TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni

DISOCCUPATI  IN CRESCITA?   BORSE IN FESTA

 

Nella mia ormai non breve vita sono sempre stato colpito dal parallelo tra il taglio di posti di lavoro e l’euforia delle Borse. Ad ogni annuncio di licenziamenti per esuberi si innesca una pari esuberanza dei titoli dell’azienda che va in cura dimagrante. Non diversamente sono andate le cose nello scorso mese di marzo, il miglior mese borsistico da tempo immemorabile; e ciò proprio in concomitanza con la pubblicazione di statistiche sul calo a due cifre della produzione industriale anno su anno e su una valanga di lavoratori messi in cassa integrazione o di precari gettati brutalmente sul lastrico.

Qualche riflessione, a questo punto, si impone.

Vorrei soffermarmi innanzitutto su un termine che va molto di moda sulla bocca dei politici, ossia di quella classe che, invece, proprio non ne vuol sapere di sfoltire i propri ranghi: produttività. In parole povere, è sotto questa bandiera che ha avuto inizio e si è sviluppato il progresso materiale legato alla Rivoluzione Industriale: trasferire il lavoro manuale (e nella seconda metà del Novecento anche quello mentale) dall’uomo alla macchina. Non è stato un trasferimento facile, anzi. Il movimento luddista intravide subito la minaccia all’occupazione che il processo comportava; e tentò di opporre resistenza, ma fu travolto dalla “forza della storia”, che procede come un evento naturale, indifferente al destino dei singoli. Naturalmente, l’avanzata delle macchine fu giustificata come una liberazione dalla fatica e un aumento del tempo libero. Chi mai avrebbe potuto dissentire da questo fulgido traguardo, che affrancava l’uomo dalla schiavitù del lavoro, mentre prometteva di accorciare le distanze tra padrone e servo?

La fregatura, dapprima nascosta e poi sempre più evidente, fu che la macchina non solo sostituisce l’uomo; fa di più: sostituisce molti uomini. Quindi fa aumentare drammaticamente la produttività, che altro non è che il rapporto tra valore di mercato dei prodotti e costi di produzione. Peccato che tra questi ultimi l’incidenza di salari e stipendi sia una voce primaria; ergo, più posti di lavoro si tagliano e più alto è il profitto.

Sempre dalle labbra dei politici arrivano le esortazioni alla ricerca. Ma a ben guardare, buona parte della ricerca industriale è volta a ridurre i costi e ad aumentare i profitti. Come? Anche qui, è la riduzione della manodopera a far la parte del leone. Se invece si vuol tenere alta sia la produttività che l’occupazione  si delocalizzano gli impianti in Paesi dove resiste ancora la schiavitù e gli uomini lavorano per un pugno di riso, proprio come le macchine, che chiedono per marciare solo del carburante.

Dove vanno a parare, qui da noi, produttività e ricerca lo si vede nei grandi impianti, alle cui dimensioni crescenti spinge l’economia di scala. Questi impianti realizzano il sogno di ogni imprenditore: produzioni fiume con un manipolo di addetti. Vedi le raffinerie e le centrali elettriche. Peccato che l’economia di scala oltre un certo limite inverta direzione, a causa di tutte le diseconomie esterne, come le spese di trasporto, le perdite di trasmissione, l’inutilizzabilità dei materiali di scarto -come l’acqua di raffreddamento-, la concentrazione degli inquinanti, ecc. Nonostante tutto questo, i nostri governanti, tipici il ministro Scaiola e Berlusconi, spingono verso dimensioni sempre più mastodontiche, simboleggiate dalle centrali nucleari: mostri termodinamici di cui lasceremo le tristi e mortifere vestigia in eredità a centinaia di future generazioni; ammesso che il nostro “sviluppo” ne permetta il protrarsi nei secoli. Ma, si dice, tutti gli altri le fanno. Perché solo noi no? Tipico ragionamento democratico: se in tanti votano quel partito, significa che è nel giusto; quindi, i partiti piccoli vivono fuori dal mondo e piccoli devono restare, o meglio, sparire. Al massimo sono tollerabili come “coscienza critica”: una moderna vox clamans in deserto. Dopotutto, in un mondo globalizzato, non sono ammesse enclaves, non allineati.

