L’Etica ipotetica
di Pietro Ratto*
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Da dieci anni a questa parte |
Parlo
della mentalità che ha portato all’introduzione,
nella nostra Scuola,
di termini come credito e debito, che ha
trasformato i nostri alunni in ragionieri prima
ancora che in uomini e donne. Da circa dieci
anni nemmeno più i ragazzi fanno niente per
niente. Ogni attività scolastica va seguita ed
assorbita solo “se serve”, solo se permette
l’accumulo di quei famosi punti validi per
l’Esame di Stato e per la valutazione finale,
che hanno trasformato l’esperienza
dell’apprendere e dell’insegnare in un continuo
mercato del comprare e del vendere. Mentre
spiego, ogni giorno, i miei alunni mi guardano
fisso cercando di capire quali cose “servano” e
quali no. Pochissimi si entusiasmano affrontando
un qualsiasi argomento; perché l’entusiasmo non
paga, non fa punteggio. Persino le attività che
un alunno svolge al pomeriggio, per conto
proprio, sono state trasformate in merce
spendibile, utile a conseguire crediti
formativi. Il volontariato, l’apprendimento di
un’arte, l’allenamento sportivo, tutto fa
credito, se adeguatamente “certificato”… Fino a
che punto i nostri giovani vivono queste
esperienze con reale interesse? (e non parlo
certo dell’interesse bancario, senza dubbio più
in linea con le nostre attuali logiche
didattiche: parlo della passione, della
dedizione disinteressata, fine a se stessa!).
Fino a che punto sviluppano “talenti” naturali
per realizzare le proprie potenzialità? La
maggior parte, temo, si dedica solo a ciò che
può servire a far punti, a ciò che può fruttare,
convenire. Anche lo svago, lo sfogo che noi ci
concedevamo quotidianamente dopo aver finito di
studiare: anche questo è diventato “utile”,
“certificabile”, “spendibile”. Abbiamo seguito la logica
delle “esigenze del territorio”. Nell’età
dell’Autonomia scolastica ogni scuola deve
rispondere alle richieste delle aziende locali,
della realtà lavorativa circostante. Sacrosanto,
certo. Ma chi si preoccupa più delle
inclinazioni personali? Chi si chiede più se i
ragazzi che “orientiamo” verso le occupazioni
più disponibili, più rimunerate e più richieste,
riescano poi realmente a svolgere con passione
un lavoro che magari non amano e per il quale
non sono nemmeno molto portati? La questione non è di poco
conto. Parlo di una società come la nostra:
disincantata, annoiata, delusa, infelice, che ha
bisogno di contare su dentisti o carrozzieri che
lo facciano perché sono dentisti e carrozzieri,
perché se lo sentono dentro, perché hanno
coltivato l’interesse e la passione. Non perché
“conviene”, non perché “serve”, perché c’è
posto. I dentisti che non sono dentisti lavorano
male, pensano solo al guadagno, sono infelici e
rendono infelici i loro clienti. I carrozzieri
che non sono carrozzieri fanno lo stesso,
consegnano le automobili riparate magari solo in
parte, mal verniciate, soltanto per ricevere
soldi. In questo senso va
considerata anche la questione del voto di
condotta, alla quale da anni mi dedico
riflettendo e scrivendo. Se reputo apprezzabile
che il voto di condotta, finalmente, sia tornato
a contare qualcosa, se accolgo con soddisfazione
il principio secondo cui una condotta
insufficiente possa finalmente pregiudicare -
così come accadeva un tempo - la promozione, non
riesco però a non chiedermi: com’è possibile
giungere a questa sana decisione e,
contemporaneamente, stabilire che tale
valutazione faccia media con gli altri voti?
Com’è possibile mischiare così due tipologie di
giudizio tanto diverse? Profitto e disciplina in
un tutto unico! |
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Innanzitutto un provvedimento
di questo tipo non può avere altra conseguenza
se non quella di alzare, pressoché in modo
indifferenziato, le medie dei voti di tutti gli
alunni; un sei di condotta, infatti, risulta
difficilissimo da dare: sia per il retaggio che
ancora ci portiamo dietro e che ricorda ancora
il sette come autentico veicolo di bocciatura,
sia perchè i parametri fissati sono
oggettivamente tali da impedire l’attribuzione
di tale votazione se non in casi gravi.
Risultato: già il sette di condotta viene
attribuito con grande fatica, dopo ore di
discussioni e liti tra colleghi, mentre a piene
mani vengono elargiti gli otto, i nove ed i
dieci che improvvisamente impreziosiscono le
pagelle di tutti, più o meno somari, facendo
gravitare i relativi punteggi. E’ infatti
indiscutibile, credo, che un otto di condotta
sia molto più facile da ottenere, piuttosto che
un otto di latino o di matematica.
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Stabilire che il voto di
condotta faccia media con i voti di profitto e
contribuisca, quindi, ad incrementare il solito
punteggio, significa insegnare, l’ennesima
volta, che anche comportarsi bene “conviene”!
