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DESTINO RAZZISTA?

di Marco Della Luna

 

Oggi di razzismo si parla molto, moltissimo, quasi in continuazione, essenzialmente per condannarlo ed esorcizzarlo. Non se ne parlerebbe tanto, se non fosse sempre ben presente e attivo, in diverse forme e con diverse denominazioni.

Il razzismo in senso stretto, biologico, è in forte declino, non ha basi scientifiche, anche perché, biologicamente, non ha senso parlare di “razze” umane, anche se palesemente esistono caratteri somatici diversi.  

Quindi non ha senso parlare di superiorità razziale, anche se alcuni gruppi etnici mostrano in Q.I. significativamente più elevato (Ebrei ashkenazi) e altri significativamente più basso (negri d’Africa) della media. Ma si tratta di divergenze statistiche legate a migliori condizioni educative ed alimentari, che si traducono anche in un miglior sviluppo dell’encefalo e delle sue capacità, nongià di una superiorità genetica razziale.

Vi sono però diverse forme di para-razzismo ben vitali e coltivate: il nazionalismo (affermazione della propria nazione e cultura come superiore alle altre o a certe altre, quindi legittimata ad imporsi); l’etnicismo (affermazione del proprio gruppo etnico come superiore ad altri o a certi altri, quindi in diritto di assoggettarli); il tribalismo (tipicamente africano, pakistano, afghano e di altre zone sottosviluppate, porta certi gruppi tribali alla schiavizzazione o allo sterminio di altri gruppi). Vi era poi il razzismo utilitario e schiavista, tanto bianco quanto arabo, verso i negri: schiavizzare i negri era moralmente legittimo perché essi sono subumani, mezze scimmie, mentalmente ipodotati. Mentre oggi si sa che tutto ciò, semplicemente, non è vero.

Altre forme di para-razzismo si basano su contrapposizioni e intolleranze di tipo religioso: solo gli appartenenti alla propria religione sono puri e buoni; gli altri sono impuri, o addirittura nemici di dio; in tal caso, se non si convertono, vanno sterminati (Islam).

Non rientra nel razzismo né nel para-razzismo, invece, affermare, ad esempio, che gli immigrati clandestini hanno un tasso di delinquenza dieci volte superiore a quello dei cittadini nazionali, se è vero che lo hanno. O che il 90% delle donne nigeriane o albanesi in Italia fanno le prostitute, se questo dato statistico corrisponde alla realtà.

Se guardiamo alla storia delle civiltà, la presenza di qualche forma di razzismo o para-razzismo è una costante: la troviamo in tutte le epoche, a tutte le latitudini e a tutte le longitudini.

Molti popoli si consideravano o si considerano superiori agli altri perché discendenti dagli dei (della loro religione) o perché più civili e capaci: così, per esempio, gli Egizi, gli Indiani (d’India), i Giapponesi, i Cinesi, i Greci, i Romani. Gli Egizi si reputavano speciali, superiori, abitanti la terra al centro del mondo. Gli Indiani hanno tutta una loro teoria razziale con una complicata classificazione per mettere tutti al loro posto, al loro grado sulla scala gerarchica, che culmina coi bramini, e scende attraverso i livelli riservati agli Indiani stessi, fino a quelli dei “mleccha”, dei popoli inferiori: i gialli (detti “mangiacani” e “senza naso”), i Persiani, i Greci, etc. La religione hinduista è solo per gli Indiani, e l’indiano che va all’estero e sta tra i mleccha diventa impuro. I Greci chiamavano “barbari”, ossia “farfuglianti”, per il loro modo di parlare, i popoli non greci; inoltre si consideravano anch’essi abitanti al centro del mondo. I Giapponesi tradizionalmente si considerano di stirpe divina, superiori ai Cinesi e ai Coreani, quindi legittimati a sottometterli, sfruttarli, ucciderli (quando scoprirono antichi sepolcri di loro imperatori che evidenziavano origini coreane, li nascosero). Raramente si sposano con non-giapponesi. Ciò vale pure per i Cinesi, che si considerano pure superiori e preziosi.

