NEGAZIONISMO E VERITA'

 

di Fulvio Sguerso


Le tesi negazioniste, riportate alla ribalta (confesso la mia difficoltà ad usare, in questo caso, sia pur ironicamente, l’espressione “agli onori”) della cronaca  dalle perentorie e  – almeno fino a questo momento - non ritrattate affermazioni del vescovo lefèbvriano monsignor Richard Williamson riguardo alla presunta esistenza e soprattutto al presunto uso delle camere a gas da parte dei nazisti  nel corso della seconda guerra mondiale, non pongono soltanto un’ aberrante questione storiografica ma  - come dimostrano appunto le reazioni indignate e le accese polemiche che quelle affermazioni e quelle tesi continuano ad innescare nel mondo della cultura e nel discorso pubblico – coinvolgono, tra l’altro, il rapporto tra ebrei e cristiani, tra cattolici e protestanti, tra cattolici tradizionalisti e cattolici modernisti, tra religione e politica e, su un piano teoretico (ma fino a un certo punto), tra discorso e verità. Ed è proprio su quest’ultima questione che meriterebbe fare, per quanto possibile, un po’ di chiarezza.

  I negazionisti negano, per esempio, che Hitler volesse veramente sterminare gli ebrei: la così detta “Soluzione finale” sarebbe consistita, secondo loro, in un programma di evacuazione, trasferimento e deportazione che mirava all’espulsione degli ebrei dall’Europa e non, quindi, alla loro eliminazione fisica; eliminazione, tra l’altro, controproducente in tempi di economia di guerra e di estremo bisogno di manodopera a costo zero da impiegare nelle retrovie. Ecco quindi la vera  funzione dei lager; che  si trattasse poi effettivamente di campi di lavoro e non di sterminio è attestato dalla scritta ben visibile posta all’ingresso dei campi medesimi: IL LAVORO RENDE LIBERI. Questi, a loro dire, sono fatti e non invenzioni della propaganda alleata. Inoltre, è vero o non è vero che i prigionieri erano spesso affetti da pediculosi? Normale quindi che venissero sottoposti a periodici trattamenti disinfettanti. Ecco spiegata la presenza di particolari docce adibite alla disinfestazione dei parassiti. E così via, e così via. Ma, si obietterà, queste affermazioni sono contraddette da innumerevoli documenti, fotografie, filmati, testimonianze di sopravissuti, sentenze di tribunali, memoriali, diari e lettere di ufficiali della Wehrmacht, ecc. Messi innanzi a tale mole di argomenti contrari alle loro tesi, i negazionisti non si perdono d’animo: i documenti, cartacei o visivi che siano, possono, come è noto, essere falsificati; le testimonianze interessate, di comodo o addirittura estorte; i memoriali non attestano altro che ricordi, sentimenti, emozioni private e soggettive, quindi di nessun valore probatorio. Insomma - come ha risposto senza batter ciglio monsignor Williamson a chi lo accusava di ciarlataneria e di antisemitismo - dove sono le prove del genocidio perpetrato dai nazisti? Eh già, dove sono le prove della verità del mio, o del tuo, del nostro o del loro discorso? In fondo si tratta pur sempre di parole! Tra queste tuttavia ce n’è una fondamentale per il significato e il valore di tutte le altre, ed è proprio la parola “verità”. Che cos’è la verità (lo chiedeva già Pilato a Cristo)? Questa domanda però dà per scontato che ci sia la verità, mentre quello che qui si mette in questione è proprio l’esistenza della verità, o meglio di una verità certa, oggettiva, indiscutibile e assoluta. Dunque la domanda va riformulata così: esiste la verità? E come è possibile rispondere affermativamente a questa domanda senza presupporre la conoscenza della cosa di cui dubitiamo, ammettendo quindi di possedere la, o quanto meno, una verità? Se invece rispondiamo negativamente, su quali basi, con quale criterio decretiamo la non esistenza della, o di una verità, se non presupponendo che sia vera la nostra negazione? Come si vede anche questa seconda formulazione  va corretta, per esempio così: che cosa significa per me la parola verità? Ecco dunque che ora non posso più sfuggire dalla definizione soggettiva di quello che per me significa “dire la verità”. Vediamo: per me, dire la verità significa dire non solo quello che veramente penso, ma anche quello che penso sia vero.  Ma qui nascono ulteriori difficoltà: se è senza dubbio possibile, anche se non sempre facile, dire quello che veramente pensiamo, come possiamo essere sicuri che quello che pensiamo sia anche vero? Io, per esempio, posso pensare veramente che il mondo durerà fino al 2999 per poi tornare al caos da dove è venuto, ma non per questo il mondo finirà in quell’anno, e, in ogni caso, quando e se finirà non dipende da quello che io posso pensarne o non pensarne. Tuttalpiù posso decidere che per me il mondo, questo mondo, finirà quando me ne andrò all’altro mondo, e sarebbe un’opinione come un’altra, non priva però di conseguenze pratiche. Se infatti sono persuaso che il mondo abbia un senso solo in relazione alla mia persona, agirò in un certo modo; se invece credo che il mondo non nasce e non muore con me, ma che io sono nato e morirò in un mondo che anch’io, per la mia parte, contribuisco a creare o a distruggere, agirò in un altro modo. Ecco quindi che il rapporto tra discorso e verità non riguarda soltanto la teoresi ma coinvolge la prassi, quindi la morale, la società, la politica, le passioni, l’arte e, insomma, il mondo della vita. E i negazionisti in che rapporto si trovano con la verità? Non è pensabile che non credano in quello che dicono, anche perché rischiano, oltre al dispregio degli storici di mestiere (dispregio per altro ricambiato!), in certi Paesi, sanzioni penali, e, in certi ambienti, oltraggi verbali e talora fisici.  Dunque perché tanta ostinazione nel negare l’innegabile? Quali profonde ragioni e quali alti ideali li spingono a tirare diritto per la loro delirante strada? Quand’anche riuscissero, per assurdo, a convincere il mondo intero che le camere a gas e i sei milioni di ebrei periti nell’Olocausto sono un’invenzione propagandistica degli angloamericani e delle lobby ebraiche per giustificare la creazione dello Stato d’Israele ai danni dei palestinesi, che cosa si dovrebbe fare? Riabilitare Hitler? Riesumare i criminali nazisti condannati a a Norimberga? Istruire una nuova Norimberga, questa volta per processare i criminali alleati? Deportare gli israeliani in qualche sperduta isola dell’Oceania? Riscrivere tutti i libri di storia e mandare al macero il Diario di Anna Frank, le opere di Primo Levi, di Bruno Bettelheim, di Edith Stein, di Hannah Arendt e magari di Simone  Weil che aveva previsto e denunciato la barbarie nazista prima di tanti altri? E con chi sostituiremo questi autori? Con l’opera omnia di Faurisson, di Irving, dell’italico Mattogno e dello stesso monsignor Williamson? Avremmo finalmente ristabilito la verità tanto a lungo  negata? “La verità, la verità, cosa è mai la verità?” Ha chiesto Ponzio Pilato alla Verità fatta persona. E la risposta è sempre in cammino, anzi, un cammino.

Fulvio Sguerso