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LA PAURA E LA SPERANZA

  Marco Giacinto Pellifroni

Marco Giacinto Pellifroni

Questo il titolo del libro di Tremonti uscito poco più di un anno fa, quando non era ancora diventato, per la terza volta, Ministro dell’Economia.

Il libro aveva suscitato in me la convinzione che, qualora fosse diventato nuovamente responsabile di quel dicastero chiave, le idee maturate durante la sua assenza dal governo avrebbero fatto di lui il nocchiero di cui l’Italia aveva bisogno per uscire dalla crisi inaugurata di fatto il 9 agosto 2007, quando i prestiti interbancari si congelarono nottetempo, dando l’avvio alla tempesta perfetta.

Mi ero spinto persino a formulare l’augurio che, viste le sue idee innovative, altre forze interne al suo partito non si mettessero di traverso e “lo lasciassero lavorare”. L’uomo infatti aveva lasciato intendere tra le righe, anche in suoi precedenti scritti, di avere ben presente il grado di responsabilità delle banche nello stato in cui s’erano ridotte le economie nazionali, non esclusa, ovviamente, l’Italia. Un convincimento sintetizzato nella sua ormai celebre definizione di “topi messi a guardia del formaggio” riferendosi ai banchieri centrali e al nostro denaro.

La realtà si sta rivelando alquanto diversa. Può darsi che Tremonti continui ad albergare in cuor suo i medesimi sentimenti riguardo a banche e banchieri; ma da come si comporta quando poi assume delle decisioni concrete riesce difficile continuare a crederci.

La virata rispetto alla strategia abbozzata nel suo libro è iniziata con la velleitaria avventura della cordata di imprenditori italiani per sdoppiare Alitalia in un’azienda senza debiti, da lasciare alla cordata, e in una bad company, gravata di € 3 miliardi di passivi, da cedere gentilmente ai contribuenti italiani. Ossia, l’esemplare messa in pratica del liberismo più deleterio, che punta a socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Con l’aggiunta di privilegi concessi a lavoratori già largamente privilegiati, come i piloti, o gli esuberi, beneficiati di ben 7 anni di cassa integrazione. Tutto sempre a nostre spese.

La seconda prodezza è stata quella dell’azzeramento dell’Ici sulla prima casa, già ridotta del 40% dal governo precedente. Altri € 3 miliardi regalati a pioggia, ossia anche ai ceti più abbienti, che di questa elargizione non avevano particolare necessità.

Oggi Tremonti, quasi istantaneamente angosciato da tanta passata prodigalità, cerca di rifarsi succhiando indiscriminatamente da altre fonti, spesso con una miopia che certo non fa onore all’autore del libro scritto appena un anno prima.

Nel pieno di una recessione senza precedenti a memoria d’uomo, con chiusure e fallimenti a catena, licenziamenti di centinaia di migliaia di dipendenti e precari, scivolamento di consistenti fette di cittadini verso o oltre la soglia di indigenza, la montagna partorisce il proverbiale topolino: qualche elemosina alla fascia più infima, peraltro da conquistare attraverso iter burocratici defatiganti, esenzione fiscale degli straordinari, quando ormai più nessuno ne fa, blocco delle tariffe, salvo poi smentirlo, sia perché scenderanno da sole o perché quelle autostradali vanno lasciate ai privati, tetto del 4% sui mutui, vanificato dal taglio BCE dello 0,75%, e via di questo passo. Insomma misure irrilevanti, di pura facciata.

Tutto ciò mentre nulla si fa per mitigare la vita del sempre più ex ceto medio, lavoratori dipendenti, pensionati e piccole e medie imprese, cioè artigiani e commercianti. A proposito di questi ultimi, c’è voluto il Natale, coi negozi vuoti, per far capire finalmente urbi et orbi quanto poco rientrino nella categoria degli evasori per antonomasia, quali li si era additati sino a poco tempo fa. Il governo precedente era stato martellante su questo fronte, liberalizzando il commercio, ossia trasformandolo in una giungla dove si consuma una guerra tra poveri, all’insegna della tanto declamata “libera concorrenza”. Ora, con un continuo turnover di aperture e chiusure, si comincia a capire quanto redditizio sia aprire un esercizio commerciale con centinaia di concorrenti alle costole e margini di utile sempre più assottigliati e spesso debordanti nei passivi.
Ciononostante, si prosegue imperterriti con i famigerati studi di settore, che appioppano, negli appartati uffici del fisco, redditi sempre superiori al reale, anche quando magari c’è solo da metter la mano in tasca e pagare in proprio il rosso di fine mese. L’involontaria austerity natalizia ha portato anche i grandi media a riconoscere che questa è la realtà e che le evasioni non vanno cercate negli scontrini di pochi spiccioli ma nelle oasi contributive delle attività illegali, specie al Sud, e nei grandi creatori di ricchezza fasulla, ossia nelle banche.