I Romani, più pragmatici, avevano un senso di superiorità e di diritto di dominare gli altri, legato alla loro superiore efficienza amministrativa, ingegneristica, militare – senso che si esprime nel motto virgiliano: Hoc tibi fas, Romane, memento: parcere subjectis et debellare superbos (ossia: questa è la tua vocazione, o Romano, rammenta: esser clemente con i sottomessi e debellare i superbi). Un’analoga forma di para-razzismo troviamo in altre nazioni imperiali, quali i Francesi, i Britannici e gli Americani: popoli che sono stati imbevuti di una cultura di superiorità e di missione civilizzatrice verso il resto del mondo. La propaganda e la pedagogia scolastica USA sono sempre molto attive in questo senso, a sostegno della politica estera condotta da Washington. Francesi e Britannici conservano l’impianto di questa mentalità imperiale o imperialista anche ora che non hanno più una statura, una realtà, una potenza, imperiali; e ciò li rende, talora, ridicoli. Il razzismo biologico germanico è recente e non è autoctono, ossia non nasce in Germania, ma deriva da teorie basate sull’evoluzionismo e sull’ereditarietà, sviluppate e sistematizzate anche attraverso screening statistici negli USA degli anni ’20 da un certo Goddard e altri, che “dimostravano” scientificamente la superiorità intellettiva dei bianchi anglosassoni sulle altre “razze” anche bianche, come gli Italiani, che a quei tempi erano, negli USA, equiparati ai negri in quanto a diritti e paga, erano definiti “negri bianchi” e non pochi locali pubblici erano interdetti ai negri e agli Italiani (anche nella Francia di quei tempi avvenivano simili discriminazioni). Il Nazionalsocialismo riprese, adattò e sviluppò proprio quelle teorie e ricerche “scientifiche”.

Le culture islamica e israelitica sono fortemente accomunate (ma Shiva ci scampi dalle generalizzazioni) dal principio della doppia morale, il quale stabilisce che i correligionari sono fratelli e vanno rispettati e aiutati; mentre nei confronti degli altri, dei non fratelli (i bashir, i goyim), che sono perciostesso inferiori, ci si può comportare diversamente, sottometterli,  sfruttarli con l’usura, negare loro ogni solidarietà, ucciderli, defraudarli, depredarli. La radice hrb della parola “arabo” significa appunto predare, razziare, far guerra; l'Islam ha diretto questa preesistente tendenza identitaria verso l'esterno, verso gli infedeli, favorendo la coesione interna. La differenza tra queste due culture semitiche è che, mentre quella islamica ammette che tutti possano diventare islamici, cioè fratelli (salvo dover essere uccisi, se in seguito cambiano idea e vogliono uscire dall’Islam), quella israelita  è una religione strettamente legata a un popolo specifico – gli Ebrei – ed adora appunto il dio degli Ebrei, il quale si dichiara, nella Bibbia (Torà) come l’unico dio dell’unico suo popolo, che esso assiste contro gli altri popoli; sicché i non ebrei non sono ammessi, non possono diventare fratelli, e restano “goyim”, cioè “bestiame”. Rispetto a questi due monoteismi, il Cristianesimo si contrappone, prescrivendo (analogamente al Buddhismo) una morale universale, di fratellanza, amore e rispetto verso tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro etnia e dalla loro religione.

 

Le forme di razzismo e di para-razzismo sono numerosissime, quindi. La loro gamma tipologica va dal fondamento biologico a quello religioso passando per quelli localistici. Ma tutte hanno qualcosa che le accomuna. Se le spogliamo dei loro vari pretesti e vestimenti biologici, religiosi, politici, troviamo che tutte hanno il medesimo schema ed assolvono la medesima funzione: creare un’identità interna e unificante di gruppo (nazionale, etnico, religioso, sportivo, politico), contrapposta agli altri. Creare coesione e contrapposizione. Solidarietà, fratellanza e obbedienza verso l’interno del gruppo e i suoi capi; e proiezione del negativo, dell’aggressività repressa, della frustrazione, verso gli altri, verso i gruppi avversi o nemici o inferiori o semplicemente diversi. Sostanzialmente, razzismi e para-razzismi servono, cioè, a governare i gruppi nazionali, etnici, religiosi, e a tenerli coesi. A manovrarli. A spingerli, all’occorrenza, alla guerra. A prevenire le possibilità di dialogo e scambio interculturali, che allargano gli orizzonti mentali delle persone e le rendono meno manipolabili. Peraltro, congiunta a un forte senso di identità nazionale, una certa dose di razzismo o para-razzismo, un certo senso di superiorità rispetto agli altri popoli, avvantaggia una nazione nella competizione con le altre e la aiuta ad affermarsi su di esse e a mantenersi forte: storicamente, lo constatiamo con gli Ebrei, i Greci, i Romani, i Giapponesi, i Britannici, i Francesi, gli Americani etc. Uno scarso o nullo senso identitario nazionale congiunto a un senso di inferiorità verso gli altri popoli costituisce, invece, un handicap.