Ma torniamo all’assunto iniziale. Dov’è finito il profitto che ricerca e produttività crescente hanno fatto maturare dall’inizio della Rivoluzione Industriale ad oggi? Dov’è finito il tempo libero che ne doveva essere il frutto più dolce? Il tempo libero è naufragato nelle code per spostarsi nel traffico o alle casse dei supermercati, condito con lo stress di una vita frenetica dove tutti sono “impegnati” a perdere il tempo che le macchine avrebbero dovuto liberare. Quanto al profitto, è finito in massima parte nelle tasche dei padroni dei mezzi di produzione, sia diretti che diffusi (azionisti), con la differenza che i secondi vengono regolarmente spogliati dei loro risparmi investiti in Borsa attraverso ritmiche quanto improvvise cadute dei listini, di cui beneficiano soltanto coloro che possono fare insider trading: i top dell’industria e della finanza, e i big della politica, che hanno accesso in anticipo alle notizie che influenzeranno i corsi azionari. Per tutti gli altri la Borsa è come una delle slot machines truccate che hanno rapinato tanti loro accaniti giocatori.

Ricordo l’atmosfera di denaro facile che girava nel 2000 anche a livello del pensionato e della massaia, con L’Espresso che mostrava in copertina ragazzi carichi di gadgets seduti spavaldamente su un’auto scoperta. Titolo, più o meno: e tu, quanto hai guadagnato ieri in Borsa? Poi arrivò l’improvvisa doccia fredda e la tosatura generale.

Allora, non esistono proprio strade meno perverse per uscire dalla crisi che puntare i propri soldi (se ce ne sono rimasti) su una Borsa che punta sulla prosperità delle aziende quanti più cassintegrati e disoccupati producono, in una sorta di gioco alchemico in cui il segno meno (per tanti) diventa miracolosamente segno più (per pochi)?

Credo di sì. Innanzitutto, risollevare le sorti delle aziende, e quindi dei lavoratori, investendo in una ricerca che faccia crescere la produttività non a spese del numero delle buste-paga ma al fine di migliorare la qualità dei prodotti, anche sotto il profilo della sostenibilità ambientale. Ormai è un luogo comune dire che bisogna cambiare il modo di produrre e cosa si produce. Ed è altrettanto acquisito che il campo di futuro sviluppo è quello delle energie rinnovabili, dei prodotti a basso impatto ambientale, ecc. È lì che dovrà rifluire la forza lavoro oggi espulsa dagli impianti tradizionali.

Tutti plaudono ad Obama che ha fatto di questi principi il nerbo della sua campagna elettorale e post-elettorale. Intanto però ci si svena per puntellare i buchi delle banche, grandi responsabili dell’attuale disastro, o per incentivare le rottamazioni di prodotti, come le auto, di cui i mercati sono saturi. Decisioni che cozzano contro i suddetti buoni propositi. Ma sono di breve periodo, si dice, per traghettare verso le decisioni sagge, di lungo respiro. Peccato però che nel contempo si opti, sul lunghissimo periodo, per il nucleare e, sul lungo, per i “termovalorizzatori”. Peccato che si insista nel voler vedere l’edilizia come un volano economico, incentivando l’uso del mattone, quando il mercato pullula di edifici, pubblici e privati, sfitti o adibiti a seconde e terze case, grazie alla logica che ha sin qui premiato il cemento come forma di accumulo e crescita della ricchezza.

C’è da sperare che il terremoto abruzzese convinca finalmente un governo filo-edile (come quello precedente era filo-bancario) a dirottare i fondi da faraoniche opere pubbliche come il ponte sullo Stretto verso il consolidamento del maggior numero possibile di edifici pubblici a rischio sismico, dando incentivi ad analoghe operazioni nell’edilizia privata, piuttosto che alle ritmiche rottamazioni di prodotti ridondanti.

Questi sì che sarebbero progetti lungimiranti. E creerebbero anche innumerevoli, e virtuosi, posti di lavoro, proprio in un campo dove la produttività (sotto il profilo del rapporto produzione/manodopera) è ancora bassa. La lezione de L’Aquila riuscirebbe nel sinora impossibile intento di conciliare il diavolo (il cancro edilizio) con l’acqua santa: il risanamento e la messa in sicurezza di gran parte delle nostre case e degli edifici di studio, di lavoro e di degenza. E ciò senza devastare il territorio, ossia il bene più prezioso che abbiamo, e riassorbendo lavoratori, oggi espulsi dai cantieri e dalle fabbriche, sia nelle opere di adeguamento ai più moderni criteri edilizi, sia nelle aziende di prodotti innovativi per la statica, l’isolamento termo-acustico, e tanti altri accorgimenti atti a migliorare la vita e la sicurezza nelle volumetrie esistenti.

Possibile che per cambiare strada ci vogliano sempre delle catastrofi, anziché una matura, preventiva saggezza?

 Marco Giacinto Pellifroni                                                                               12 aprile 2009