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DEI DELITTI, DELLE PENE

 E DEL PERDONO*

  Marco Giacinto Pellifroni

Marco Giacinto Pellifroni

Nel cuore d’Italia si erge il Vaticano, faro della cristianità. Grazie a ciò la nostra nazione dovrebbe essere la più immediatamente soggetta ad una visione del mondo che contempli non solo il rigore delle pene, ma anche la generosità del perdono.

Tutto al contrario, negli ultimi anni non si fa che ascoltare recriminazioni incrociate sui provvedimenti del condono e dell’indulto: il centro-sinistra critico del primo e il centro-destra del secondo. Il criterio dei giudizi negativi non sembra colpire tanto i provvedimenti in sé, ma da quale parte politica sono stati promulgati.  

L’unico giudizio negativo che personalmente esprimo su entrambi è l’esser stati decretati, il primo per far cassa e il secondo per alleggerire il carico carcerario. Soltanto papa Giovanni Paolo II, in un famoso intervento alla Camera, esortò le forze politiche a varare l’indulto per puri motivi umanitari. Un gesto purtroppo isolato, in un deserto di appelli a comportarsi verso chi sbaglia con cristiana comprensione. Ma davvero chi è incorso nei rigori della legge è sempre (l’unico) colpevole? O la sua trasgressione, specie in campo finanziario, non è forse da dividere o addirittura da scaricare su altri soggetti, magari nascosti nelle pieghe di una legge fatta a solo danno del vero o presunto debitore?

L’argomento non è da riservare a dotte e sottili discettazioni di giuristi; è terribilmente attuale in questi giorni in cui gran parte della popolazione sta arretrando sotto un livello di vita dignitoso o, peggio, di mera sopravvivenza. La domanda è: quando il governo nega alla gran massa dei nuovi indigenti il soccorso vitale, giustificando la sua ministeriale distanza con la mancanza di fondi, davvero non avrebbe altra scelta?

La risposta non può essere immediata, ma parte dall’antica consuetudine dell’anno giubilare; che non è il Giubileo a cui siamo stati abituati, fatto di fastose cerimonie, pellegrinaggi, indulgenze e souvenir. La remissione che accompagnava il Giubileo non concerneva soltanto i peccati, ma anche e soprattutto, almeno per i poveri, i debiti. **

La parte centrale e poco compresa del Pater Noster recita “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Una reciproca dichiarazione di oblazione dei debiti, riguardanti in minima parte le classi agiate e in misura preponderante quelle povere.

Ora, i debiti dei cittadini appartengono perlopiù a due classi: verso le banche e verso la pubblica amministrazione. La maggioranza degli italiani (e non solo) oggi si trova all’interno di questa spietata tenaglia. Con un’aggravante comune: che se non si rispettano le scadenze subentra la mannaia degli interessi di mora e di una pletora di altre penali che rendono un debito, già ai limiti dell’insolvenza, iugulatorio. Se si tratta di una banca, grazie alla fideiussione richiesta per la concessione del prestito, la banca passa al pignoramento del bene e alla sua messa all’asta: una sciagura talmente diffusa e discussa oggigiorno che non mi ci dilungo oltre. Nel caso dello Stato, includendo nel termine tutti gli enti pubblici o autorizzati a comportarsi come tali quando si tratta di escutere bollette per beni di prima necessità, se il cittadino non riesce a saldare il suo debito, le penalità crescono ad un ritmo ben superiore ai tassi di usura, portando chiunque alla rovina.

Vorrei allora ricordare, anche a Sua Santità, che già la Bibbia attraverso Isaia, e il Vangelo per bocca dello stesso Gesù, che lo riprese nel suo primo discorso pubblico, così esortava:

Lo Spirito del Signore è sopra di me;

per questo mi ha unto

e m’ha inviato a predicare ai poveri la buona novella,

ad annunziare ai prigionieri la liberazione

e ai ciechi il recupero della vista,

a mettere in libertà gli oppressi

e a promulgare un anno di grazia del Signore.