A livello primitivo, tribale, prevale la funzione del razzismo o para-razzismo che consiste nel mantenere la coesione nel pensiero e nelle credenze del gruppo, proteggendolo dalle immissioni di “materiale” estraneo e destabilizzante. Le società primitive sono molto abitudinarie, ritualistiche, rigide e fragili, da questo punto di vista. Hanno poche o punte capacità di elaborare apporti culturali esterni. Sovente temono e respingono col tabù tutto ciò che è nuovo. Qualcosa del genere avveniva anche nei regimi totalitari comunisti che si reggevano su un rigido catechismo che dipingeva come malefico e distruttivo tutto ciò che non era comunista: quando quei paesi si dovettero aprire, molti intellettuali di regime, che erano cresciuti in quella fede, di fronte alla scoperta della assurdità della loro fede e del loro sistema di valori, ebbero crisi di identità, disturbi depressivi e non pochi preferirono togliersi la vita.

Se leggiamo l’Esodo, il Deuteronomio, il Levitico vediamo direttamente come Mosè costruisce un popolo unitario – Israele – prima inesistente come tale, proprio adoperando questi strumenti. Vediamo, cioè, come lo rende coeso, compatto, dotato di un’identità, differenziato, aggressivo, efficiente, ed etnicista. Lo fa portando le sue genti nel Sinai e tenendole colà segregate quaranta anni, in modo che le varie famiglie si incrocino tra di loro e non con altre genti. E dando loro un dio unico ed esclusivo per loro, contrapposto agli altri dei; e uccidendo chi adori altri dei; e imponendo un codice di leggi basato sulla contrapposizione tra i fratelli e i non fratelli, i gentili, i Filistei (i Filistei erano i Palestinesi) che vanno debellati per volere del dio di Israele, che ha promesso loro proprio la terra dei Filistei. In Deuteronomio 15,6, Jahvé prescrive addirittura agli Israeliti di praticare l’usura ai non fratelli per arrivare a dominarli. Forse moralmente non vi piaceranno, queste cose. Ma Mosè è stato un grande ingegnere sociale. Possedeva, assieme al suo staff, una grande conoscenza sociopsicologica. Il suo prodotto è mirabile per qualità, resistenza e durevolezza. Dovete riconoscerlo. 

Le prediche morali contro il razzismo non tengono presente la realtà, in quanto presuppongono che il razzismo sia una libera scelta dei singoli, e non tengono presenti la sua matrice e la sua funzione pratica nella fisiologia delle società. E’ sciocco trattare il razzismo come un problema etico, o da combattere con norme punitive di questa o quella espressione dispregiativa o discriminante. E’ ipocrita dire che sia razzismo quello dei leghisti o degli Israeliani contro i nordafricani, e non il para-razzismo nazionalista dell’indottrinamento scolastico praticato dalle potenze imperialiste di turno. Il razzismo e il para-razzismo non sono frutto di libere scelte delle singole persone, ma sono spontaneamente e inavvertitamente prodotti dai gruppi per assicurare la coesione interna. Sovente vengono coltivati, diretti, sfruttati dall’alto, dalle classi dirigenti, per scopi imperialistici o semplicemente di potere interno. Questo uso è il razzismo dei potenti, dei governanti – dei governanti dell’antica Roma, della Londra ottocentesca, della Washington odierna. A cui le condanne morali del razzismo ovviamente non interessanoanzi, essi stessi le organizzano, nei debiti termini.

Sotto il livello di questo razzismo, c’è il razzismo dei deboli, dei governati, delle società locali – i quali si ritrovano minacciati da flussi di immigrazione destabilizzanti, sovente collegati (o percepiti tali) alla criminalità, alla prostituzione, alle malattie infettive, alla perdita del posto di lavoro. E reagiscono sviluppando una contrapposizione identitaria, fatta di slogan, di proteste, di nostalgie. Una protesta talora captata e sfruttata da partiti politici. Ma è una reazione debole, se non disperata, a dinamiche mondiali imposte dai poteri veri, dai loro interessi, dai loro disegni. Una protesta controproducente, perché consente a questi medesimi poteri di delegittimare, anche moralmente, la resistenza all’impatto delle loro operazioni, e ad imporre, anche per legge, i suoi effetti traumatici come valori non criticabili.

Marco Della Luna