Nel corso della scorsa settimana è morto Saul Bellow, l'ultimo protagonista di una generazione che ha saputo inventare nuove forme narrative, per un mondo trasformato.
I suoi eroi sono stati perdenti vincitori, intellettuali illuminati da lampi di ironia, protagonisti di una orgogliosa libertà mentale contro la crescente omologazione.
L”uomo in bilico” è una delle figure decisive del complicato dopoguerra americano, di quella generazione che ha avuto in Saul Bellow l'ultimo gigante, una figura ingombrante e possente.
Bellow ha saputo rivendicare il ruolo storico della cultura, piuttosto che quello del romanziere.
Bellow viene a mancare in un momento in cui dall'America arrivano ancora ,certo, voci significative (ma molto diverse:Toni Morrison, Don De Lillo; forse – per dirne uno meno lontano da lui – Philiph Roth), ma non è più l'America, come in quel momento straordinario di cui Bellow fu protagonista, a indicarci la strada del futuro.
Ricordiamo alcune delle sue opere principali: Vittima (1947), Le avventure di Augie March (1953), Herzog (1964), il pianeta di Mr.Sammler (1970), il dono di Humboldt (1975), I più muoiono di crepacuore (1987).
Un sito per gli approfondimenti: www.saulbellow.org/ the Official Website of the Saul Bellow Society
TORNA SUIl grande architetto giapponese è morto, qualche giorno fa a novantadue anni.
Era nato, infatti, ad Osaka nel 1913.
Sostenitore del razionalismo moderno, la sua opera fu determinante per la rinascita architettonica del Giappone, dalle rovine del dopoguerra.
Tange, progetto, infatti il parco della Pace (1949 – 1955) e la Biblioteca per Bambini (1955) ad Hiroshima, oltre ad altre opere, dimostrando il suo rifiuto dell'impostazione tradizionale degli uffici pubblici in Giappone.
Ampliati i suoi interessi anche nel campo urbanistico, realizzò il piano regolatore di Toronto (1958) e la ricostruzione della città di Skopje in Macedonia, dopo un disastroso terremoto.
Con il piano per la fiera mondiale di Osaka (1967 – 1970) vide realizzarsi le sue più mature concezioni urbanistiche.
Ha continuato a lavorare fino in tarda età: risale al 1990 il complesso del municipio di Tokyo ed al 1994 il TeleTech di Singapore.
Anche in Italia rimangono importanti testimonianze del suo lavoro: i centri direzionali di Bologna (1975) e di Napoli (1987).
il sito ufficiale di Kenzo Tange |
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Pablo Neruda (pseudonimo di Neftali Ricardo Reyes) nasce in Cile nel 1904.
Nelle sue prime raccolte si riscontrano le radici moderniste.
Si tratta ,ancora di una poesia giovanile: soltanto nel 1926, con Tentativa del hombre infinito, apre la ricerca di uno stile diverso, che accolga le novità introdotte dai movimenti letterari del tempo.
Intraprende la carriera diplomatica ed è nominato console in Birmania, dove rimane fino al 1931.
Trasferitosi nel 1934, in Spagna, incontra Garcia Lorca e Rafael Alberti, avvicinandosi al marxismo.
Con lo scoppio della guerra civile, il poeta consacra la propria scrittura alla denuncia diretta del dramma di cui è testimone, che viene rievocato nei componimenti di Tercera Residenca (1947).
Il 1950 segna l'anno di pubblicazione del Canto General, nei cui versi Neruda concretizza il proposito di comporre un canto epico per l'America.
Il suo sguardo abbraccia tutta la realtà geografica e storica del continente, per condensarla nelle enumerazioni caotiche, che richiama nuovamente con un certo immaginario surrealista.
Fra il 1944 ed il 1954 lo scrittore, in esilio, intraprende una serie di viaggi in Unione Sovietica, Francia, Italia e Cina.
Durante il secondo soggiorno in Italia,a Capri, scrive le poesie raccolte in Los versos del capitan (1952), poesie d'amore dedicate a Matilde Urrutia, sua compagna di una vita.
Nel Memorial de Isla Negra (1964) Neruda si abbandona a una poesia evocativa, che scaturisce da un collage di figure e luoghi della sua infanzia e giovinezza, fino all'esilio ed al rientro in Patria.
Con l'elezione di Salvador Allende, Neruda è nominato ambasciatore del Cile a Parigi.
Nel 1971 gli viene assegnato il premio Nobel.
Quando, nel 1973, Pinochet realizza il colpo di stato contro il governo Allende, il poeta è già gravemente malato. Muore in quello stesso anno.
Da Veinte poemas de amor y una cancion desesperada (1924) pubblichiamo (con la traduzione in calce):
Cuerpo de mujer, blancas colinas, muslos blancos
te pareces al mondo en tu actitud de entrega.
Mi cuerpo de labrego slavaje te socava
y hace saltar el hijo del fondo de la tierra.
Fui solo como un tunel. De mi huìan los pàjaros
y en mì la noche entraba su invasion poderosa.
Para sobreviverme te forjé come un arma,
como una flecha en mi arco, come una piedra en mi honda.
Pero cae la hora de la vengenza, y te amo.
Cuerpo de piel, de musgo, de leche àvida y firme.
Ah lo vasos de pecho! Ah los ojos de ausencia!
Ah las rosas del pubs! Ah tu voz lenta y triste!
Cuerpo de mujer mia, presistirè en tu gracia.
Mi sed, mi ansia sin lìmite, mi camin indeciso!
Oscuros cauces donde la sed etrna sigue,
y la fatiga sigue, y el dolor infinito.
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
a fa scaturire il figlio dal fondo della terra.
Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli
e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione.
Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un'arma.
Come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda.
Mi viene l'ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah le coppe del seno! Ah gli occhi d'assenza!
Ah le rose del pube! Ah la tua voce lenta e triste!
Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia.
Mia sete, mia ansia senza limite, mio cammino incerto!
Rivoli oscuri dove la sete eterna rimane,
e la fatica rimane, e il dolore infinito.
un sito cileno per saperne di più: http://www.uchile.cl/neruda/
ed uno bellissimo per il centenario della sua morte: http://www.centenariopabloneruda.cl/
TORNA SUIl nonno paterno fu uno dei 17 figli di una schiava nera della Virginia e di un proprietario irlandese di una piantagione. Sua madre aveva solo 13 anni quando la partorì.
Il nome alla nascita è Eleanora Fagan Gough, siamo nel 1915 a Baltimora. La futura Lady Day ascolta per la prima volta la musica jazz di Luis Armstrong e Bessie Smith, e fa il suo debutto da cantante in uno tetro night club di Harem.
Userà il nome di Billie Holiday perché grande ammiratrice della star del cinema Billie Dove.
Venne scoperta da John Hammond, che nel 1933 le organizza la sua prima registrazione con Benny Goodman. La sua prima band venne organizzata dal pianista Teddy Wilson, a cui poi si aggiungeranno Goddman e Roy Eldridge.
Istaura una lunga relazione con Lester Young Prez.. Nel 1939 è il successo di “Strange Fruit” (canzone nella quale racconta gli strani frutti che pendono dagli alberi della piantagione: gli schiavi neri impiccati dai bianchi) e God bless the Child.
