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LA CIVILTÁ DEL SEGNO PIÙ

 

  Marco Giacinto Pellifroni

 

Marco Giacinto Pellifroni

Sul finire degli anni ’70 Lester Brown pubblicò un libro dal titolo “Il 29° giorno”. Parlava di una ninfea che ricopriva la superficie di uno stagno raddoppiandosi ogni giorno. Arrivata al 29° giorno, le bastava un solo giorno per ricoprire l’intero stagno, ossia l’opera di ricopertura svolta in tutti i 29 giorni precedenti. Chi avesse guardato la scena quel penultimo giorno avrebbe pensato che c’era ancora parecchio spazio, e quindi tempo, per correre ai ripari

 Secondo Brown, l’umanità era prossima al suo 29° giorno, ma pensava di avere molto più tempo per porre riparo ai guasti ambientali di quanto in realtà ne avesse. Forse Brown si sbagliava di uno o due giorni; e oggi, trent’anni dopo, ci siamo ulteriormente avvicinati al fatidico ultimo giorno, ma continuiamo a idolatrare la crescita, ossia il meccanismo che ci porterebbe ancor più spediti verso quella fatidica data.

Alla luce di quanto sopra, dovremmo interpretare come una salutare correzione l’apposizione del segno meno di fronte al PIL, dopo decenni di ininterrotto segno più. Una correzione che nessuno ha avuto mai il coraggio di decidere, in quanto non si è fatto che stimolare una produzione che, per non crollare, deve continuamente espandersi. Questa è la stessa logica perversa che spinge i regimi guerreschi a incalzanti conquiste territoriali, alla ricerca di materie prime atte a permettere produzioni col costante segno più. Si vagheggia una crescita infinita in un mondo finito, con risorse finite e capacità finite di accogliere i nostri crescenti rifiuti. Siamo così passati dalla fame per scarsità alla fame per sovrapproduzione.   

Il paradosso è talmente elementare che non si capisce come la razza umana, che ama distinguersi da quella animale e vegetale per il possesso della ragione, se ne riveli ben inferiore. Animali e piante seguono le leggi naturali, che non vietano l’espandersi di questa o quella specie, ma soltanto in un dinamico, regolato equilibrio con le altre popolazioni viventi. Noi invece abbiamo denaturato il nostro rapporto con l’ambiente, trasformato in fabbrica. Il che significa aver sostituito a tempi e modi di produzione limitati dalla cadenza umana quelli di macchine e impianti, progettati per produrre sempre più merci in un tempo sempre minore. Questo processo non trova riscontro in natura (o, laddove si instaura, come nei fenomeni di eutrofizzazione, degenera in scenari di morte) e ci ha condannati a dover cercare freneticamente sempre nuovi sbocchi per una quantità di “beni” sproporzionati ai nostri bisogni, secondo questi schemi:

a) inducendo nei Paesi consumatori nuovi e innaturali bisogni, attraverso condizionamenti comportamentali e culturali dettati da un incessante martellamento pubblicitario: per usare le parole di Massimo Cacciari, “spostando la domanda dai beni di grande utilità ai beni di grande futilità” (Pensare la decrescita, CantieriCarta, 2006);

b) facilitando il ricorso al credito al consumo per farvi accedere fasce sempre più larghe di cittadini, trasformandoli in perenni debitori, consumo-dipendenti;

c) fabbricando merci a obsolescenza programmata, intensificando la pratica dell’usa e getta, incoraggiata da ritmiche “rottamazioni”;

d) dettando mode variabili in tempi sempre più ristretti;

e) rendendo antieconomiche le riparazioni di oggetti riutilizzabili;

f) cercando oltre confine nuovi spazi di smercio delle eccedenze, nonché lavoratori semi-schiavi, sconvolgendo culture millenarie e devastando sempre maggiori porzioni del pianeta.

Sviluppo è parola del mondo organico, ma viene usata spesso come sinonimo di crescita. La crescita non ammette limiti, lo sviluppo sì. Lo sviluppo organico, dopo uno stadio di accelerazione, entra in una fase di maturità, a velocità costante, e poi decelera verso il declino.

