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L’ITALIA: PARADISO O

 PURGATORIO FISCALE?

  Marco Giacinto Pellifroni

 

Marco Giacinto Pellifroni

L’esito più notevole, insperato ed immediato del G20 è stato senza dubbio la decisa condanna dei paradisi fiscali e addirittura il loro elenco puntuale, con una zona nera includente quelli più remoti e famigerati ed una grigia in cui spiccano, per la loro novità, paesi come il Belgio e l’Austria, cui si appioppa lo stesso “rating” di altre ben più note contrade, come la Svizzera, il Lussemburgo, Montecarlo e San Marino. L’ammissione ufficiale della loro esistenza sconfessa tutti i grandi discorsi sulle piccole evasioni fiscali, spesso indispensabili alla sopravvivenza delle PMI, mentre porta di prepotenza alla ribalta le evasioni e l’espatrio di patrimoni da sei a nove cifre.   

E l’Italia? Che sia o no un paradiso fiscale dipende da cosa si intende col termine. Gli italiani possono esser suddivisi sotto questo profilo in due categorie: quelli che guadagnano troppo e quelli che guadagnano appena per campare. Per i primi l’Italia è un paradiso in quanto riescono ad occultare buona parte dei loro proventi, ma devono cercare un altro paradiso dove depositarli con un carico fiscale irrisorio. Per i secondi, l’Italia è un calvario, o, se si preferisce, un purgatorio, in quanto le maglie del fisco, larghe coi pesci grossi, diventano strettissime con quelli piccoli, come la miriade di partite Iva.

Il punto è che, per i politici e il fisco nostrani, queste due categorie ben distinte vengono messe sotto la stessa insegna di evasori fiscali. Il fisco in sostanza si comporta come gli enti pubblici di ogni ordine e grado, che preferiscono multare le infrazioni più facili da comminare e più rapide da incassare (vedi le contravvenzioni per divieto di sosta o gli autovelox); in ambo i casi fidando sull’impossibilità di rispettare regole irrealistiche ed anzi fatte apposta per essere violate e quindi sanzionate. Chi detiene le leve del potere tutto questo lo sa, ma continua a battere la grancassa dell’evasione fiscale, bollando di evasori sia la prima che la seconda categoria, ed anzi accanendosi maggiormente proprio sulla seconda, per l’estrema facilità di far pesca facile, rapida ed abbondante.

Propongo quindi per l’Italia una duplice etichetta fiscale: di paradiso, per la categoria degli esportatori di capitali, grazie alle maglie larghe dei controlli; di purgatorio per la seconda, che include pensionati, lavoratori dipendenti e autonomi, ossia la stragrande maggioranza, quella dei 18.000 euro l’anno di reddito medio. E nessuno brontoli per averci incluso gli autonomi, denunciando che spesso i titolari guadagnano meno dei dipendenti: specie di questi tempi, credo sia pressoché la regola.

Tornando al G20, potrebbe sembrare incongruente che l’ardore congiunto franco-tedesco contro i paradisi abbia trovato negli USA un tiepido sostenitore. Ciò in quanto è noto non solo il pressing della Merkel su Liechtenstein e Lussemburgo (in pratica banche al governo, come Montecarlo e Sanmarino) perché rendano noti i loro depositanti tedeschi, ma anche quello del fisco americano sulla Svizzera perché gli consegni la lista dei conti correnti dei suoi più pingui cittadini.

A questo proposito, penso sia utile riprendere le considerazioni da me svolte su queste pagine qualche mese fa, all’epoca dell’elezione di Barack Obama a presidente. Allora facevo notare che i migliori propositi, anche se sinceri, del neo-eletto avrebbero dovuto fare i conti con i suoi grandi elettori, ossia i poteri forti di Wall Street; perché non era minimamente pensabile che un oscuro senatore dell’Illinois potesse affrontare in prima persona i costi astronomici di mesi di primarie (contro Hillary Clinton) e poi di campagna elettorale contro il candidato repubblicano, senza l’apporto concreto di un ingente flusso di fondi da personaggi non certo noti per la loro magnanimità disinteressata: lo scandalo dei bonus non ha fatto che confermare l’avidità dei grandi capi della finanza e il disprezzo per qualsiasi ideale che non sia la vil moneta. Il loro appoggio ad Obama non poteva quindi che essere condizionato.  


Marco Sarli 

E Obama avrà dovuto firmare un patto ben chiaro, che non verrà mai direttamente alla luce, ma che si potrà decifrare in base alle mosse del suo firmatario, o meglio in base alle restrizioni che tali mosse subiranno. Voglio in tale quadro riportare quanto ha scritto il 2 aprile scorso Marco Sarli, capo ufficio studi dell’UILCA, nel suo “Diario della crisi finanziaria” (1), che egli tiene quotidianamente sin dal suo inizio, il 9 agosto 2007.  

< …quella ancora insondabile road map statunitense che cerca di salvare capra e cavoli, in base al mandato che i veri poteri forti d’Oltreatlantico hanno imposto al giovane e ambizioso avvocato di Chicago, in cambio del via libera al suo ingresso alla Casa Bianca. > 

Sempre all’epoca dell’ascesa al soglio presidenziale di Obama, indicavo nell’assegnazione del Ministero del Tesoro a Timothy Geithner, ex governatore della Fed di New York (oltre ad altri “mastini”) il chiaro intento di circondare il presidente di uomini di fiducia di quei circoli finanziari il cui cuore era rappresentato dalle varie investment banks, che la tempesta perfetta ha poi finito col trasformare in banche commerciali, anche se ritengo perderanno il pelo ma non il vizio di continuare a fare opera di pirateria finanziaria a spasso per il mondo, con l’Italia tra i più ambiti territori di caccia (in primis di Goldman-Sachs, che ha trasformato Gianni Letta, consigliere di fiducia di Berlusconi, in suo “consulente”, con operazione analoga a quella dei fiduciari di Wall Street attorno ad Obama: anche Berlusconi non dovrà “dispiacere” a Wall Street; né penso che la cosa gli tolga il sonno).