Compare nel film Lady sings the blues, mentre nel 1946 ha un trionfante successo al Town Hall e appare nel film New Orleans. Nonostante una mancanza di allenamento tecnico, l’inimitabile fraseggio e gli acuti drammaticamente intensi la resero la più incredibile cantante jazz dei suoi tempi. Le bianche gardenie tra i suoi capelli divennero la sua caratteristica.
Fatale, la lotta di Billie contro la droga. Una lotta che la conduce alla rovina. Fra arresti, persecuzioni giudiziarie e disperati tentativi di disintossicazione, la carriera della Signora del blues è letteralmente distrutta da alcool ed eroina. La voce, specchio della sua anima, subisce un inesorabile declino. Acre, miagolante, urtante: sono gli aggettivi che si accompagnano alla voce di Billie negli ultimi anni della sua carriera. Le sue condizioni fisiche sono tali da compromettere le tournèe in Europa. La morte arriva mentre è in un letto d’ospedale, consumata dalle droghe, perseguitata dalla giustizia, il 17 luglio del 1959.
Negra? Non
si vede?
Cantante? Ascoltami e vedrai
Puttana? Sì, ho fatto anche quello
E bevo anche come quattro uomini
Non mi fai paura, ho suonato in posti peggiori di questo
In bar di cow boys nel sud dove mi sputavano addosso
In una città dove il giorno stesso avevano linciato un nero
A New Orleans dove un diavolo alla moda
Ogni sera mi regalava fiori di droga
E a Chicago mi innamorai di un trombettista sifilitico
E all’uscita del night mi hanno spaccato la bocca
Sotto la pioggia da una stazione all’altra
Lady sings the blues
Negra? Sì, ma ci sono abituata
Cantante? Canto come una gabbia di uccelli
Note gravi e alte, e tutto il repertorio
Posso svolazzare come quelle belle cantanti dei film
E poi posso piantarti una ballata nel cuore
Vuoi strange fruit? Vuoi midnight train?
Posso cantartela anche da ubriaca
O con un coltello nella schiena
O piena di whisky e altro, perché sono una santa
E il mio altare è nel fumo di questo palco
Dove Lady sings the blues
Negra? Negra e bellissima, amico
Cantante? Non so fare altro
Puttana? Beh sì ho fatto anche quello
E bevo come quattro uomini
Non toccarmi o ti graffio quella bella bianca faccia
Posate il bicchiere, aprite quel poco che avete di cuore
State zitti e ascoltate io canto
Come se fosse l’ultima volta
Fate silenzio, bastardi e inchinatevi
Lady sings the blues
E quando tornerete a casa dite
Ho sentito cantare un angelo
Con le ali di marmo e raso
Puzzava di whisky era negra puttana e malata
Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate
Sono la regina di un reame di stracci
Sono la voce del sole sui campi di cotone
Sono la voce nera piena di luce
Sono la lady che canta il blues
Ah, dimenticavo... e mi chiamo Billie
Billie Holiday
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Il poeta Mahmud Darwish (al-Burwa Palestina, 1941) ha vissuto la prima fase della sua vita in Israele; sin da giovane ha profuso il suo impegno politico nell'attività giornalistica e nella poesia, guadagnandosi presto il titolo di “aedo dei palestinesi”. I toni aspri delle sue invettive lo hanno però portato in prigione diverse volte, tanto da indurlo ad emigrare in Libano nel 1971. Il cantore della Palestina è per il suo popolo, come il poeta preislamico, l'aedo appunto, che ricorda i luoghi del paese evocando i nomi e gli eventi cari alla memoria di tutti. La metafora poetica diventa simbolo politico gravido di sentimenti di dolore: ricordare la Palestina è rimpiangere il paradiso perduto.
Nella traduzione di F.M:Corrao pubblichiamo “A mia madre”
Mi manca il pane di mia madre
Il suo caffè
La sua carezza Che cresce con la mia infanzia
Giorno dopo Giorno
Amo la vita
Perchè se morissi
Non sopporterei il pianto di mia madre!
Accoglimi se un giorno diventerò
Mascara per le tue ciglia
E coprimi le ossa di erbe
Portate dal tuo candido seno
E stringimi forte
Con una ciocca dei tuoi capelli
Con un filo del tuo abito
Sperando di diventare un dio
Diventerò un dio...
Quando toccherò in fondo al tuo cuore
E quando tornerò, usami come combustibile
Per rischiarare il fuoco
Come filo da bucato sul terrazzo di casa
Perché non posso resistere senza la preghiera dei tuoi giorni
Sono invecchiato
Ridammi le stelle dell'infanzia
Perché possa condividere coi giovani uccelli
La strada del ritorno
Verso il nido della tua attesa!
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Lunedì 28 Febbraio è Morto Mario Luzi, aspro e solenne poeta del '900 italiano. Era nato a Castello, in provincia di Firenze nel 1920.
Aveva cominciato a scrivere giovanissimo, fin da bambino: il suo esordio avvenne nel 1935 con “La Barca”, cui seguirono, fra gli altri, “Avvento Notturno”, “Quaderno Gotico”; “Nel magma” “Su fondamenti invisibili”, “Sotto specie umana”, fino all'ultimo “Dottrina dell'estremo principiante” uscito del 2204.
Scrissi anche per il teatro.
Nel 2004, pochi giorni prima di compiere novant'anni, fu nominato Senatore a Vita dal Presidente della Repubblica. Ruolo che ha ricoperto per pochi mesi, distinguendosi però per prese di opposizione molto chiare: sia rispetto al governo in carica, sia rispetto all'avventura in Irak (una sua lettera esortante alla pace era stata pubblicata Venerdì 25 Febbraio: tre giorni prima della morte).
Al di là dei luoghi comuni che, spesso, hanno accompagnato i giudizi espressi sulla sua opera, in particolare quello riguardante una assegnazione quasi automatica alla categoria del “naturalista cattolico”, Luzi fornì segnali di una poetica provvista di grande originalità, proprio perché la sua naturalezza nel descrivere la vita e la morte emoziona ancora oggi, facendo comprendere che non si deve parlare a vuoto del mistero della vita.
Per ricordare Mario Luzi, pubblichiamo, da “Avvento Notturno” (1940)
GIA' COLGONO I NERI FIORI DELL'ADE
Già colgono i neri fiori dell'Ade
i fiori ghiacciati viscidi di brina
le tue mani lente che l'ombra persuade
e il silenzio trascina.
Decade sui fiochi prati d'eliso,
sui prati appannati torpidi di bruma
il colchico struggente più che il tuo sorriso
che la febbre consuma.
Nel vento il tuo corpo raggia infingardo
tra vetri squillanti stella solitaria
e il tuo passo roco non è più che il ritardo
delle rose nell'aria.
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Figlio di un ricco proprietario terriero del Sussex di solide tradizioni conservatrici, Percy Bysshe Shelley fu fin da piccolo, quasi per contrappasso, uno scandalo permanente; si definì democratico, filantropo e ateo e lo gettò in faccia alla società borghese e filistea da cui era circondato; pubblicò le sue prime poesie da editori che poi rischiarono l'incriminazione; stregò una fanciulla di sedici anni, Harriet e fuggì con lei ad Edinburgo, per lasciare poco dopo e andare a convivere, stavolta in Europa, con Mary, la figlia del filosofo Godwin.
In Italia si invaghì della fiorentina Emilia Viviani, una delle sue muse poetiche.
L'irrequietudine stava forse per placarsi quando Shelley trovò la morte nel mare del golfo dei Poeti l'8 Luglio 1822; le onde in tempesta che avevano affondato la barca restituirono il cadavere qualche giorno dopo la disgrazia.
