Provincie da abolire, promessa dimenticata ma necessaria per tagliare enti superflui e costi
IL SECOLOXIX
Alberto Gagliardi
Durante l'ultima campagna elettorale l'abrogazione delle Provincie era un cavallo di battaglia di tutte le forze politiche dal Pdl al Pd. Solo la Lega Nord manifestava forti perplessità in nome di una malintesa difesa di prerogative territoriali che, invece, nel caso della Provincia rappresenta storicamente un'espressione napoleonica del potere centrale. Oggi il Pdl tace perchéè al governo e il Pd parla perchéè all'opposizione. Ma si decide di non decidere perché l'abolizione delle Provincie comporterebbe una legge di revisione costituzionale. Certo. E allora? Intanto andrebbero bloccate le procedure per crearne delle nuove.
A titolo personale ho perorato ufficialmente la giusta battaglia abrogazionista fin dal 2005 quando ero sottosegretario agli Affari regionali. Come Giove, scagliai un fulmine a ciel sereno tramite una lunga intervista rilasciata proprio al Secolo XIX a Luigi Leone suscitando virulente e stizzite reazioni da un fiume di "upp", come chiamava Guglielmo Giannini gli uomini politici professionali. Non mancarono, anche in quella occasione, i "benaltristi" secondo i quali, allora come oggi, gli sprechi sono "ben altri" da quelli prodotti dalle Provincie. Non so se anche per quell'incidente di percorso non sono più sottosegretario, ma fui lieto di ricevere un segnale di apprezzamento dal costituzionalista e parlamentare ds Massimo Villone, autore insieme a Cesare Salvi di un fortunato saggio sui costi della democrazia e della politica italiane.
Le sacrosante motivazioni di allora per lo smantellamento, legate all'evidente necessità di semplificare la pletorica e onerosissima macchina pubblica del Belpaese, oggi sono ulteriormente giustificate di fronte alla catastrofica crisi finanziaria internazionale. I costi per il mantenimento delle 109 Amministrazioni provinciali italiane superano i 16 miliardi di euro l'anno e sono in continua crescita: una somma enorme di cui solo una minima parte è utilizzata per coprire la spesa dei pochi servizi effettivamente erogati, legati soprattutto alla viabilità, all'edilizia scolastica e all'ambiente. Il resto preponderante delle risorse serve per occuparsi del tutto un po' tipico della confusa natura di "ente intermedio" fra Regione e Comuni e per sostenere la sovrastruttura politico-amministrativa.
Bisogna poi tener conto che quando si dice Provincia non si parla solo un'istituzione con del personale, con delle rappresentanze (non dimentichiamoci l'Upi, unione Provincie italiane), con enti collegati, con società controllate, con un apparato organizzativo connesso, significa anche predisporre tutte le dipendenze periferiche dello Stato: prefettura, questura, carabinieri, motorizzazione civile, vigili del fuoco, articolazioni del sistema giudiziario e di quello tributario, ecc. Strutture sempre costose e spesso ridondanti.
Abolire gradualmente le Provincie non vuol dire cancellare certi istituti o i dipendenti, che andrebbero ricollocati in funzioni più utili ai cittadini e forse di maggiore soddisfazione professionale per loro, ma operare un riassetto che rafforzi e migliori i servizi pubblici. Le Regioni poi potrebbero a loro discrezione riesumarle a livello di consorzi fra Comuni, soprattutto quelli piccoli, ridisegnati su un'omogenea base storica, territoriale ed economica.
Anche se di abolire le Provincie si discute dai tempi di Crispi, la bugna si forma nel 1970 con l'attuazione delle Regioni: fino ad allora l'Italia a livello locale era gestita con sufficiente razionalità con Comuni (forse troppi) e Provincie. La Regione non era una realtà percepita dalle gente, se non in alcune limitate aree. Con la loro nascita però, e con l'esplosione della spesa pubblica, emerse la necessità del ridimensionamento delle Provincie, svuotate di competenze, e fu soprattutto Ugo La Malfa a battersi inutilmente per la loro cancellazione.
Ma da allora, attraverso l'istituzionalismo creativo, le Provincie aumentarono di numero e le Regioni, veri e propri ogm partenogenetici, da semplici enti di legislazione e programmazione sono diventati carrozzoni gestionali che fanno anche politica estera.
Aldilà dei proclami una seria riforma federalista deve avere l'obbiettivo di riordinare l'intera architettura istituzionale del Paese: meno Comuni con l'accorpamento di quelli più piccoli e con l'istituzione delle Città metropolitane, cancellazione della rappresentanza politica delle Provincie e suo riordino a livello di consorzi in riferimento anche alle Comunità montane, rimozione dei poteri regionali impropri con abolizione della ormai superata "specialità" di alcune Regioni, snellimento delle burocrazie centrali statali. Insomma ammodernamento del sistema istituzionale del Paese. Non dimenticando l'abolizione del Cnel, consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, ed una ridefinizione del profilo della Corte dei conti.
La Repubblica italiana gode del terzo debito pubblico del Pianeta non può più permettersi colossali sprechi derivanti anche da sovrapposizioni di mansioni da parte di Stato, Regioni, Provincie, Comuni e tutte le sottoamministrazioni, comunità montane (sul mare), consigli di circoscrizione, parchi, consorzi di bacino, Ato e una marea di enti senza volto e senza controllo, con il povero inerme cittadino che non sa più chi fa che cosa sopra di lui.
Alberto Gagliardi è ex-sottosegretario agli Affari regionali.