 Marcello
Veneziani |
Chi sono i milanisti? Sembra ovvio rispondere: i tifosi del Milan, fieri
avversari degli interisti, tifosi dell’altra grande squadra meneghina.
Eppure non è più così ovvio da quando il noto ideologo della nuova
destra italiana Marcello Veneziani ha operato un’ardita trasposizione
semantica dell’epiteto, definendo (o bollando) “milanisti” e “milaniste”
i fanatici e le fanatiche insegnanti che
– a suo dire – “venerano”
il “testo sacro” del “cattivo maestro” don Lorenzo Milani, |
responsabile della famigerata
Lettera a una professoressa, che tanti guasti ha prodotto nella
nostra scuola, che tanto in salute evidentemente non era se è
bastato un “libretto bianco” scritto in una sperduta parrocchia del
Mugello a provocare un’onda d’urto tale da azzerarla
e quindi da
– sempre secondo il neo- pedagogista Veneziani - “lasciare i
ragazzi in balia della fortuna” (cfr. “Quel santo parroco che
sfasciò l’istruzione” su
Libero del 25/09/08)
Ora qui non si tratta di tifare per il priore
di Barbiana o per i più o meno autorevoli liquidatori postumi della
sua attività pedagogica (tra cui lo scrittore “di sinistra”
Sebastiano Vassalli), né di autonominarsi avvocati difensori o
pubblici ministeri nei confronti di un prete che riesce ad essere
ancora così scomodo a quarantuno anni dalla sua morte precoce per
cancro polmonare, e che sapeva difendersi benissimo da sé; no, qui
si tratta di vagliare con scrupolo scientifico gli argomenti e i
principi etico-valutativi in base ai quali si giudica don Milani “un
cattivo maestro del 68”,
un maestro “improvvisato e sbagliato” (questa è la valutazione del
preside ed ispettore scolastico Roberto Berardi in
Lettera a
una professoressa. Un mito degli anni sessanta,
1992), che – rincara Veneziani -
“armò
di arroganza tanta ignoranza”; e inoltre favorì, “come scrisse
Vassalli su la Repubblica
del 4 luglio 1992, la fuga dalle scuole pubbliche in quelle private,
perché don Milani cominciò a buttare via i libri e i suoi seguaci
sessantottini buttarono via tutto il resto”. Giudizi drastici, come
si vede, e inappellabili. Dunque non fu vera gloria? Dunque
l’esperienza della scuola di Barbiana e le sue idee ispiratrici
(insieme all’art. 3 dell’ancora vigente Costituzione) sono tutte da
buttare? Dunque si sbagliano di grosso quei docenti universitari di
pedagogia generale che considerano l’opera di Lorenzo Milani una
testimonianza di dedizione all’idea di scuola intesa come missione,
come dovere di educare a tempo pieno all’amore per la giustizia, per
la verità e per il prossimo? E, insomma, dobbiamo dimenticare
la
Lettera
a una professoressa e seppellirla
definitivamente nel piccolo cimitero di Barbiana insieme al
controverso maestro e priore? Ma esaminiamo punto per punto
l’argomentare di Veneziani così come viene svolto nell’articolo
sopra citato e, prima, nel suo pamphlet contro “quarant’anni di
conformismo di massa”, il cui titolo è già, come suol dirsi, tutto
un programma:
Rovesciare il ’68
(Mondadori, 2008). Punto primo: è stato un
errore, anzi, “una bestialità” definire la selezione “un peccato
contro Dio e contro gli uomini”. Non è vero che la scuola fosse
classista,
“ma al contrario faceva saltare le
classi sociali perché faceva risaltare le capacità personali, il
valore del singolo rispetto alla provenienza e all’appartenenza”.
Già, proprio come nell’esercito napoleonico, in cui i gradi non
dipendevano dalla famiglia ma dal valore, dal coraggio e, in certi
casi, dalla fortuna. E poi è noto che i Licei classici e scientifici
sono stati pensati per favorire i ceti meno abbienti e le
popolazioni rurali: “Al mio liceo il preside era figlio di contadini
e da ragazzo faceva il contadino pure lui; e il professore di
lettere era figlio di trovatelli”. Ecco perché ci si stava avviando
verso una società senza padri. La scuola gentiliana (e crociana)
dunque non era né borghese né proletaria, né classista né
anticlassista, “ma una leva per emanciparsi, persino un mezzo di
rivalsa rispetto ai ricchi, pigri e viziati, che non erano abituati
ai sacrifici”. Era dunque il campo per una competizione ad armi pari
per la conquista
di posizioni sociali o postazioni
dirigenziali, di comando e di potere economico e politico: “La
selezione dei più bravi aveva permesso il loro riscatto sociale”.
Acculturazione compresa.
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Don Milani |
Punto secondo: “Quanto male hanno fatto alla scuola le sue tirate
contro la cultura, la filosofia, la pedagogia, la letteratura, i
classici e Dante, la sua idea di ridurre i libri a uno solo da
leggere collettivamente come in un soviet dell’ignoranza?”. Forse le
sue “tirate” erano contro una certa cultura, una certa filosofia,
una certa pedagogia, una certa letteratura, un certo modo di leggere
(e di usare) i classici e Dante; ma queste evidentemente sono
sottigliezze e sofisticherie intollerabili per i lettori di Libero a cui si rivolge il
selettivo Veneziani. Quanto al “soviet dell’ignoranza” conviene
seguire l’incauto invito dell’autore a tornare alle fonti, cioè al
“testo sacro” di quel “generoso utopista”, venerato ma non ben letto
né compreso dalla “tifoseria milanista”.