Il poeta fu cremato e seppellito a Roma accanto a Keats, nel cimitero acattolico di Testaccio, sotto la Piramide di Caio Cestio, dove si trovano anche le ceneri di Antonio Gramsci.
Shelley incarna il paradigma del poeta romantico nel grado più puro e assoluto, con i connotati comuni della vita breve e al calor bianco, vissuta al di sopra del bene e del male, degli amori folli e promiscui, della rincorsa dell'ideale, dell'esilio, della vita nomade, della sepoltura metaforicamente o realmente “illacrimata”.
Per tutto l'Ottocento l'ammirazione per Shelley fu, in realtà, un altarino da tenere gelosamente nascosto, e quindi anche in parte il frutto dell'ipocrisia britannica.
La critica novecentesca lo ha ristudiato a fondo, reintegrandolo nella tradizione come sommo poeta lirico, e privilegiando in lui gli apporti della filosofia scettica, la revisione del pensiero platonico e l'intimo e irrisolto dualismo di una personalità complessa.
Pubblichiamo l'introduzione di : A Jane il ricordo (2 Febbraio 1822), che sintetizza al meglio il pensiero di questo poeta.
Ed ora l'ultimo di molti giorni,
tutti belli e brillanti come te,
il più splendido e l'ultimo, è morto.
Sorgi Memoria, e scrivi la sua lode!
Forza, al lavoro! Vieni, traccia
l'epitaffio della sua gloria;
perché la Terra adesso cambia faccia,
e il Cielo è arcigno.
....
Now the last day of many days,
All beatiful and bright as thou,
The loveliest and the last, i dead.
Rise, Memory, and write its praise!
Up to thy wonted work! Come, trace
The epitaph of glory fled;
For now the earth has changed its face,
A frown is on the Heaven's brow.
....
Con la sua lunga vita, durata quasi novant'anni, Arthur Miller, nato a New York il 17 Ottobre 1915 e morto lo scorso 10 Febbraio, ha vissuto in pieno gli avvenimenti, le tragedie e le contraddizioni politiche e sociali del ventesimo secolo.
E' stato uno degli scrittori più importanti del nostro tempo, dallo spettro creativo ampio: in grado di passare dalla scrittura drammaturgica per la quale viene soprattutto ricordato (Morte di un commesso viaggiatore 1949; Il crogiolo 1953) al romanzo (Focus, 1945), e dalla scrittura di viaggio (Salesman in Beijng 1983) a quella saggistica (The Theatre Essay of Arthur Miller, 1978, 1986) e autobiografica (Timbebends; A Life 1987).
Dolorosamente formativi furono gli anni della sua giovinezza, in una famiglia ebrea improvvisamente colpita dalla crisi degli anni'20; e duri furono gli anni in cui, da studente, fu costretto a sperimentare lavori umili per potersi permettere gli studi universitari.
Miller è stato, lungo tutto il secolo,la coscienza pensosa e critica della scena americana: famoso drammaturgo, protagonista della cronaca come marito di Marylin Monroe, democratico convinto e sempre schierato in prima fila per le battaglie civili, umanitarie e politiche,
Se non il più importante, nel secolo di Eugen O'Neill e di Tenesse Williams, Miller è stato sicuramente uno degli importanti, cui fare riferimento durante la metamorfosi di un secolo troppo breve, perché gli autori trovassero il tempo e le occasioni necessarie per consolidarsi in scritture forti.
dal sito: http://www.repubblica.it/2003/e/gallerie/spettacoliecultura/artmiller/artmiller.html
Stelio Rescio (Calimera 1921 – Savona 2003) ha rappresentato, per un lungo periodo, un personaggio anomalo e scomodo, nel panorama vieppiù conformista della cultura savonese.
Sempre a cavallo tra la politica militante e la pratica culturale, Rescio è stato giornalista, scrittore, critico d'arte, organizzatore dell'avanguardia nelle arti visive.
Dal 1969 al 2000 il suo “Centro d'arte e cultura il Brandale”, sito nel cuore della Città Vecchia, è stato il punto di riferimento per intere generazioni di artisti.
La sua attività, in quel periodo, raggiunse punte di inarrivabile continuità sia sotto l'aspetto quantitativo (da Ottobre a Maggio, ogni 15 giorni, “vernissage” per due mostre), sia sotto l'aspetto qualitativo: dall'intricato dedalo di via Forni passarono i migliori esponenti dell'avanguardia italiana ed internazionale e, nel campo della poesia visiva, grazie anche alla collaborazione con Mirella Bentivoglio, il Brandale poteva ben essere qualificato come il punto d'eccellenza per tutto il panorama nazionale.
Rescio, nel frattempo, trovava la possibilità di organizzare grandi mostre per il Comune di Savona (fine anni'70, inizio anni'80: il grande ciclo del futurismo da Farfa ad Acquaviva alla Ferrero Gussago: futurismo che Rescio aveva contribuito, sul piano critico,a “sdoganare” da pesanti ed ingiustificati retaggi di ostracismo ideologico), scrivere su riviste specializzate come Alfabeta o Palomar, fare il corrispondente, prima dell'Unità e poi del Manifesto, svolgere una intensissima attività politica, passando dal PCI alla vicenda del PdUP – Manifesto ed, infine,a Rifondazione Comunista.
Un personaggio poliedrico, dalla grande carica umana, che Savona non deve dimenticare.
"Una storia operaia" di Stelio Rescio. (Da "Il Letimbro")
"Al non frettoloso passante che sarà tentato di metter piede in una libreria di Savona o della riviera potrà capitare d'imbattersi nella copertina multicolore di un libro in formato tascabile; la riproduzione del fresco, delicato dipinto di Ettore Canepa, ci restituisce in versione accattivante il muro sbrecciato di un "interno di paese" inconfondibilmente ligure: Spotorno. Difficilmente si sarebbe potuta trovare una più idonea apertura all'opera narrativa (la terza in ordine di tempo) di Bruno Marengo, "I figli di Madame Reverie", edito da "L'autore libri" di Firenze.
Non diversamente dagli altri centri disseminati lungo il litorale, l'estate risveglia la cittadina dal sonnolento trascorrere del tempo, restituendola al turismo balneare. Detto del luogo che fa da scenario alla vicenda, è da aggiungere che lo svolgimento narrativo, che si vale di una scrittura sciolta ma sorvegliata, prende le mosse dall'evento traumatico che ha coinvolto l'area savonese: la chiusura, dopo una crisi prolungata di una grande fabbrica, l'acciaieria che nei capannoni attorno agli altiforni accoglieva, un tempo ogni giorno, migliaia di lavoratori.
Il protagonista della vicenda, Ginetto, detto "Gin", è uno di loro; è un operaio di mezza età venuto su, per dirlo con un'espressione desueta, nella consapevolezza della sua condizione sociale. Ed è questo suo vissuto (il lavoro in fabbrica, l'insieme di relazioni e di valori a cui dà luogo) che si lascia alle spalle mentre, alla guida della sua vetturetta, procede lentamente verso Spotorno, "il rifugio dove leccarsi le ferite".
Attorno a questa figura emblematica si muovono gli altri personaggi di un piccolo mondo ritagliato al di fuori degli anonimi, spersonalizzanti agglomerati della città. In un racconto nel quale le diverse individualità, tratteggiate con affettuosa partecipazione, i casi personali e gli avvenimenti, lungi dal configurarsi come dati di cronaca, acquistano significato ed un respiro corale.