Lester Brown
Questa legge, che vale per le nostre singole vite, non dovrebbe invece applicarsi all’insieme degli esseri umani, cui sarebbe consentito di moltiplicarsi senza sosta, con l’aggravante di un loro crescente ecological footprint (impatto pro-capite sull’ambiente espresso in ettari di territorio necessari al sostentamento e assorbimento delle scorie di ogni singolo individuo).  
Ivan Illich ricorreva a un bell’esempio per indicare la saggezza dello sviluppo naturale in confronto alla follia della crescita senza limiti: la lumaca. La crescita delle spirali del guscio avviene agli inizi in proporzione geometrica, finché a un certo punto la crescita rallenta, diventa cioè negativa, e procede in proporzione aritmetica, impedendo la creazione di un guscio troppo grosso e pesante per la futura esistenza della lumaca.

Orbene, assimilando al guscio della lumaca gli incrementi del PIL, la sua recente inversione di tendenza dovrebbe rappresentare per il mondo intero l’occasione propizia per fare finalmente quello che nessuno ha osato fare finora, gli industriali per generare profitti crescenti e i politici per non perdere voti e giocarsi la rielezione (la disgrazia peggiore dopo aver assaporato il nirvana dei nullafacenti), e cioè: diminuire e convertire la produzione, ridare impulso all’abilità manuale e suddividere il lavoro tra tutti, senza licenziare nessuno.

Il dogma finora imperante, e quotidianamente rimpianto dagli schermi TV, è stato ed è l’aumento della produttività. Il che significa produrre la stessa quantità di merci con meno addetti, o peggio, produrne di più con sempre meno addetti. Come si concili questo indirizzo con la pretesa di mantenere una stabile o addirittura crescente occupazione rimane un enigma volutamente insoluto. In effetti, gli sviluppi della tecnologia hanno aumentato enormemente la produttività, ma i proventi non sono andati che in minima parte ai lavoratori, restando congelati come profitti nelle tasche dei datori di lavoro. (*) Almeno una parte non trascurabile avrebbe dovuto tradursi in una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Ma questa è una bestemmia per la società lavoristica, perno del capitalismo, la cui avidità di profitti erige il lavoro a novella divinità (**). Il paradosso è che le macchine, che avrebbero dovuto ridurre le ore lavorative, le hanno invece aumentate (***); per cui, moltiplicando la maggior quantità di merci prodotte per il maggior numero di ore impiegate si ottiene, come già accennato, sovrapproduzione, disoccupazione e fame.  

I mezzi adottati dal capitalismo per raggiungere la massimizzazione dei profitti sono stati: il taglio all’osso dei costi e l’espansione costante dei consumi. Ho già fatto più sopra un elenco dei metodi adottati per intensificare il consumismo di massa. Il taglio all’osso dei costi si ottiene principalmente attraverso:

a) la standardizzazione dei prodotti, avvilendo l’artigianato e la manualità (essenziali per il ripristino d’uso di prodotti ricuperabili, ma nemici mortali dell’uso e getta);

 

b) esternalizzando le passività, ossia scaricando nell’ambiente, inquinandolo, gli scarti di lavorazione;

 

c) delocalizzando le attività produttive in Paesi a bassa o nulla attenzione per i diritti umani e sindacali;

 

d) perorando la promulgazione di leggi che consentano flessibilità e precarietà del lavoro;

 

e) ricorrendo in alcuni settori al reclutamento di manodopera illegale, sottopagata e priva di tutele sia salariali che di sicurezza sul lavoro.

 

Possiamo sintetizzare quanto sopra affermando, senza tema di smentita, che il “progresso” degli ultimi decenni è avvenuto a spese della natura e dei lavoratori (nonché degli stessi, anche dopo il pensionamento, con l’inflazione che taglia anno per anno il loro potere d’acquisto).