Significa instillare nelle menti di questi
giovani l’idea secondo cui io mi comporto bene
se “serve”, altrimenti evito! Come dimenticare che siamo
eredi di una tradizione etico-filosofica che
rivendica la purezza, l’aspetto totalmente
disinteressato dell’autentica azione morale? Se
vogliamo restare fedeli a questa idea e,
soprattutto, se vogliamo educare questi ragazzi
a diventare uomini e donne, e non manichini
nelle mani delle logiche di mercato e del potere
(ma questo, realmente lo vogliamo?), dobbiamo
tornare ad insegnare che ci si comporta bene
perché bisogna comportarsi bene; dobbiamo
ritornare al principio della virtù morale in
quanto bene per sé, fine a se stesso e non
condizionato da alcun secondo fine, dobbiamo far
leva sulla condizione essenziale del rispetto,
per se stessi, per i compagni, per i professori
ed i genitori. E questo anche solo per evitare
di raccontare bugie ai nostri alunni. Quando
mai, infatti, al di fuori della scuola il
comportamento retto paga? In quale contesto mai
la virtù “conviene”? Continuando ad insegnare
che bisogna essere giusti per una convenienza ci
ritroviamo poi le città piene di gente che,
appena uscita dalla scuola, capisce che
comportarsi bene non conviene proprio per nulla.
E quindi smette di farlo! Alimentare questi
principi deteriori porta alla realizzazione di
una comunità biecamente utilitarista, in cui -
per dirla in termini kantiani - ogni imperativo
categorico viene, di fatto, sostituito da un
corrispondente ipotetico; faccio questo solo se
posso ottenere quest’altro. Se proprio un voto di
condotta deve far media, perché non pensare di
farlo pesare su quello dell’anno dopo, così da
indicare e richiedere ai ragazzi una continuità
nel loro agire correttamente? Perché non pensare
a correggere i comportamenti valutati con la
sola sufficienza, attraverso adeguati corsi
estivi di educazione e rispetto del prossimo? Si
pensi all’umiliazione (ed al fastidio), del
doversi ritrovare tra i banchi di scuola a
luglio per seguire un corso che spiega come
comportarsi bene, come rispettare gli altri. Si
pensi al deterrente che potrebbe rappresentare
nei confronti di comportamenti indisciplinati.
Trovarsi obbligati, d’estate, a “recuperare in
condotta”, così come altri contemporaneamente
fanno per colmare le proprie carenze in
matematica o in greco. Gli errori educativi e
formativi che stiamo commettendo, in realtà,
rientrano nell’orribile quadro di una Scuola, e
quindi di una Società, trasformate in
un’accozzaglia di persone valutabili solo sulla
base degli “obiettivi” raggiunti. I miei alunni
puntano solo agli obiettivi quantificabili:
puntano al fatidico punteggio finale; se ne
fregano dei mezzi per raggiungere il loro scopo.
Io stesso vengo costretto a passare buona parte
dell’anno scolastico ad esplicitare i miei
“obiettivi didattici ed educativi quantificabili
e misurabili”, così da permettere a qualcun
altro (anche ai ragazzi stessi), di controllare
se li raggiungo o no, magari al solo scopo di
mettermi i bastoni tra le ruote al momento
giusto, quando “conviene”. (“Competenze”,
“conoscenze”, “capacità”, “saper essere”…La
fiera delle ipocrisie, dato che gli unici reali
“obiettivi” che perseguiamo ed insegniamo a
perseguire sono quelli di una manciata di punti
da spendere alla fine del quinto anno!). Che
scuola è questa? Una banca? Un istituto di
credito? Che coscienze “sforniamo”, noi ormai,
da questa nostra Istituzione? Possibile che
dalle riflessioni machiavelliche, che tanto
onorano la nostra tradizione culturale
filosofica e politica, siamo stati in grado solo
di assorbire concetti come la spregiudicatezza,
la determinazione a raggiungere un fine ad ogni
costo, la giustificazioni di qualsiasi nefanda
azione in virtù dell’ottenimento e del
consolidamento del proprio potere sugli altri,
ignorando ben più preziosi valori come, ad
esempio, quello di un’effettiva, e non solo
dichiarata, laicità dello Stato o quello della
fiducia nelle potenzialità dell’uomo? Ma queste riflessioni restano
lettera morta. Forse perché, tutto sommato,
questi ragazzi piacciono così come sono; forse
perché, a suon di debiti e crediti, da anni
stiamo formando persone facilmente comprabili.
Persone vuote, senza passioni vere, gestibili,
manipolabili. Forse la logica
dell’Autonomia tende a perseguire l’obiettivo
dell’annullamento di ogni pensiero autonomo,
rispettando l’illogicità di un paradosso ben
poco involontario. Esattamente come
stanno abituandoci a pensare che la vera libertà
coincide con la sottomissione, che la vera pace
si ottiene con la guerra e che la menzogna
rappresenta, per noi, l’unica verità possibile.
Insegnante (genovese) di Filosofia e
Storia in servizio in un liceo del torinese.
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