Abituale luogo d'incontro degli amici è la trattoria di Madame Reverie, la non più giovane proprietaria. Non manca (ma potrebbe essere diversamente?) il personaggio femminile, che è l'oggetto del desiderio di due giovani amici, "Archimede che deve il suo soprannome alla passione per la matematica, e Gin. E qui conviene fermarsi. Non fosse altro per non privare il lettore del piacere di apprendere lo svolgersi degli avvenimenti sfogliando le pagine del libro.
per approfondimenti sulla figura di Stelio Rescio su internet abbiamo trovato i due seguenti siti politici http://www.rifondazione.it/savona e http://www.circolorebagliati.it, un interessante articolo de La Stampa mentre non abbiamo trovato niente curato dal Comune di Savona!!
UNO SCRITTORE POLITICO
Bruno Marengo, spotornese classe 1943: un politico prestato alla scrittura o uno scrittore alla politica?
La nostra risposta è molto semplice: meglio un Marengo totalmente scrittore. Perchè l'idea che i suoi nuovi impegni politici, è stato appena eletto sindaco di Spotorno, possano limitarne la produzione letteraria, appare in sé negativa per l'intera cultura ligure.
Marengo arriva relativamente tardi alla letteratura, dopo un lungo apprendistato da “lettore”, appassionato di molti generi, ma soprattutto in grado di assimilare la lezione dei grandi poeti lirici della nostra terra: in particolare Sbarbaro e Barile.
Le sue opere, tutte tratte da una trasfigurazione esistenziale di tipo verista, presentano il sapore della Liguria di Riviera: fanno venire in mente il nostro arco di terra, sotto il pallido sole d'inverno, quando i paesi, avvolti nell'azzurro del loro paesaggio, appaiono immobili, ma vigili, nell'attesa degli eventi.
Sono gli eventi della piccola gente, la quotidianità, i gatti che attraversano la strada, gli amori dell'iniziazione sentimentale: non c'è, però, bozzetto in Marengo ma ricerca curata della personalità degli attori che mette in scena e degli sfondi sui quali agiscono la recita della loro vita.
Dall'esordio con “A Spotornoo” dedicato alle mitiche estati degli anni' 60, la scrittura di Marengo è via, via maturata, passando, soltanto per ricordare i passaggi principali di una produzione copiosa, all'immaginario orizzonte su cui sorge la “Cattedrale di Apenac”, ai personaggi di “vita” che frequentano “Madame Reverie”, fino alla trama sottile che tiene avvinto il lettore che caratterizza “Il mare che viene e che va”, l'ultima opera uscita, in ordine di tempo, da uno scrittore che si è ormai affermato come uno dei più importanti in Liguria.
Ettore Scola
Nasce nel 1931 in terra campana, a Trevico (Avellino), fa l’esperienza universitaria (giurisprudenza) e contemporaneamente si impegna nel campo del giornalismo.
Si destreggia con capacità nel campo della sceneggiatura (Il sorpasso di Dino Risi). È conosciuto come uno dei più prolifici ed attenti registi del cinema italiano, di quello però più vicino alla commedia all’italiana con graffianti caricature dei personaggi.
Utilizza il mondo e la realtà che lo circonda per far riflettere sulla vicenda umana, sia in termini di evo/involuzione individuale e collettiva sia in termini di costume. Dopo due film sull'alienazione con protagonista Mastroianni, Dramma della gelosia [(1970) storia della decadenza di un muratore, che ha ucciso involontariamente l'ex-amante e deve scontare un periodo di carcere, ma ne esce matto], e Permette? Rocco Papaleo [(1971) un semplice e onesto emigrato siciliano che a Chicago viene coinvolto in storie di vizio e delinquenza, alla fine delle quali si dà al terrorismo], Scola approfondisce l'argomento girando un film-inchiesta semidocumentario sulla condizione degli emigrati meridionali a Torino, Trevico-Torino Viaggio nel Fiat - Nam (1972), un po' Olmi industriale un po' Godard sessantottesco.
Offre allo spettatore scorci incredibili (pensiamo a Brutti sporchi e cattivi del 1976) degli anfratti della grande città o della provincia (C’eravamo tanto amati del 1974), nell’arco di tre decenni di vita vissuta o sognata.
La terrazza (1980) è un ritratto della borghesia intellettuale vent'anni dopo la dolce vita, dei suoi riti famelici di cibo e di sesso, vuoti e insulsi, trasportati da Scola sulla terrazza romana che ospita da vent'anni le cene party di intellettuali di sinistra, politici, giornalisti, scrittori, produttori, sceneggiatori a cui chiedono soltanto testi leggeri che facciano ridere, attori. Sono tutti cinquantenni falliti, abbandonati moralmente e qualche volta anche fisicamente dalle mogli, più o meno depressi da ossessioni e frustrazioni (un funzionario della televisione si suicida lasciandosi morire di fame), più o meno afflitti e consolati dal cerimoniale mondano.
Sempre impegnato politicamente, vicino alla figura di Ingrao, ha voluto anche rappresentare le vicende della trasformazione del PCI, con film come Mario, Maria e Mario del ’93, film poco riuscito (“pettinato” diranno i critici) scritto con la figlia Silvia, ingraiana pure lei.
In un film come La famiglia del 1987, storia di una famiglia della media borghesia attraverso le tappe della vita di un uomo. Distaccato e malinconico cronachista, Scola tocca i vertici esistenziali della sua carriera, e la visione marxista dell'irrazionale borghese si lega ad una più assoluta visione dell'irrazionale umano.
Straordinario, lento e claustrofobico nell’impossibilità umana al cambiamento è Una giornata particolare, del 1977, dove sullo sfondo dell'epoca fascista (l’incontro a Roma di Mussolini ed Hitler) descrive la vana relazione fra una casalinga sfruttata e un omosessuale perseguitato, lei destinata a tornare fra le braccia brutali del marito e lui destinato ad essere deportato, dopo una fugace quanto improduttiva scena d’amore. Troviamo un intimismo crepuscolare che sfuma in un poetico omaggio agli umiliati.
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, nata ad Alessandria nel 1876 e morta a Roma nel 1960, fu poetessa di teso e raffinato lirismo.
Dalla vita inquieta e passionale (spicca, nella sua biografia, la tempestosa relazione con il poeta Dino Campana) la Aleramo si dedicò, fin dagli esordi, al riscatto sociale dei ceti più umili: accanto a Giovanni Cena, partecipò all'opera di alfabetizzazione dei contadini dell'Agro Romano.
Esordì nel 1906 con un romanzo programmaticamente femminista, Una donna, dove già si intrecciano le componenti principali della sua personalità: la sensibilità sociale e la prorompente carica autobiografica ed individualistica.
Questo conflitto interiore segnò anche il resto della sua opera, sia in prosa (Il Passaggio del 1919, Amo dunque sono del 1927) sia le raccolte di versi (Selva d'amore del 1947 e Luci della mia sera del 1956).
Proprio da Luci della mia sera, pubblichiamo “E' il lavoro, oggi l'aurora”, apparsa per la prima volta nel 1950 sulla rivista culturale del PCI “Rinascita”.
