla decrescita serena”, Bollati Boringhieri, 2007.

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                   20 settembre 2009