L’anno di grazia è, appunto, il Giubileo. La Chiesa cattolica, però, è venuta via via  riducendo il lato materiale dell’annunzio biblico ed evangelico, ponendo l’accento solo su quello spirituale. E a questa interpretazione, che toglie ai poveri il sollievo di una remissione dei debiti (oltre che dei peccati), si è conformato anche lo Stato, prima oppressivo nell’esigere tasse, tributi, sanzioni, e poi punitivo verso chi non riesce a farvi fronte. Del resto, colpevoli dell’attuale situazione di montante indigenza non sono solo le tasse esorbitanti e le more usurarie, vuoi bancarie vuoi statali; lo sono in maniera strutturale gli stessi interessi.

Tutti diamo per scontato che al prestatore siano dovuti degli interessi, trasformando i soldi in produttori inerti di ricchezza, a spese dei produttori dinamici di ricchezza: i debitori. In pratica si dà un valore pecuniario al tempo. Time is money, il tempo è denaro, dicono gli anglosassoni. Ma perché mai dovrebbe esserlo? Attribuire al tempo un valore monetario significa giustificare l’interesse sui crediti, con un unico e certo risultato: la progressiva svalutazione del denaro, ossia la sua perdita di potere d’acquisto, con l’alternanza di deflazione, che è sì maggior potere d’acquisto ma con ben minore quantità di soldi nelle tasche della gente.

 Se invece dell’interesse le banche chiedessero soltanto il compenso per i loro servizi di intermediatori del credito, la finanza non finirebbe con l’avere periodicamente il sopravvento sull’economia reale, alla quale è estraneo il concetto meramente finanziario di interesse. In altri termini, ad ogni creazione di beni o servizi corrisponderebbe una pari creazione di moneta, anziché doverla creare in sovrappiù per monetizzare l’interesse, ossia una voce immateriale e parassitaria.

I secoli medievali, più genuinamente cristiani di quelli a noi più prossimi, consideravano usura ogni forma di interesse. E continua tuttora a considerarla tale il mondo islamico, sul quale comincia a svilupparsi perlomeno una certa curiosità da parte di economisti occidentali, alle prese con un mondo sempre più strangolato dai debiti.

Venendo ai nostri problemi più immediati, ritengo che una misura di grande sollievo per molte famiglie e single indebitati verso lo Stato e i suoi satelliti, che ne esigono il  pagamento attraverso l’istituzione privata scelta per svolgere il lavoro sporco dell’esazione coatta (Equitalia), sarebbe quella di azzerare almeno gli interessi di mora e tutta la ridda di penali accessorie che aggravano ogni bolletta morosa. Esattamente come fece il passato governo Berlusconi, col tanto criticato condono. Lo stesso dicasi per tutte le cause tuttora in corso per reati minori soggetti all’indulto: che senso ha svolgerle, in Tribunali oberati da enormi arretrati, sapendo che si concluderanno con un’assoluzione?

Problemi eccezionali, misure eccezionali, si sente ripetere. Ma sarebbero eccezionali i € 40 mensili della social card a chi ne ha i requisiti, lasciando a secco chi ne è appena al di sopra (stiamo parlando di un tetto di € 500 mensili!), ossia gran parte della (ex) classe media? Invece di aiutare a pagare, peraltro in misura irrisoria, i debiti che assillano i più poveri, non sarebbe più saggio, se non azzerare i debiti, depurarli almeno di tutti gli interessi?

Non si può, sanno solo dire le banche e un Governo loro vassallo all’unisono. E non a caso: il primo si riconosce il più grande debitore delle seconde; e queste non vogliono rimetterci nulla delle truffe fatte dalle loro consorelle americane, vogliono che a pagarle siamo noi cittadini, strangolati dai loro mutui, un tempo facili e oggi insostenibili: debiti che vanno a sommarsi a quelli di uno Stato forzato a praticare l’usura pur di onorare i suoi presunti debiti verso le banche, ossia il famigerato servizio del debito, senza che nessuno spieghi quale servizio è mai stato fornito all’origine dalle banche allo Stato (né dalle banche ai cittadini, se non la creazione legalizzata di denaro dall’aria). Il tragico è che tot (8, 12?) trilioni di € (e $) sono stati pompati dalla BCE (e dalla Fed) “per salvare le grandi banche”, senza loro apparente traccia, a giudicare dalla deflazione dilagante per il pianeta.