Oggi L'aurora
Entro il mio cuore
la tortura, oh tutta la tortura
del mondo patita
geme ch'io in parole la redima,
e io perdutamente balbetto,
il mio cuore ancora in sé sente
le infinite morti
da uomini inferte a uomini,
gli anni trascorrono
e sempre nel ricordo l'orrore
e sempre l'insostenibile vergogna
e sempre in me il gemito,
vano gemito anziché parole,
e il terrore che anche il più grande canto
vano pur esso sarebbe,
che mai l'ascolterebbe
se nuovamente domani sul mondo
la tortura infierisse
infanzia e vecchiaia insiem cancellando
e tutte le speranze?
Speranza aurora!
Chi guarda ancora l'aurora?
Mio cuore, tu lo sai!
E non è per essa che ancor batti?
Tanti e tanti e tanti,
vicino a te e lontano
ogni dì s'alzano e non armi impugnano,
o forse armi sono,
martelli, vanghe,libri
e vanno con questi lor vivi arnesi,
la terra è tutta un cantiere,
ogni dì è lavoro,
quanto lavoro su la terra intera,
da secoli da millenni
curvo era sino a ieri
ma ora di sé è fiero
s'anche duramente ancor soffre e lotta,
ben saldo nel voler mai più
guerre né torture,
nel volere il mondo
trasformato in fraterno giardino,
oh mio cuore, più non devi gemere,
abbi fede, tu vedi,
è il lavoro oggi l'aurora!
Emily Dickinson (1830 – 1886) nacque ad Amberst (Massachusetts) da una famiglia borghese. Dopo gli studi superiori trascorse tutta la vita nella casa del padre, in un volontario isolamento, dedicandosi alla lettura e a un'interrotta sperimentazione poetica.
Il suo unico canale comunicativo con il mondo esterno fu un'intesa corrispondenza, attraverso la quale intrecciò profonde amicizie ed appassionati amori.
Quando morì, solo sette delle sue composizioni erano state pubblicate.
Le sue liriche, dense ed ardite, quanto la sua vita appare priva di rilevanti avvenimenti esterni, sono considerate oggi tra le più grandi della poesia moderna.
La prima completa edizione critica è uscita soltanto nel 1955
Pubblichiamo, di seguito, questa poesia del 1862, dedicata al tema della morte, ricorrente nell'opera di Emily Dickinson.
Sentivo volare una mosca – quando morii
Sentivo ronzare una mosca – quando morii-
l'immobilità della stanza
era come l'immobilità dell'aria
tale folate dell'uragano -
gli occhi attorno – si erano prosciugati
e i respiri si raccoglievano fermi
per l'ultimo assalto – quando il re -
si sarebbe rivelato – nella stanza -
lasciai in eredità i miei ricordi – diedi via
ogni parte di me che fosse
assegnabile – e poi avvenne:
si interpose una mosca -
come azzurro – incerto incespicante ronzio -
tra la luce – e me -
e poi le finestre mancarono – e poi
non potei vedere di vedere.
Cap 21 In quel momento apparve la volpe. "E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>..." "La mia vita e' monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio'. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara' illuminata. Conoscero' un rumore di passi che sara' diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara' uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu' in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e' inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e' triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sara' meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e' dorato, mi fara' pensare a te. E amero' il rumore del vento nel grano..." … Cosi' il piccolo principe addomestico' la volpe. "Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". | ||
Dino Campana, nacque a Marradi (Firenze) nel 1885. Visse una giovinezza travagliata, che lo portò ad interrompere gli studi di chimica all'Università di Bologna e ad un ricovero al manicomio di Imola (1906).
Dopo una serie di vagabondaggi per il mondo (Svizzera, Belgio, Russia, Argentina) svolgendo i mestieri più disparati ed un altro ricovero in clinica psichiatrica (1909: Firenze), tentò di riprendere senza fortuna gli studi universitari.
Nell'autunno del 1913 portò a Firenze per consegnarli ad Ardengo Soffici e a Papini il quadernetto dei suoi “Canti Orfici”, ma nella primavera successiva fu costretto a riscriverli perché Soffici aveva perduto il manoscritto.
Nello stesso anno (1914) Campana fece pubblicare la sua opera prima, a proprie spese, da un tipografo di Marradi.
La tumultuosa relazione con la poetessa Sibilla Aleramo (1916 – 1917) rappresentò il preludio al definitivo ricovero nel manicomio di Castel Pulci, dove il poeta morì nel 1932.
Molti dei suoi scritti, composti nel periodo del ricovero, uscirono postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti Orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto fiorentino (1960).
Campana fu l'ultimo esponente di una vivisità enfatica, di tradizione carducciana, che assunse, nei suoi versi, le connotazioni dell'allucinazione, della fantasia onirica, della trasfigurazione delle immagini.
Pubblichiamo un frammento di “Genova”, dai “Canti Orfici” (Campana abitò a Genova nel 1912, in piazza Sarzano e Camillo Sbarbaro ricordava di averlo incontrato, un giorno, proprio in quel luogo).
Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l'anima partita
Che tutto a lei d'intorno era già arcana-
mente illustrato dal giardino il verde
Sogno nell'apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udii canto udii voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblio parvero ai proni
Umani ancora largire: dai segreti
Dedali uscii: sorgeva un torreggiare
Bianco nell'aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni del mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio
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Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi nel la
lavagna cinerea
Dilaga la piazza al mare che addensa le navi.......
28/12/2004 la scrittrice Susan Sontag
Divenne famosa negli anni Sessanta
per la sua passione femminista e le sue
lotte contro la guerra in Vietnam
NEW YORK - La scrittrice americana Susan Sontag è deceduta a New York. Ne ha dato notizia il Memorial Sloan-Kettering Cancer
Center dove era ricoverata per leucemia. La Sontag, nata a New York 71 anni fa, divenne famosa negli anni Sessanta per la sua passione femminista e le sue lotte contro la guerra in Vietnam. Nel suo lavoro di scrittrice si amava definire una «moralista ossessiva» e una «zelota della serietà». Fra le sue opere più note uno studio del 1964 sull'estetica dell'omosessualità dal titolo «Notes on Camp». Forti le sue prese di posizioni in difesa della libertà di espressione dopo la fatwa di Khomeini contro lo scrittore indiano Salman Rushdie. Nel 1993 andò a Sarajevo sconvolta dalla guerra e produsse lo spettacolo teatrale «Aspettando Godot».
(Corriere della sera on line del 28/12/2004)
Un articolo del New York Times
Eugenio Montale, nato a Genova nel 1896, morì a Milano nel 1981.
Richiamato al fronte nel 1917, dopo la guerra si trasferì a Firenze, dove nel 1928 fu nominato direttore del Gabinetto scientifico – letterario Viesseux.
E' fra i firmatari del manifesto antifascista (1925) promosso da Benedetto Croce, e frequenta il celebre caffè delle “Giubbe Rosse”, ritrovo dell'avanguardia culturale italiana dell'epoca.
Collabora a numerose riviste fiorentine, e pubblica, nello stesso anno la sua raccolta forse più nota, “Ossi di Seppia”.
Nel 1939 esce “Occasioni”, nel 1943 “Finisterre”.
Aderisce al Partito d'Azione, e nel 1948 entra al Corriere della Sera, svolgendo anche attività di critico musicale.
Fra le altre raccolte, la bufera (1956), Satura (1971), e Quaderno dei quattro anni (1977).
Nel 1975 gli viene conferito il Premio Nobel.
