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TENAGLIA FISCALE SUL COMMERCIO

  Marco Giacinto Pellifroni


Marco Giacinto Pellifroni

Si sente ripetere, come in un’eco senza fine, che bisogna ridurre la pressione fiscale sui lavoratori dipendenti e sui pensionati in quanto sono costoro gli unici che pagano le tasse, mentre i lavoratori autonomi le evadono agevolmente. Inoltre, mentre i primi hanno visto i loro redditi congelati sulla lira, i secondi hanno potuto adeguarsi all’euro aumentando i loro prezzi.

Se la prima affermazione è senz’altro vera, la seconda lo è molto meno, se si tiene presente che i costi sono saliti spingendo inevitabilmente in alto i prezzi.

Innanzitutto, tra gli autonomi, va fatta una netta distinzione tra la classe dei commercianti al dettaglio, ossia gli esercenti, e quelle di altri autonomi, quali i liberi professionisti e gli artigiani.

Il controllo della seconda classe non può che avvenire mediante i pur famigerati Studi di Settore, mentre diverso discorso vale per gli esercenti.

Perché? Semplicemente perché i negozi sono già controllati “in tempo reale” durante lo svolgimento della loro attività; cosa impossibile per un artigiano o uno studio legale, in quanto il rilascio di parcelle o fatture non avviene a ridosso di ogni prestazione, che può far parte di un ciclo a cadenza variabile e senza una data finale predeterminata.

Infatti, l’esercente è gravato, a sue spese, di un apparecchio emettitore di scontrini che lo rende immediatamente sanzionabile in caso di mancato rilascio al cliente. Che senso abbia aggiungere a questa forma di controllo anche l’obbligo di rientrare nei parametri degli Studi di Settore rimane un mistero, spiegabile solo con la tendenza alla oppressione burocratica, tipica degli Uffici Imposte e statali in genere.

Vediamo allora come prende avvio e si dipana nel tempo l’attività di un negozio.

Conviene dividere subito i negozi in “consolidati” e “avventizi”. Nei primi rientrano tutti quelli radicati da parecchi anni sul territorio e contraddistinti, agli effetti del reddito, dall’assenza di mutuo per l’acquisto della “licenza” (ridotta oggi all’arredo e ai beni strumentali, nonché all’avviamento, vista la generale liberalizzazione del commercio) e, nei casi più rari e fortunati, nell’assenza di un affitto, grazie alla proprietà dei muri. I negozi che godono di queste due esenzioni sono gli unici che possono svolgere la loro attività senza le ansie che tribolano gli “avventizi”.

Qual è l’identikit di questi ultimi? Si tratta in buona parte di giovani che non hanno trovato un impiego dipendente, o hanno terminato quello a tempo determinato, ritrovandosi così a ingrossare l’esercito dei disoccupati o sottoccupati. Si pone loro la pressante domanda “che fare?” onde non cadere nell’avvilimento (e spesso nella droga), provocato dallo scorrere delle giornate senza scopo e dalla dipendenza dai genitori anche per le più elementari necessità.

Si fa allora strada il prospetto di “aprire un negozio”. Dopotutto, non sembra un’attività tanto difficile, e la legge è diventata così generosa! Per favorire il mito liberistico della libera, o meglio spietata, concorrenza, fatto proprio con ancora maggior zelo persino dalle giunte di sinistra, si è concesso a tutti di fare di tutto e dovunque, magari le stesse cose a due metri l’uno dall’altro: darwinianamente si presume che emergerà il migliore, mentre gli altri cadranno per strada. Curiosamente la classe politica, che aborrisce il darwinismo quando si tratta di se stessa, insediando ai super pagati vertici di società pubbliche i suoi trombati nelle competizioni elettorali, non si fa scrupolo di gettare nell’arena i suoi amministrati, dove dovranno cimentarsi da subito con le lievitanti rate del mutuo, l’affitto, i prezzi di ogni merce o servizio in costante crescita, il personale, i ticket che pagano dopo 1-3 mesi la merce fornita, succhiando dalle fatture il 7-9%, e, dulcis in fundo, la voracità delle stesse istituzioni pubbliche, anche per permetter loro di pagare il talento dei suoi suddetti trombati oltre, naturalmente, la casta al gran completo: tutta gente che maneggia il destino degli altri e li richiama al senso di responsabilità, al “senso dello Stato”, ossia alle virtù di cui loro stessi difettano totalmente. Loro non sanno cosa significhino gli assilli quotidiani connessi a tutte le sopra elencate uscite; concorrenza e responsabilità le riservano al popolo. E allora appostano guardie in borghese fuori dai negozi per cogliere in fallo gli evasori che non hanno  battuto lo scontrino, anche minimo, comminando col massimo zelo multe rovinose e addirittura la gogna della chiusura dell’esercizio. Così imparano.