Che questo “servizio del debito” sia irreale e quindi non dovuto l’ho detto e ridetto alla nausea in cento miei articoli. Qualora mai questo concetto si facesse la dovuta e doverosa strada si converrebbe che solo un Giubileo, religioso e laico, potrebbe portare alla cancellazione di debiti, interessi, more e simili strumenti demoniaci, liberando davvero i prigionieri e ridonando la vista ai ciechi, con l’annunzio della tanto attesa buona novella. Ciechi siamo infatti noi tutti, in quanto tenuti all’oscuro del ben custodito segreto bancario: non quello dei nostri conti correnti, ormai a totale disposizione del fisco, ma quello delle banche che si sono auto-insignite della competenza, costituzionalmente statale, di emettere moneta che non hanno, gravata per giunta di interessi, sia ai cittadini che allo stesso Stato. Uno Stato ostaggio dei banchieri, che non trova la forza di strappare a costoro nemmeno l’indispensabile per vivere dei suoi cittadini: impoveriti proprio a causa dei soldi che devono sudare e sputare, per poi pagare la cupola bancaria transnazionale attraverso le tasse che lo Stato impone e fa valere a colpi di ingiunzioni e aule giudiziarie, dove le parcelle degli avvocati assestano il colpo finale alle finanze degli insolventi.

Un’aspettativa messianica, utopica, eversiva? Non più eversiva della situazione in cui la finanza criminale e truffaldina ci ha trascinati, senza pagarne il fio. O forse il cristiano perdono vale solo per i CEO di Wall Street ma non per le loro vittime?

Forse che se lo Stato non ripagasse il mostruoso “servizio del debito” (come non riuscirà mai a fare, peraltro) e nemmeno gli interessi (€ 80 miliardi l’anno in corso), crollerebbe il sistema? Ma qualcuno ancora crede che sia un sistema quello attuale, con titoli tossici equivalenti a 10 volte il PIL mondiale ($ 470 trilioni contro un PIL mondiale di 47)?

Altro che “consumate!”, come il Cavaliere già incitava a fare una decina di anni or sono. Ci dia prima i mezzi per farlo e sarà accontentato. Ne parli col Papa teologo, e insieme indicano un Giubileo, non limitato ai nostri peccati, ma anche ai nostri debiti, come supplica la prima preghiera cristiana. Ci aiutino a salvare il corpo, non solo l’anima.

Quando il Giubileo si preoccupava anche di coloro che ai debiti non riuscivano a far fronte, questo evento era atteso come una “manna laica”, perché i debitori uscivano di prigione, e mogli e figli dati come schiavi venivano liberati. Oggi non è più così, per fortuna, ma togliere il lavoro e la casa equivale a distruggere intere famiglie (e single, oggi altrettanto diffusi). Un risultato non poi tanto dissimile.

Giubileo suona male alle orecchie secolarizzate dei politici? Berlusconi dia incarico agli uffici pubblicitari di Mediaset di ingegnarsi a trovare un altro nome, magari più trendy, e ce lo metta sotto l’albero di Natale, coi complimenti del Presidente operaio; anzi, precario, cassintegrato o disoccupato, per adeguarsi ai tempi: scelga lui.

 * Il titolo echeggia il trattatello “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (1764), con la cristiana aggiunta del perdono. L’articolo è una sintesi della relazione tenuta dall’autore al convegno “Finanza e Vangelo: temi inconciliabili?”, Finale Ligure, 30 novembre 2008.

** Cfr. Michael Hudson “Thinking the unthinkable…”, Global Research 24/09/2008; Luigi Zingales “Why Paulson is wrong”, Vox, 21/09/2008; Maurizio Blondet, “La soluzione al crack secondo Luca”, Effedieffe, 25/09/2008.

    Marco Giacinto Pellifroni                                                    30 novembre 2008