Legata ad una poetica del “negativo”, l'opera in versi di Montale si sviluppa in un linguaggio chiuso e però di intensa indagine psicologica, per immagini lampeggianti e di stoica modernità.
Fra le sue prose, la “Farfalla di Dinard” (1956) e Auto da fè (1966).
Sull'opera di Montale (come degli altri grandi poeti del 900 italiano: da Campana a Sbarbaro ad Ungaretti) è recentemente uscito, presso le edizioni di San Marco dei Giustiniani, la ristampa del celebre saggio “Otto Studi” di Carlo Bo, al quale rimandiamo coloro volessero impegnarsi in un serio approfondimento critico.
In questa occasione pubblichiamo:
“Lo sai: debbo riperderti e non posso” da Occasioni del 1939
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzio lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia sui vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.
Le foto sono tratte da un sito web molto completo che consigliamo di esplorare: http://art.supereva.it/eugeniomontale/index.html
Angiolo Barile, raffinatissimo poeta e prosatore, nato ad Albissola Marina nel 1888 ed ivi deceduto nel 1967, deve essere ricordato come l'interprete di una “melanconia” tipica della nostra terra, di una visione della vita che rispecchia l'essenza delle grigie giornate della Riviera d'inverno.
Collaboratore di “Solaria” e fondatore con A:Grande di “Circoli” scrisse versi di intensa e dolorosa religiosità, in uno stile fortemente simbolico.
Ricordiamo la raccolta di Primavera (1934) ed ancora Quasi sereno (1957) e Poesie (1965).
In prosa ha lasciato: Al paese dei vasai, uscito postumo nel1970.
Uomo politico, dotato di grande rigore morale, fu Presidente della Provincia di Savona negli anni'50: gli è stata dedicata la sala delle adunanze del Consiglio, nel Palazzo Nervi.
Particolarmente intenso fu il suo sodalizio con Eugenio Montale: recentemente il carteggio intercorso tra i due grandi poeti tra il 1920 ed il 1957 è stato raccolto in volume, a cura di Costa ed Astengo, e pubblicato (2002) per i tipi di Rosellina Archinto.
Pubblichiamo di seguito “Neve” (da Poesie 1965)
Da noi la neve è festa
rara. Quando sorprende
il paese che dorme
ci si risvegli attoniti, in un chiaro
ch'è d'altro cielo: una calma vacanza.
Tra le barche che fan siepe
lungo la strada
orme vanno alla spiaggia, il mare fuma
lontano – a tratti dagli orti uno sparo.
Esco un mattino in quel candore e vedo
- a un passo su un'isola di luce -
una fanciulla, fiore
della contrada,
che legge, ferma, una lettera (giunta
da che paese colorato?).
Ignara
della gente per la via,
e di me che la guardo, e della neve
che la incornicia,
legge e gli occhi le ridono. Li leva
a un punto, muove
verso quel punto le labbra, ecco parla,
con uno parla che le solo vede
ode lei sola come nei miracoli.
Tanta neve è caduta
da allora! Tanta neve
fradicia e pesta ho sul cuore. Non so,
veramente non so
da che angolo incolume mi ride
quella bambina.
Milena Milani, nata a Savona nel 1922, va indicata, ancora oggi, come la scrittrice italiana che meglio ha saputo trasferire in una specie di “confessione in pubblico” le irrequietezze della sua condizione femminile, a partire dalla “Storia di Anna Drei” (1948) con la quale vinse il Premio Mondadori.
Seguirono “Emilio sulla diga” (1954) e la sua opera più celebre “La ragazza di nome Giulio” (1964), un romanzo incappato all'epoca nelle maglie della censura per la scabrosità dell'argomento trattato.
Da ricordare, oltre al libro “La Rossa di via Tadino” (1979) la sua intensa attività nel raccordare letteratura ed arti visive, quale protagonista della grande stagione albisolese degli anni'50 con Mazzotti, Jorn, Fontana, Lam: era il periodo della sua seconda presenza dalle nostre parti, dopo quella che ne aveva segnato la fanciullezza, in precedenza al trasferimento a Venezia all'inizio degli anni'40.
Recentemente Milena Milani ha donato alla Pinacoteca di Savona l'importante raccolta d'arte del suo compagno, Carlo Cardazzo, uno dei principali galleristi italiani recentemente scomparso.
Il 30 giugno 2004 Milena Milani riceve il premio 'Goffredo Parise' per la narrativa per 'Venezia del cuore'.
In questa occasione pubblichiamo l'incipit di un racconto di Milena Milani, scritto in una occasione particolare: nel 1955 uscì il settimanale sportivo “Il Campione”, che tentò di unire cultura e sport in una dimensione del tutto originale per l'epoca (il settimanale era ispirato dalla redazione delle pagine sportive dell'Unità, a quell'epoca di altissimo livello letterario).
Sul n.4 della rivista, pubblicato il 10 Ottobre 1955, comparve così l'unico racconto “sportivo” di Milena Milani, di cui riportiamo le prime righe (si pensi che, in quello stesso numero, la cronaca della partita Fiorentina – Inter, terminata 0-0, fu firmata da Vasco Pratolini).
“ Stavo alla finestra tutto il tempo, e mia madre continuava a chiamarmi. “Devi studiare” diceva, “Devi fare buona figura”.
Sul tavolo i libri nuovi, comperati da poco, quelle copertine lucide di cartone, la penna, le matite, e anche un diario scolastico, che ogni giorno portava scritto quello che si doveva fare.........
.......”Non c'è niente” diceva mia madre, “questo campo offre poco, è meglio che tu studi, è sciocco perdere tempo alla finestra per guardare i gatti”.
Io lo sapevo benissimo, ma appena possibile continuavo a starci......
......Un pomeriggio mia madre uscì e nel campo vennero i ragazzi a giocare a pallone.
Vidi Michele prima degli altri, abitava in una calle poco lontana e frequentava la mia stessa classe, ma nella sezione B, io ero nella A.....
(da Michele ha fatto un goal, Milena Milani 1955)
Un indirizzo web utile: http://www.caldarelli.it/fotografia/milani.htm
IL CONTESTO STORICO NEL QUALE FIORISCE IL FUTURISMO DI F. T. MARINETTI
Le conquiste scientifico-tecnologiche della seconda metà dell'Ottocento introducono in Europa grandi trasformazioni.
- La diffusione del motore a scoppio e dell'elettricità, il potenziamento dei trasporti, l'utilizzazione del telegrafo e del telefono, il grande sviluppo della produzione industriale e dell'economia svecchiano la società che diventa moderna.
I grandi conflitti armati sono conclusi; gli interessi degli Stati sono rivolti ad altre affermazioni.
Ma tra la fine del secolo ed i primi del Novecento nuovi orientamenti scientifici e filosofici portano a notevoli cambiamenti:
la fiducia incondizionata nella scienza e nella ragione crolla;
il determinismo positivista entra in crisi;
il relativismo di Einstein, la teoria dei "quanta" di Planck, il pensiero di Bergson fanno vacillare precedenti certezze;
tendenze nazionaliste e imperialiste da un lato (Bismarck) e rivoluzionarie dall'altro (Sorel) mettono in discussione la democrazia parlamentare;
un individualismo spesso aristocratico, rivolto a soddisfare esigenze da esteta o ad indagare nel misterioso universo interiore (Nietzsche e Freud) si fa strada di fronte a istanze operaie sempre più pressanti.
