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A COSA SERVONO LE BANCHE?

  Marco Giacinto Pellifroni

Marco Giacinto Pellifroni

La fotografia dell’Italia che ci presentano giornali e TV è quella di un Paese straccione, in quanto si conformano al metro di giudizio, anzi di rating, per usare un termine più in voga, basato sul suo debito pubblico: tra i più alti del mondo, si afferma con angoscia.

Ma come si forma questo debito pubblico, e chi ne è il creditore? 

 Lo Stato necessita di denaro per le sue spese correnti; e dimentichiamo in questo stadio se siano oculate e necessarie o viziate da sperperi e inefficienze.

Per ottenere questi soldi, poniamo € 50 miliardi, lo Stato potrebbe farli stampare dal suo Istituto Poligrafico e poi metterli direttamente in circolazione usandoli per i suoi pagamenti. Interessi per lo Stato? Zero.

Troppo semplice e a buon mercato. Lo Stato invece stampa dei BOT o titoli equivalenti e li dà alla Banca Centrale (ieri Bankitalia, oggi BCE) per ottenere da questa le banconote che ha scelto di non stampare. In sostanza avviene un cambio di carta contro carta, con un vantaggio però per la banca centrale, che vi applica un interesse, a suo insindacabile arbitrio. Lo Stato si comporta così da vassallo, ponendosi nella posizione del debitore nei confronti di un presunto creditore. Presunto, perché in effetti la banca centrale quelle banconote le stampa dal nulla, o meglio le addebita ai cittadini italiani, che pure sono chiamati a produrre un equivalente ammontare di ricchezza, nel caso felice in cui ai soldi immessi nel circuito corrisponda un’identica crescita del PIL. In caso contrario, quanto manca al pareggio è pura inflazione, ossia perdita generale del potere d’acquisto di tutta la moneta circolante, vecchia e nuova. Questo vassallaggio dello Stato verso le banche non è dettato da nessuna esigenza, solo dalla connivenza tra mondo politico e bancario, dove il primo si riconosce suddito del secondo per pura convenzione: riconosce infatti potere a chi lo trae proprio da questo davvero interessato riconoscimento. Certo, anche se lo Stato quei soldi se li stampasse in proprio, sarebbero poi i cittadini a doverne rispondere, lavorando e pagando le tasse; ma almeno non ci sarebbero interessi da elargire a una terza parte, che reclama poi la restituzione di soldi e interessi, denominati debito pubblico, senza aver nulla prodotto.

L’accumularsi di questo presunto debito pubblico attraverso gli anni (per tacere dei secoli) ha finito per crearne una montagna, ormai insolvibile. Lo Stato italiano è spendaccione, ben lo sappiamo, a nostre spese. Tuttavia, se togliessimo dalle sue uscite annuali gli interessi sul debito pubblico, lasciando cioè che la moneta se la stampasse in proprio, ci sarebbe un avanzo, e non un perpetuo disavanzo. Tanto per capirci, se una finanziaria si aggira sui € 20 miliardi e gli interessi sul debito sono sugli € 80 miliardi, tolti questi ultimi, svanirebbero anche i primi, con tanto di avanzo, appunto.

credito Nell’ultimo anno abbiamo tutti sentito parlare dei CDS (Credit Default Swaps), che altro non sono che il premio assicurativo che un investitore paga nel caso voglia tutelarsi dal rischio di bancarotta del creditore, nel nostro caso lo Stato. Com’è ovvio, più alto il rischio, maggiore il premio.

Riporto in calce una tabella con le graduatorie di merito (o demerito), di varie nazioni, complete di un raffronto, molto significativo, del crescere o, in pochi casi, del decrescere di questo premio nel volgere dei primi 6 e 8 mesi del 2008. Argentina, Venezuela, Islanda e Russia guidano il drappello dei Paesi più insicuri. Per l’Italia la corsa al rialzo è stata notevole, specie durante l’estate scorsa, col dilagare della crisi mondiale (+78,8%). Se i dati fossero ulteriormente aggiornati, vedremmo di certo lievitare ulteriormente i premi, in proporzione agli accresciuti rischi.

Come detto più sopra, al crescere del rischio lo Stato deve offrire interessi più alti a quanti sono disposti a comprare i suoi BOT. I BOT tedeschi pagano l’1% in meno di interessi, perché lo Stato tedesco è considerato meno a rischio di insolvenza (default). Se allarghiamo lo sguardo ai 15 Paesi dell’eurozona, non possiamo che constatare enormi differenze di stabilità finanziaria e altrettante disparità di merito, quindi di rischio.

Ciò significa che l’UE ha una moneta unica che mal si adatta a queste divergenze strutturali dei vari Paesi, con alcuni in acuta sofferenza ed altri in relativa miglior forma. Non si dimentichi che la BCE, non a caso situata a Francoforte, ha smesso di alzare i tassi solo quando anche l’economia tedesca ha cominciato a perdere colpi: infatti, l’euro non è che il vecchio marco tedesco cambiato di nome. La tentazione di uscire dalla moneta unica potrà rivelarsi assai forte, se non irresistibile, nel prossimo futuro, per opposte ragioni: i Paesi ricchi, come Germania e Francia, non vorranno farsi carico della “allegra finanza” di quelli più a rischio; mentre questi ultimi saranno tentati di tornare a stamparsi la moneta necessaria a non lasciarsi stritolare.

Questa tentazione centrifuga sarà la prova del fuoco di un’Europa unita (a forza) monetariamente, ma non politicamente; eppure potrebbe non essere quella iattura che tanti sembrano paventare.

Potrebbe non esserlo, a patto però che la rivoluzione strutturale, che non potrà che accompagnarle si, contempli anche l’esclusione della banca centrale nazionale (Bankitalia) dall’emissione di moneta a debito per lo Stato; e che quest’ultimo si appropri di questa funzione, che costituzionalmente gli compete.  

Prima che si giunga a questo comunque drammatico passo, revocando il giogo impostoci coi Trattati di Maastricht del 1992, bisogna tuttavia che il risparmio privato degli italiani non resti congelato nelle banche, che hanno prosciugato il credito alle attività produttive, specie medio-piccole, portandole alla asfissia, ma sia a queste ultime prestato in via diretta. Cosa possibile soltanto ad uno Stato abilitato a creare la sua valuta secondo necessità. In questo modo la politica economica statale sarà anche politica monetaria, come è giusto che sia.

Concludo con l’ironica vignetta di un cartoonist americano, che bene rende l’idea di come i governi salvino le banche, col pretesto di salvare i risparmiatori. Una volta salvatesi, però, chiedono a sempre più aziende di rientrare, negando loro le scialuppe indispensabili per superare i marosi della tempesta perfetta in corso ormai da 16 mesi.

Quanto ai mutui, il loro aggancio all’Euribor in discesa dovrebbe comportarne a loro volta un calo; ma ciò è ben poco avvertibile, in quanto le banche controbilanciano tale calo aumentando lo spread, ossia il loro ricarico. A questo punto c’è davvero da chiedersi quale sia lo scopo delle banche stesse, se negano o zavorrano il credito, ossia il presupposto basilare della loro esistenza e funzione sociale. D’accordo non concedere mutui facili per la casa a chi non ne ha i mezzi; ma negare un equo prestito alle imprese è criminale. Per questo è auspicabile che subentri in questo compito vitale lo Stato in prima persona, in deroga ai Trattati che glielo impediscono.

 

Marco Giacinto Pellifroni            14 dicembre 2008