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“A Barbiana non passava
giorno che non s’entrasse in problemi pedagogici. Ma non con questo
nome. Per noi
avevano sempre il nome preciso di un
ragazzo. Caso per caso, ora per ora. “(pag. 120); “Quando avrete
dato al Vangelo il posto che gli spetta la lezione di religione
diventerà una cosa seria. Si tratterà solo di guidare i ragazzi
nell’interpretazione del testo. Lo potrebbe fare il prete e magari
in discussione con un professore non credente, ma serio. Cioè che
conoscesse il Vangelo quanto lui. Nella ricerca di questi professori
verranno a galla i limiti della vostra cultura.” (pag. 121);
“Un’altra materia che non fate e che io saprei è educazione civica.
Qualche professore si difende dicendo che la insegna sottintesa
dentro le altre materie. Se fosse vero sarebbe troppo bello. Allora
se sa questo sistema, che è quello giusto, perché non fa tutte le
materie così, in un edificio ben connesso dove tutto si fonde e si
ritrova?” (pag. 123); “Il fine ultimo è dedicarsi al prossimo. Ma
questo à solo il fine ultimo da ricordare ogni tanto. Quello
immediato da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e
farsi intendere. E non basta certo l’italiano, che nel mondo non
conta nulla. Gli uomini hanno bisogno d’amarsi anche al di là delle
frontiere. Dunque bisogna studiare molte lingue e tutte vive.” (pag.
94). Credo che sul tema dell’ignoranza (di chi?) possa bastare.
Punto terzo: “Don Milani è l’idolo di molti
insegnanti di oggi, ovunque mi attaccano per lesa santità di Lui; è
il loro antiGelmini, oltre che il maestro nascosto del
catto-comunismo e del veltronismo, che non a caso elesse ‘I care’ a
motto del suo partito.” Chi l’avrebbe mai sospettato? Vergogna! Non
pago di aver armato di arroganza gli ignoranti, di aver preparato il
terreno al Sessantotto, di aver sfasciato l’istruzione nazionale,
quel santo parroco è anche all’origine del nefasto buonismo
veltroniano! Avesse scelto come motto della sua scuola “Me ne
frego”, avrebbe fatto meglio. Volete mettere la serietà e la
profondità della visione pedagogica del ministro Gelmini? Infatti,
non c’è confronto possibile.
Punto quarto: “La brutta
scuola d’oggi è figlia dei begli ideali di ieri. A don Milani
preferiamo un suo concittadino e coetaneo, scrittore in ombra, morto
alla stessa età l’anno prima: il terziario francescano Attilio
Mordini. Lui capì che la scuola senza educazione, tradizione e
meritocrazia non ha più un ruolo e a farne le spese sono più i
poveri che i benestanti.” Se gli ideali di ieri hanno generato un
mostriciattolo significa che tanto belli non erano, qui Veneziani
usa l’aggettivo “begli” in senso ironico. La frase va dunque
corretta così: “La brutta scuola d’oggi è figlia dei brutti ideali
di ieri. “ E quali erano gli ideali di ieri, cioè del
Sessantotto? Ahimé, gli stessi
dell’Ottantanove, del Quarantotto, del Diciassette: uguaglianza,
libertà, fraternità; ideali mai completamente realizzati, a cui
continuano a guardare gli irriducibili (e ingenui) utopisti del
nostro tempo. Tra questi non figura certo lo scrittore-teosofo che
Veneziani contrappone al cattivo maestro da rovesciare insieme alla
sua non “bella scola”:
alla falsa rivoluzione sessantottesca è ora di sostituire l’unica
vera trasgressione, cioè la Tradizione.
Però bisogna stare
molto attenti perché di tradizioni ce ne sono due; lo spiega il
Mordini stesso nel suo fondamentale saggio
Il
mistero dello Yeti: quella buona dei
“figli di Dio”(Set, Enosh, Kenan, Noé e i loro figli e figlie), e
quella dei Cainiti maledetti da Dio (Henoch, Irad, Tubal-Kain, Naama
e discendenti), come risulta da un’attenta lettura della Genesi.
Attenzione, quindi, a non sbagliare al momento di scegliere la Tradizione
a cui si vuole appartenere.
Punto quinto (e ultimo): “Spiace dirlo, ma non
siamo tutti speciali. Non scambiate il desiderio con la realtà e
l’immaginazione con la vita vera. Siamo tutti diversi, sì, ognuno ha
qualcosa di specifico e irripetibile, di strettamente personale. Ma
non siamo tutti speciali. Anzi prevalgono i mediocri, i banali, i
comuni. Anche tra i sessantottardi. Ogni genio ha mille imbecilli
pro capite.” Giusto; non si poteva dir meglio. O forse sì: “ Cercasi
un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel
ragazzo null’altro che d’essere uomo.” Che sia questa la vera
rivoluzione?
FULVIO SGUERSO
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