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Il lavoro non è un valore

di Milena Debenedetti


Si parte, tanto per cambiare, dall’ennesima battuta del nostro premier, un concetto reiterato più volte: bisogna lavorare di più, dobbiamo far lavorare di più gli italiani.

D’altra parte, lui stesso si mostra iperattivo e in tanti lo ammirano per questo. E’ tipico della mentalità delle sue parti, della mentalità meneghina, mettere il lavoro su un piedistallo, l’operosità, la solerzia, con una specie di adorazione intrinseca, indipendente da tutto. Quasi un concetto sacro e inviolabile, che ispira subitanea soggezione, che non si può contestare, che non prevede replica alcuna, o sarebbe bestemmia.  

Bene, non potrei essere più lontana da questo modo di pensare. Comprendo di più chi fa l’elogio della pigrizia. Senza pigrizia, senza volontà di lavorare meno, non ci sarebbero molte invenzioni, per esempio.

L’aspirazione dell’essere umano dovrebbe essere di faticare il giusto, in funzione di ciò che vuole ottenere, dal semplice sostentamento all’appagamento di esigenze,  bisogni meno elementari, aspirazioni ideali, sociali, creative, volontà di autorealizzazione. Eccetera.

 Ma non lo sgobbare fine a se stesso, sempre di più. O peggio, lo sgobbare a fini dannosi, come lo stesso premier.

Intendiamoci, io personalmente, pur apprezzando i momenti d’ozio, amo faticare, nell’orto come in casa come alla tastiera. Ma non me ne vanterei mai, non ergerei mai questo mio lavoro a barriera, a medaglia sul petto, a sfida verso gli altri. Semmai potrei essere orgogliosa dei miei zucchini o di un pavimento lucido o di ciò che ho scritto. Non di quanto vi ho faticato in sé. Mi sentirei scema a spiegare in dettaglio a qualche amico quante ore ho zappato, quanto ho sudato, quanto mi fa male la schiena, per ottenere apprezzamento e venerazione. Piuttosto  gli chiederei se i miei zucchini sono buoni, e sarei contenta e appagata se gli piacciono.

 Il lavoro è un valore inteso come risultati che si ottengono, per ciò che si realizza: non per il tempo e le energie impiegate.

Eppure, questa mentalità è così diffusa, che in generale, per esempio in uffici e industria privata, sono apprezzati gli sgobboni. O coloro, i tanti, che hanno furbescamente imparato la tattica dell’indaffaramento perenne. Cioè, utilizzare le proprie energie per mostrarsi sempre trafelati e impegnatissimi, pur quando non si ha niente da fare, e in media non lavorare affatto e non produrre alcunché. Fingere soltanto.

I capi apprezzano. Il lavoro non è una attività finalizzata, il lavoro è un fine. Se lavori cantando, tranquillamente, sei irrispettoso. Se ti mostri debitamente mesto e affannato, sei in linea con l’azienda.

In pratica un dipendente brillantissimo, che ottiene risultati eccezionali molto più velocemente degli altri e poi magari si mette a leggere il giornale per cinque minuiti, per quei cinque minuti è penalizzato e bollato di lavativo.

Colui che in una intera giornata non raggranella un accidente, ma si mostra stravolto e non si fa mai sorprendere inoperoso, è apprezzato e premiato.

Questo per l’incapacità del capo medio di valutare le persone, e soprattutto di valutare i risultati. Il tempo, cioè uscire regolarmente in ritardo la sera, regalando ore non pagate all’azienda, perché sappiamo che da un certo livello in poi lo straordinario non si paga,  e l’impegno vero o presunto, sono l’unico metro di giudizio.

Questo spiega molte situazioni disastrose nel mondo del lavoro, e spiega anche perché non si riesce ad affermare il telelavoro, che ridurrebbe gli spostamenti inutili, con vantaggi di tempo, inquinamento, qualità della vita, e consentirebbe alle persone di autogestirsi in funzione di obiettivi.

 Ma stiamo scherzando? Se il dipendente non lo vedi, se non ha il tuo fiato sul collo, se non lo guardi male quando timbra l’uscita, che manager sei?

 Ecco. Noi in Italia paghiamo oltremodo l’arretratezza di questa mentalità, così diffusa e apprezzata, specie al nord.

E il nostro premier, che in tempi di crisi di ordinativi e di consumi consiglia di lavorare di più, che ai disoccupati dice di cercarsi qualcosa da fare, non meglio specificato, magari nel commercio, come se il commercio non fosse in crisi, che tempo fa ai cassintegrati suggeriva di trovarsi un lavoro in nero…

Il nostro premier è prima di tutto un manager, un capo d’impresa, figlio di questa mentalità miope da padroni del vapore.

 Un vapore che fa acqua.

 Milena Debenedetti