L'ondata di razzismo che sta attraversando
la società italiana, con venature di vera e propria intolleranza
(non mi riferisco soltanto al favore dell'opinione pubblica
verso i cosiddetti “respingimenti”, ma, ad esempio, al caso
della preside di Genova che intendeva dichiarare “clandestini”
preventivamente i propri studenti extracomunitari) ha un
rapporto diretto, ed una influenza rispetto al modello politico
imperante nel nostro Paese.
Cadono le discussioni sugli “italiani
brava gente” e sulla durezza della crisi economica che,
inevitabilmente, porta alle guerre tra poveri: si tratta di un
fenomeno che arriva da più lontano ed interessa appunto
l'insieme del “modello politico” composto dalla realtà dei corpi
intermedi, dal ruolo delle istituzioni, dalle complesse modalità
di cittadinanza attiva. |
Da oltre un
decennio, infatti, il “modello politico”
italiano ha mutato segno, da luogo di forte
partecipazione politica e sociale (con
l'indicatore della partecipazione al voto come
segnale “forte”, ma non certo esaustivo di una
evidente vitalità sociale), a terreno di
“esclusione”, per larghe fette di popolazione,
per una realtà dei soggetti politici cui pare
sempre più dare fastidio il dibattito, per una
informazione che, più o meno all'unisono regge
acriticamente le logiche di un sistema
“separato”. Questi fattori
hanno fatto cadere la realtà di una cultura
politica” forte” che, in settori sociali non
secondari, faceva da barriera a determinati
modelli e a determinati meccanismi
comportamentali: certo il “ventre molle” è
sempre stato presente, ed in dimensioni
ragguardevoli. Una idea
“inclusiva” dell'agire e dell'organizzare la
politica svolgeva, però, una funzione importante
sul piano dell'integrazione. Il punto di
caduta maggiormente negativo, sotto questo
aspetto, riguarda la realtà dei partiti che
hanno dismesso, complessivamente, una funzione
di “alfabetizzazione” (in senso lato,
ovviamente) e, da sinistra, la capacità di
promuovere la riflessione collettiva sulle
modalità di sfruttamento, che non erano
semplicemente quelle delle fabbrica, della
bottega, dell'ufficio, della filanda, ma quelle
più generali della soggezione a regole imposte
dall'alto nei campi più diversi: una riflessione
collettiva che portava poi all'idea del
cambiamento, della ribellione,
dell'organizzazione. L'abbiamo
scritto già tante volte ma non abbiamo paura di
ripeterci: aver esaurito la funzione dei partiti
nella mera “governabilità”, li ha fatti tornare
indietro (non abbiamo paura di questa
espressione!) quali sede della promozione di un
nuovo “notabilato”, dove ormai le pulsioni
personalistiche paiono prevalere ad ogni
livello, non soltanto al livello del Capo del
Governo e delle sue molteplici avventure. Egualmente
appare fattore di “esclusione sociale” il ruolo
assunto dalle istituzioni a livello locale, sia
sotto l'aspetto della qualità del dibattito che
vi si sviluppa (fattori non secondario di questa
vera e propria crisi: il ruolo in via di
decadimento dei consessi elettivi, la riduzione
delle Giunte al servizio del potere monocratico
dell'eletto direttamente dai cittadini, con la
riduzione nelle funzioni delle minoranze e
l'affermarsi di una incauta presunta separatezza
tra politica ed amministrazione) e della
conseguente, direttamente conseguente,
destinazione delle scelte in materia di
territorio, di ambiente, di servizi sociali. All'interno di
questo quadro, descritto forse sommariamente ma
che abbiamo l'ambizione di credere
sufficientemente veritiero, è pressoché
scomparso il confronto sul tema dei diritti
politici dei nuovi cittadini: ancora un paio
d'anni fa resisteva ancora un barlume di
riflessione su questo punto che, adesso, sembra
sparito. Le delibere di
concessione del voto amministrativo ai nuovi
cittadini che pure qualche Ente Locale aveva
tentato di portare avanti sono finite nel
dimenticatoio: pluralità, allargamento,
inclusione sociale sono parole che hanno
direttamente a che fare con il “modello
politico”. Adesso appaiono
del tutto desuete ed i risultati si vedono.
Savona, 20 Maggio 2009
Franco Astengo |