Circa le misure che i vari governi stanno mettendo in atto, esse sono tutte ancorate al sostenimento della produzione per mantenere i posti di lavoro. Non si vuole prendere atto che gli impianti sono sovradimensionati e a bassa intensità di manodopera. Tentare di combattere la disoccupazione mantenendo gli attuali volumi produttivi e l’esiguo numero di addetti significa non voler cambiare il sistema che sta portandoci verso il disastro sociale e ambientale. Se la gente ha dato chiari segni di non necessitare del volume di merci sin qui riversato sul mercato, che senso ha insistere in questa sovrapproduzione, solo “per dare lavoro”? La logica tuttora vigente vorrebbe che, se il prezzo delle case è crollato in quanto la gente non aveva la possibilità di acquistarle e sono finite all’asta, per mantenere l’occupazione nell’edilizia bisognerebbe dare incentivi all’industria edile per produrre nuove case, anche se sarebbero senza acquirenti. Analogo discorso vale per gli incentivi all’industria dell’auto, degli elettrodomestici, ecc.; né si vede quale settore e perché dovrebbe rimanerne escluso, visto che tutti “danno lavoro”. Dovremmo, in sostanza, buttar via apparati ancora funzionanti, trasformandoli precocemente in rifiuti, solo per creare occupazione, senza nessuna reale utilità. Non equivale ciò alla barzelletta  keynesiana di scavare delle buche per poi riempirle nuovamente?    

Dovremmo avere imparato che è una fata morgana quella di un progresso basato su merci a bassi prezzi grazie al saccheggio delle risorse naturali, al riversamento nell’ambiente degli scarti e ad impianti ciclopici per una falsa economia di scala, che privilegia solo le tasche dei proprietari dei mezzi di produzione, a scapito di tutti gli altri, cui si riservano solo misere briciole di presunto benessere. L’accentramento produttivo si è rivelato un distruttore di posti di lavoro, un trionfo dei monopoli su una sana concorrenza, nonché uno spreco di risorse per il trasporto merci su distanze sempre maggiori.

Uno dei primi settori sui quali puntare per una virtuosa decrescita è proprio quello dei trasporti, mediante le produzioni locali e il privilegio da riservare ai trasporti marittimi e su rotaia, anziché su gomma. Altro settore da scoraggiare è quello dei mille imballaggi per qualsiasi prodotto, incentivando la vendita di sostanze sfuse. Infine, va ridimensionato l’abbaglio della pubblicità, che punta ad una moltiplicazione indiscriminata dei consumi superflui.

Ridurre il volume di questi tre settori equivale a ridurre il consumo di materie prime ed energetiche. Certo, si ridurrebbe anche il PIL. E allora? Il calo del PIL è virtuoso finché corrisponde alla decrescita di beni drogati dalla pubblicità consumistica; diventa un nemico se varca la soglia dei bisogni primari. Solo per questi hanno un senso gli ammortizzatori sociali, già sin d’ora, per quanti sono stati o saranno sospinti nell’indigenza dall’avidità dei cultori della crescita.

 

(*) “In Francia nell’arco di due secoli la produttività oraria del lavoro è aumentata di 30 volte, la durata del lavoro individuale si è ridotta soltanto di ½ e l’occupazione è aumentata soltanto di 1,75 volte, mentre la produzione è aumentata di 26 volte. Si tratta di ribaltare le priorità: dividere il lavoro e aumentare il tempo libero.” Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena. Bollati Boringhieri 2007.

 

(**) V. la critica del lavorismo in Il diritto all’ozio di Paul Lafargue, 1887.

 

(***) Rimando chi nutrisse dubbi al riguardo a Marshall Sahlins: “I nostri antenati dell’età della pietra si accontentavano di tre o quattro ore di ‘lavoro’ al giorno per assicurare la sussistenza del gruppo.” Economia dell’età della pietra, Bompiani 1980. Senza andare così a ritroso nel tempo: “Mille ore all’anno erano la norma fino all’inizio del XVIII secolo, che fanno una media di circa 20 ore la settimana.” André Gorz, Capitalismo, socialismo, ecologia, Manifestolibri 1992.

Marco Giacinto Pellifroni                                                     15 febbraio 2009