Prosegue Marco Sarli: < …se non vi fosse un simile mandato da parte di quel che conta a Wall Street e dintorni, non si capirebbe proprio il motivo della nomina al dicastero del Tesoro e della successiva e ripetuta difesa a spada tratta di quel Timothy Geithner che con Obama divide solo la relativamente giovane età (…) È proprio del tutto evidente che, senza la stipula di un simile patto, il pur bravissimo Obama non avrebbe vinto neanche le primarie. (…) Il patto che, a seconda dei punti di vista, può essere considerato più o meno scellerato, consiste nel tentativo di salvare il salvabile di quel che conta nel sistema finanziario americano in base ai seguenti punti fondamentali: 1) l’assenza di un vero accertamento, per via giudiziaria, delle pur gravi responsabilità dei vertici aziendali [in carcere è infatti finito solo Madoff, in quanto eclatante truffatore, NdR]; 2) il pagamento a piè di lista del salatissimo conto, senza pretendere di comandare, via nazionalizzazione più o meno dichiarata; 3) la piena collaborazione, sempre a spese del contribuente, all’altrettanto costoso processo di concentrazione di larga parte del sistema creditizio a stelle e strisce nelle sei entità al momento sopravvissute a quel durissimo processo di selezione, molto teleguidata, che ha lasciato in vita, appunto, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citigroup, Bank of America, J.P. Morgan-Chase e Wells Fargo…   >

Alla luce di tutto questo, destano fondate perplessità le ovazioni che circondano Obama nei ripetuti bagni di folla. E forse dimostrano di aver capito molto di più ciò che sta dietro alle belle dichiarazioni i manifestanti contro le ormai settimanali riunioni di personalità politiche e finanziarie in vari luoghi del mondo. I no-global hanno intuito molto meglio del popolo televisivo che chi deve comunque farla franca sono i grandi banchieri, che se la squagliano senza condanne penali ed anzi con buonuscite milionarie, per poi riapparire di qui a breve, ne sono certo, con la fedina penale intatta, a provocare chissà quali nuovi danni alla gente che lavora e risparmia onestamente. 

Ne discende che la strategia di Obama deve essere ondivaga: osa licenziare Wagoner, grande capo della General Motors, designato come agnello sacrificale, ma risparmia i banchieri. E non stento a credere che il discorso sui paradisi fiscali sia stato il principale ostacolo che ha minacciato di far saltare il comunicato congiunto del G20.

 Di certo non lo vuole Wall Street. E neanche Bankitalia, che tiene conti aperti alle Cayman. Il libro “O la Banca o la vita” (2) è molto esplicito sui canali segreti che portano a quei paradisi non solo i proventi dell’evasione, del terrorismo e della malavita, ma anche quelli del signoraggio bancario, sul quale non voglio ripetermi, avendone trattato ad nauseam in mie uscite da quasi tre anni. E Berlusconi: qualcuno pensa che in cuor suo detesti le isole delle società offshore? Quando parla di evasione fiscale, di certo non pensa a quelle, bensì alle PMI.

Ma, a prescindere dalla reale volontà di mettere in atto il lodevole proposito di delegittimare i vari staterelli canaglia, prendiamo per buono il comunicato finale che li bolla d’infamia e li condanna alla sparizione. Questo però significa che tutti gli anatemi scagliati per anni contro il movimento no-global dalla politica ufficiale erano fraudolenti e la ragione stava proprio dalla parte che si puntava a criminalizzare. Il che getta una ulteriore luce sinistra sui misfatti al G8 di Genova (3), quando sembrava che la globalizzazione fosse la soluzione di ogni nostro e altrui problema.

E adesso? Appurato che l’Italia non è nella lista dei paradisi fiscali, tant’è vero che i soldi di qui scappano e nessuno si sogna di portarceli, la smetteranno i nostri politici e gli uffici esattoriali di parlare di evasione fiscale riferendosi ai cittadini che si sudano quattro palanche, mettendosi invece di buona lena a cercarli nei porticcioli, nel PRA denso di auto di lusso e SUV, nelle ville dei big, nelle abitazioni fuori catasto, ecc. ecc.? Faranno un po’ più di fatica, ma sarà ampiamente ricompensata, anche dalla riconoscenza di coloro che sgobbano per arrivare a fine mese e che vedrebbero sgravate di almeno la metà le loro cartelle.  

Ultima nota: i condoni fiscali. Stante la pratica sin qui seguita e sopra esposta, ritengo siano indispensabili per rimettere la gente “normale” in carreggiata. L’ultimo condono, a dispetto di tanti fulmini dei benpensanti, ha salvato innumerevoli persone dal fallimento e dalla disperazione. Una volta entrati nel nuovo regime, e solo allora, i condoni, oggi una necessità, diventerebbero una pratica iniqua e da bandire.  

  

(1) Vedi: http://diariodellacrisi.blogspot.com/

(2)  Marco Saba, settembre 2008, Arianna Editrice

(3)  Gloria Bardi, Dossier Genova G8, 2008, Becco Giallo Ed.

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                                      5 aprile 2009