L'Italia, impegnata a risolvere i suoi problemi interni derivanti dall'unità nazionale da poco raggiunta, appare, rispetto all'Europa, arretrata economicamente e culturalmente. Qui il decollo industriale avviene all'inizio del Novecento.
In questo contesto compare F.T. Marinetti, che aveva respirato l'aria cosmopolita di Alessandria d'Egitto ed aveva vissuto a Parigi i fermenti di una cultura e di una società moderne.
Dotato di vivacissima intelligenza, di temperamento vulcanico e di notevoli risorse economiche, si propone di sconvolgere tutti i modelli definiti "passatisti" e di "modernizzare" arte, cultura, vita, secondo un progetto globale, che vuole provocatorio e dissacratore, per imporlo così all'attenzione, e che chiamerà Futurismo. Il 20 febbraio 1909 Marinetti pubblica a Parigi sul Figaro il Manifesto di fondazione del Futurismo.
I futuristi fanno grande opera di divulgazione del loro pensiero diffondendo continuamente manifesti e adottando il criterio dell'insistente presenza attraverso tutti i canali possibili.
Il nome del Futurismo corre così in tutto il mondo; mai scuola, ma movimento da far conoscere con una capillare informazione, esso si identifica come fenomeno di avanguardia. I manifesti futuristi sono tradotti in Germania, Russia, Giappone e in molti altri paesi.
Via via che si diffonde nelle varie nazioni il Futurismo assume anche caratteri originali. Il movimento riveste particolare importanza in Russia. Natalia Gontcharova nel 1911 conosce i manifesti del Futurismo che definisce l'arte dell'avvenire. Nascono l'egofuturismo (1911) con Severianine e il cubofuturismo. (Nel 1913 i cubofuturisti organizzano degli eventi ispirati alle "Serate futuriste").
La sua diffusione interessa poi varie province dello stato sovietico, la Polonia, la Jugoslavia. Negli anni 1912-13 i pittori futuristi espongono a Parigi, Londra, Bruxelles, l'Aja, Amsterdam, Amburgo, Monaco, Berlino, Vienna, Rotterdam e Chicago.
La Francia e l'Inghilterra ospitano spettacoli futuristi italiani e danno vita ad esperienze futuriste. Si ricordano fra le iniziative la mostra di Boccioni a Parigi e la pubblicazione del manifesto della lussuria di V. de Saint Point, destinato a suscitare forti reazioni. La Closerie de Lilla diventa un centro di propaganda futurista.
Il movimento influenza anche attività artistiche ispano-americane, portoghesi, giapponesi.
Un aspetto, però, distingue nettamente il Futurismo italiano da quello di altri paesi. In Italia esso convive col Fascismo, anzi, salvo rare eccezioni, lo supporta, mentre fuori d'Italia fa prevalere la sua anima libertaria e rivoluzionaria (ad es. con Majakovskij in Russia).
Fonte documentale IE.R.RE
Roma
Cento artigiani artisti celebri Cooperativa Vetraria et Ceramisti Futuristi Albissola riuniti pranzo futuristi oltre facendosi interpreti intera cittadinanza plaudenti mi pregano esprimerti loro entusiasmo et assoluta devozione affettuosamente
Altare (Savona) 9 agosto 1932»
Fonte documentale la repubblica letteraria
Guido Gustavo Gozzano (che si fece poi chiamare soltanto Guido) nasce a Torino il 19 dicembre del 1883. Si iscrive alla facoltà di legge, ma non giunse mai a laurearsi e preferì interessarsi di letteratura seguendo all'università di Torino i corsi di Arturo Graf insieme ad un gruppo di giovani con cui successivamente costituì il gruppo dei crepuscolari torinesi.
Lo scrittore, di salute malferma, non ebbe mai un lavoro fisso, ma partecipò alla vita culturale e mondana della Torino di inizio secolo. Nel 1907 rivela la sua necessità di rifugiarsi nella poesia rifuggendo le aspirazioni mondane pubblicando La via del rifugio. Qui lontano da mire intellettualistiche, rivela la sua originalità come nei due componimenti Le due strade e L'amica di nonna Speranza.
Nello stesso anno ha inizio la sua relazione con la scrittrice Amalia Guglielmetti, ma andranno peggiorando le sue condizioni di salute che lo porteranno alla tubercolosi. Nel 1911 appare il suo libro più importante I colloqui i cui componimenti furono disposti in tre sezioni: Il giovanile errore, Alle soglie e Il reduce.
Per tutto il corso della sua vita Gozzano collaborò a giornali e riviste con recensioni letterarie, fiabe per bambini, (I due talismani 1914, La principessa si sposa 1917) e novelle (L'altare del passato 1918, L'ultima traccia 1919).
Muore a Torino il 9 agosto 1916.
tutte le poesie e le raccolte di G. Gozzano si possono trovare all'indirizzo web: http://www.liberliber.it/biblioteca/g/gozzano/tutte_le_poesie/html/
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un'altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!
L'una, senz'abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!
Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Un mio gioco di sillabe t'illuse.
Tu verrai nella mia casa deserta:
lo stuolo accrescerai delle deluse.
So che sei bella e folle nell'offerta
di te. Te stessa, bella preda certa,
già quasi m'offri nelle palme schiuse.
Ma prima di conoscerti, con gesto
franco t'arresto sulle soglie, amica,
e ti rifiuto come una mendica.
Non sono lui, non sono lui! Sì, questo
voglio gridarti nel rifiuto onesto,
perché più tardi tu non maledica.
Non sono lui! Non quello che t'appaio,
quello che sogni spirito fraterno!
Sotto il verso che sai, tenero e gaio,
arido è il cuore, stridulo di scherno
come siliqua stridula d'inverno,
vôta di semi, pendula al rovaio...
Per te serbare immune da pensieri
bassi, la coscienza ti congeda
onestamente, in versi più sinceri...
Ma (tu sei bella) fa ch'io non ti veda:
il desiderio della bella preda
mentirebbe l'amore che tu speri.
Non posso amare, Illusa! Non ho amato
mai! Questa è la sciagura che nascondo.
Triste cercai l'amore per il mondo,
triste pellegrinai pel mio passato,
vizioso fanciullo viziato,
sull'orme del piacere vagabondo...
Ah! Non volgere i tuoi piccoli piedi
verso l'anima buia di chi tace!
Non mi tentare, pallida seguace!...
Pel tuo sogno, pel sogno che ti diedi,
non son colui, non son colui che credi!
Curiosa di me, lasciami in pace!
Desiderate più delle devote
che lasceremmo già senza rimpianti,
amiche alcune delle nostre amanti,
altre note per nome ed altre ignote
passano, ai nostri giorni, con il viso
seminascosto dal cappello enorme,
svegliando il desiderio che dorme
col baleno degli occhi e del sorriso.
E l'affanno sottile non ci lascia
tregua; ma più si intorbida e si affina
idealmente dentro la guaina
morbida della veste che le fascia...
Desiderate e non godute - ancora
nessuna prova ci deluse - alcune
serbano come una purezza immune
dalla folla che passa e che le sfiora.
Altre, consunte, taciturne, assorte
guardano e non sorridono: ma sembra
che la profferta delle belle membra
renda l'Amore simile alla Morte;
ardenti tutte d'una febbre e cieche
di vanità; biondissime, d'un biondo
oro, le cinge il pettine, secondo
l'antica foggia delle donne greche.