 Imparano talmente bene che i più, dopo pochi mesi, i più duri dopo pochi anni, falliscono e chiudono, passando la mano ad altri, cui si prospetta analoga sorte, in una catena di sant’Antonio sui generis. Una catena che prende avvio dalla casta degli eurocrati,lungo una minuziosa e pletorica lista di adempimenti partoriti a tavolino e fatti valere da un nutrito ventaglio di controllori, ciascuno col suo blocchetto delle multe, che compilano con mano decisa, senza riflettere quanti giorni dovrà sudare il “trasgressore” per riuscire a pagarle.

 Ma per giustificarle davanti all’opinione pubblica c’è il tam tam televisivo, che denuncia le infrazioni più estreme fatte da Tizio a Canicattì o da Caio a Fossombrone, sulla falsariga delle quotidiane notizie sugli ubriachi al volante per far digerire un codice stradale sempre più punitivo.

 A un panettiere che aveva osato infischiarsene dei tempi lunghi del permesso comunale, aprendo la bottega qualche giorno in anticipo è arrivata subito la mannaia di € 5000 di contravvenzione e la chiusura del locale: il benvenuto delle autorità locali. Sarebbe interessante sapere se il poveraccio d’ora innanzi tremerà di più all’arrivo di un malvivente o di un vigile. Un dubbio, del resto, che attanaglia buona parte degli italiani onesti, quando si chiedono se le forze dell’ordine siano lì per difenderli (una volta) o per multarli (99 volte). 

Tutto quanto sopra dice qualcosa agli esercenti di Savona e Provincia, alle prese con un calo del 30% delle vendite rispetto al 2007? O sto farneticando? Quanti dei negozianti della nostra provincia si sentono più ricchi dei precari o dei pensionati a mille euro al mese? Quanti devono por mano ai risparmi dei “vecchi” per far fronte alle scadenze di fine mese, metà mese, ecc., più le rate delle tasse dell’anno prima che non si è riusciti a pagare, al pari del mutuo e dei contributi? Dice niente il fatto che i più esposti a usura e estorsioni, magari per l’improvvisa richiesta di rientro da parte della banca, siano proprio i commercianti, non raramente esasperati fino al gesto estremo?

Gli enti pubblici, di cui il ministro Brunetta sta rivelando il sovrannumero rispetto alle mansioni, spesso burocratiche, inutili o vessatorie che svolgono, si accaniscono, tramite i tanti bracci, anche armati, di cui dispongono, per snidare ogni minima evasione dei bottegai; evasione che spesso ne decide la sopravvivenza o la chiusura. “Tutti devono pagare le tasse” è il motto ricorrente. Bene. Ma non si capisce perché pagarle in questa esorbitante misura (siamo al 60%, incluse quelle indirette) e a vantaggio di chi. C’è qualcuno che manca all’appello?

Spostiamoci nei lucidi saloni degli istituti bancari, dove i suddetti controllori non osano mai metter piede; quegli istituti che oggi piangono miseria e chiedono il nostro obolo per sopravvivere. Loro le tasse le pagano? O è proprio il fatto che ne paghino pochissime che scatena la rabbia dei controllori anche sui commercianti, per spremere dal loro magro utile quanto non arriva dai bilanci bancari?