 Quelle banche che, dopo averci salassato secondo rozzi o raffinati sistemi, che vanno dai bond tossici alle commissioni di massimo scoperto, ora si mettono in fila per ricevere sostegni da parte di quello Stato che hanno sinora indebitato vantando prestiti dal nulla, ceduti addirittura a interesse: l’interesse dei vari BOT, BTP, ecc. quando si tratta della banca centrale, e quello che le banche commerciali ci chiedono quando erogano un prestito a privati o imprese.

E così, caro Tremonti, dopo soli 6 mesi di governo, hai ammazzato la speranza, lasciandoci solo la paura dell’anno in cui stiamo per entrare, e forse anche di quello successivo.

La speranza, che tuttora non vuol morire, è:

- che si abolisca, come già cercò di fare il decreto Bersani, la Commissione di Massimo Scoperto, che colpisce proprio le aziende in difficoltà, e quindi in rosso con le banche;

- che si riduca sostanzialmente il gravame fiscale sulle imprese, specie medie e piccole, e sui loro dipendenti;

- che si proroghi la legge sul risparmio energetico, considerando la sua doppia natura virtuosa di generare un indotto calcolato in ca. € 3 miliardi e di contribuire ai programmi di riduzione delle emissioni e quindi al riequilibrio del clima: la sua mancata proroga è forse la più iniqua delle misure prese, o non prese, di fronte a una crisi senza precedenti.

La risposta sin qui data da Tremonti non è di quelle improntate alla speranza, ma alla paura: di sforare il tetto del 3% del deficit, sul quale persino Bruxelles s’è dichiarato disposto a transigere in questa avversa congiuntura. Stranamente, l’uomo contrario ai “topi a guardia del formaggio”, ora si scopre ansioso di non scalfire i loro interessi, di non aumentare la nostra esposizione verso personaggi che non hanno fatto che scipparci il frutto del nostro lavoro, loro stessi non essendo capaci che di stampare soldi dal nulla, anzi sottraendoli dal nostro potere d’acquisto. Quando troverà Tremonti, unico Ministro del Tesoro a non provenire dall’intreccio di interessi privati bancari, a differenza di tutti i suoi predecessori, quando troverà il coraggio di opporsi a questo sistematico raggiro del finto prestito di denaro che la zecca di Stato potrebbe agevolmente subentrare a stampare, anziché delegare la sua fabbricazione, a interesse,  alla lobby dei banchieri privati?

Tremonti è la nostra residua, e sia pur fievole, speranza di uscire dalla ripetuta paura del futuro che l’attuale sistema monetario ci infligge. Non deluda le nostre aspettative e tagli il cordone ombelicale che ci lega ai banchieri. Le tasse le paghiamo in gran parte per riempire le loro tasche (esentasse, per colmo d’ironia).

Forse la mia è una vox clamans in deserto, ma si aggiunge ad un numero crescente di voci che denunciano il fenomeno del signoraggio e di persone che, resene edotte, ne rimangono sbigottite. Quanto all’impossibilità di cambiare il sistema dall’interno, si aggiunga quanto scrive Stefano Lepri, nel suo ultimo libro: * “La storia degli ultimi trent’anni dimostra che è più facile vincere le elezioni facendo promesse irrealizzabili piuttosto che mettere a posto i conti dello Stato. […] Ancora una volta, chi governa preferisce distribuire favori e sussidi frammentati a questa o quell’altra categoria, per catturarne il consenso, mentre i benefici per la generalità dei cittadini sono scarsi.” Privilegi, a pochi, in cambio di voti, dai molti. Ergo, democrazia malata, perché sempre meno rappresentativa e sempre più ingannevole. Ormai regredita ad oligarchia, dietro la farsa delle elezioni. Con i pupari che tirano i fili, chiunque sia al governo, come diceva Mayer Amschel Rothschild già  nel XVIII secolo.

 * Stefano Lepri, “La finanziaria siamo noi”, Ediz. Chiarelettere. Ma che ci fanno alla sua presentazione a Roma il 18 dicembre, nientemeno che a piazza Montecitorio, Vincenzo Visco e Mario Baldassarre, che ben conoscono il segreto del signoraggio, eppure contribuiscono al suo secolare occultamento?

 

Marco Giacinto Pellifroni                                     7 dicembre 2008