Per altre, il nodo greve dell'oscura
treccia è d'insostenibile tormento;
sembra che il collo, esile troppo, a stento,
sorregga il peso dell'acconciatura;
l'opera dei veleni in altre adempie
un prodigio purpureo: le chiome
splendono di riflessi senza nome
dilatandosi ai lati delle tempie...
Belle promesse inutili d'un bene
lusingatore della nostra brama,
quando una sola donna che non s'ama
c'incatena con tutte le catene;
quando ogni giorno l'anima delusa
sente che sfugge il meglio della vita,
come sfugge la sabbia tra le dita
stretta nel cavo della mano chiusa...
Le incontrammo dovunque: nelle sere
di teatro, alla luce che c'illude;
la bella curva delle spalle ignude
ci avvinse del suo magico potere;
e quando l'ombra si abbatté su loro
addensandosi cupa entro le file
dei palchi, il freddo lampo d'un monile
fu l'indice del duplice tesoro.
E le avemmo compagne, ma per brevi
ore, in vïaggi taciti, in ritorni,
le ritrovammo dopo pochi giorni
nei rifugi dell'Alpi, tra le nevi;
le ritrovammo sulla spiaggia, al mare,
dove la brama ci ferì più acuta:
ah! Per quella signora sconosciuta
ore insonni, nella notte, lungo il mare!...
Chi sono e dove vanno? Dove vanno
le crëature nomadi? Per quanti
anni, nel tempo, furono gli amanti
presi e delusi dall'eterno inganno?
Ah! Noi saremmo lieti d'un destino
impreveduto che ce le ponesse
a fianco, tristi e pellegrine anch'esse
nel nostro malinconico cammino.
Più d'un inganno lasciò largo posto
a più d'una ferita ancora viva...
Taluna - intatta - ci attirò furtiva
seco, ma per un utile nascosto;
altre, già quasi vinte, quasi dome,
nella nostra fiducia troppo inerte,
fantasticate quali prede certe,
furono salve, non sappiamo come...
Ed altre... Ma perché tanti ricordi
salgono dall'inutile passato?
Salgono col profumo del passato
da un cofanetto pieno di ricordi?
Ed ecco i segni, ecco le cose mute,
superstiti d'amori nuovi e vecchi,
lettere stinte, nastri, fiori secchi,
delle godute e delle non godute...
Desideri e stanchezze, indizi certi
d'un avvenire dedito all'ambascia
torbida che si schianta e che ci sfascia
rendendoci più tristi e più deserti...
Eppure, un giorno, questa febbre interna
parve svanire: quando ci si accorse,
tardi, di quella che sarebbe forse
per noi la sola vera amante eterna...
Tanto l'amammo per quel solo istante
ch'ella si volse pallida su noi
nell'offerta di un attimo, ma poi,
sparve, ella pure; sparve come tante
altre donne che passano, col viso
seminascosto dal cappello enorme
inasprendo la brama che non dorme
col baleno degli occhi e del sorriso...
Camillo Sbarbaro: "Nella vita come in trincea alzi la testa e fischiano le pallottole."
per una biografia completa vai al sito: http://www.parcoculturaletigullio.it/sbarbaro.htm oppure sulla nostra pagina
Dapprima fu, nell'immaginazione, un facciata rossa in un vicolo evitato. Ai radi uomini che accostavano il muro a viso in su, delle svergognate di sotto le persiane tenevano proposte oscene. [...] La prima volta fu con una che si sventagliava sulla soglia. Mi conduceva il cattivo compagno. Mi restò l'impressione che avesse gli occhi di vetro. Allora esisteva il Peccato. Si camminava distrattamente; poi si scantonava di colpo. Accoglieva all'entrare un archivolto e l'acre odore. [...] Apriva nelle ore di ressa uno sportello donde si ritirava la tessera come nei cinema usa; e una donna alla porta, con un toscano in bocca, contendeva l'ingresso alla stanzetta a pianterreno, dove in una cruda luce di acetilene le ragazze aspettavano. [...] Prendevo sempre la prima, strangolato dal desiderio e dalla vergogna. [...] I miei occhi vedevano carni brucianti dove non erano che povere nudità e scambiavano dei cencetti colorati per gonne fastose. [...] Se mi fossi sbagliato di sesso, io sarei stata una di loro; con questa sete d'un po' di gioia quotidiana mi sarei perduta; per un nastro, per uno specchietto; per meno. [...] Vico Crema tiene nella mia vita il posto che, per altri, il ricordo del primo amore.
Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 12 gennaio 1888 - Savona, Ospedale San Paolo 31 ottobre del 1967)
Solo ciò che non si paga costa
Lo scontento di ciò che hai scritto è il concime di ciò che scriverai.
Nella donna lo commuove il seno: l'Abbondanza, ai suoi occhi di povero.
Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea.
Più facile scrivere che cancellare; più che in ciò che riesce a dire, il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere.
Una lettera d'amore che non fu aperta, la zitella.
Perché l'allacciano al polso, credono, il tempo, d'averlo a guinzaglio.
A proposito di "Cartoline in franchigia": ormai che è ricordo, riconoscenza alla guerra che per due anni mi distolse da me.
Anche oggi un lichene nuovo: il mondo non è finito di fare. [Sbarbaro era botanico di fama internazionale N.d.R.]
Alla spia della persiana, mio padre saltava su a spalancare finestre. L'aveva fatta lui, a vederlo, la bella giornata.
Non chiamarlo ratto, non ti farà più ribrezzo; chiamalo topolino, ti farà tenerezza.
Vanerella, la pianta del cece, sempre così azzimata. I figli le finiscono in minestre per poveri; ma lei chi l'ha mai vista senza i riccioli fatti
Inoffensiva, l'adolescente, a vederla: il ferro da stiro che, freddo alla vista, è rovente.
Felicità, ti ho riconosciuta al fruscio con cui t'allontanavi.
Non fare arte, lasciala farsi.
Nessun grido atroce all'orecchio come il silenzio dell'insetto sotto il dito che lo schiaccia.
Una cosa è quando è detta; è la parola che dà consistenza (e durata) al mondo.
Licenzio le bozze della mia ultima compilazione botanica: trenta anni di ricerche, centoventisette specie, nuove per la scienza. Ho dato anch'io una mano all'inventario del mondo.
Nella aiuole di Rapallo la scritta: RISPETTATE LE ROSE. Un imperativo finalmente accettabile.
Bolle di sapone, Sottovoce, Trucioli, Rimanenze, Scampoli, Fuochi Fatui... e se seguitassi: Spiccioli, Briciole, Quisquillie... mi denigro o più umile è l'atteggiamento, maggiore la superbia ?
Non dar dell'egregio: "uscito dal gregge" suona offesa agli altri, definiti così pecorame.
Leggersi, capacitarsi d'essere esistito.
Se eccesso di godimento è peccato, perdei l'anima per il boccale di birra in cui spensi una sete memorabile.
Ogni barca un nome di donna: i pescatori si affidano al mare su dichiarazioni d'amore.
Amico è con chi puoi stare in silenzio.
La viaggiatrice che s'accaparrava la mia attenzione è diventata innocua quando ho visto quel che leggeva.
Non è il dolore (come vogliono), è la gioia che fa buoni; anche un accenno di gioia. Non punge più quando è in fiore l'ortica.
Poesia, altro vizio solitario.
Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure 12 gennaio 1888 - Savona, Ospedale San Paolo 31 ottobre del 1967)