Sto esagerando? Non credo. Invito gli addetti ai lavori, così solerti nel fare i conti in tasca a tanti redditi medio-bassi, a fare altrettanto nei conti bancari. Dunque, una qualunque banca, con depositi di € 20, è autorizzata, grazie alla riserva frazionaria, a fare prestiti per € 1000. Ai € 20 del correntista la banca riconosce un interesse, al massimo, dello 0,50%: € 10 cent (da cui peraltro lo Stato succhia il 27%). Tutti credono che la banca lucri soltanto sulla differenza tra attivo e passivo, per cui, prestando € 20 al 15%, la banca guadagnerebbe € 3 – 0,10 = € 2,90.

Ma veniamo ai € 980 che la banca ha prestato senza averne la copertura: al 15% il guadagno lievita a ben € 147. In totale, la banca ha lucrato € 147 + 2,90 = € 149,90 partendo dall’esigua somma iniziale di € 20: ossia la modica percentuale del 750%! Quando i clienti cui sono stati prestati i € 980 li avranno rimborsati, con gli interessi, poniamo dopo un anno, la banca si ritroverà in cassa, oltre agli iniziali € 20, la somma di € 980 + 149,90 = 1129,90, ma pagherà le tasse (almeno si spera) solo su € 149,90. La banca, onde non pagare le tasse sui € 980 che arrivano in cassa coi “rimborsi” dei clienti, ricorre ad una particolare forma di contabilità (resa legale da un sistema normativo dettato dai poteri forti, ossia dalle banche): iscrive come passivo la somma “prestata”, pur non avendo mai prelevato tale somma dalle sue casse; l’ha creata dal nulla, e pertanto è ricchezza immateriale. Quando però la somma “torna” in cassa, maggiorata degli interessi, rispecchia il frutto del lavoro dei suoi clienti, ossia corrisponde a ricchezza concreta. Insomma, l’uscita è fasulla, l’entrata è reale. È un guadagno netto, che quindi andrebbe tassato. Invece risulta esentasse, in quanto questo introito, attivo, viene compensato dal passivo cui è stata appostata la somma “prestata”. Idem se il cliente è insolvente: la sua casa pignorata viene messa all’asta e il ricavato sarà fiscalmente compensato dal sedicente passivo iniziale. Ergo, tasse zero.

Ma non è finita. Se quello appena descritto è il signoraggio secondario, attuato dalle banche nazionali, c’è prima ancora il signoraggio primario, praticato dalla BCE, al cui capitale le banche italiane concorrono per il 14,7%. Vista la massa monetaria che esce dalle rotative della BCE, creata anch’essa dal nulla e prestata ai vari Stati dell’eurozona a interesse, contro la cessione di titoli del Tesoro, va aggiunto ai proventi di cui sopra anche questo cespite, di cui mi limito a considerare il mero interesse, che ogni anno l’Italia paga alla BCE in ragione di circa € 80 miliardi: soldi che, fatte alcune deduzioni per la BCE stessa, diventano patrimonio delle banche nostrane, ciascuna per la sua quota. Un bel gruzzolo aggiuntivo, chiamato “servizio del debito” e pagato da noi tutti con la benedizione bipartisan della nostra acquiescente classe politica.

Coi suddetti meccanismi, non solo si ha trasferimento di ricchezza dal mondo reale del lavoro a quello parassitario della finanza, ma il tutto avviene in un regime fiscale enormemente condiscendente verso le banche, stimolando di conseguenza i pubblici poteri a sopperire ai mancati introiti cercandoli, oltre che nelle buste paga e pensionistiche, nelle botteghe, con un rigore degno di miglior causa. Che poi, nonostante questo volume di entrate, le banche vengano oggi a pianger miseria, chiedendo ulteriori emungimenti dei cittadini per pagare le loro follie mercatistiche, si configura come l’ultimo spregio degli onesti, costretti a rischiare di esserlo un po’ meno a causa di chi non lo è affatto.

Sulla scia di questa caccia al tesoro, di questo prelievo di sangue dal mondo che lavora a favore di quello che non produce altro che carta e norme spesso assurde, talora idiote (si pensi all’obbligo dei fari accesi in pieno sole, in barba al risparmio energetico), aspettiamoci una valanga di fallimenti nei prossimi mesi: esito finale di un sistema che causa la morte del parassitato e, purtroppo ultimo, del parassita.

    

Marco Giacinto Pellifroni                 19 ottobre 2008